“Not Utopia, But Eutopia”. Il lavoro e il ruolo dell’economia per Keynes (di Andrea Mattarollo, 3/2/2017)

   Mi riallaccio al contenuto del precedente post di Mario Fadda, che si conclude con la riflessione di Einstein sul ruolo delle Élite industriali ai suoi tempi.
Da tempo mi sto documentando, tra le altre cose, sulla figura di un suo contemporaneo, che ha avuto -come lui – un posto di rilievo nell’edificazione del secolo che ci siamo lasciati alle spalle: J.M. Keynes.keynes_Layout-1[1] Continua a leggere ““Not Utopia, But Eutopia”. Il lavoro e il ruolo dell’economia per Keynes (di Andrea Mattarollo, 3/2/2017)”

Sul lavoro e i suoi conflitti permanenti (di Mario Fadda, 3/2/2017)

   A margine della riflessione sul lavoro, che anch’io ritengo centrale, voglio condividere una considerazione di quanto credo debba accompagnare tale questione primaria.

   L’elenco delle situazioni di conflitto, di irregolarità oltre i limiti di legge, di violenza quotidiana è infinito e sconvolgente. Non c’è giorno che non veniamo assaliti da notizie su illeciti di varia gravità e, specularmente, su interventi della legge, che avviano procedure destinate in moltissimi casi a concludersi dopo itinerari lunghissimi, con un nulla di fatto. Continua a leggere “Sul lavoro e i suoi conflitti permanenti (di Mario Fadda, 3/2/2017)”

un “nuovo confronto” di collegamento e scambio

 

Dedichiamo un ricordo a LUCIO PEROSIN, mancato il 28 marzo del 2016, nel modesto tentativo di prosecuzione della “sua” rivista “CONFRONTO”, strumento di dibattito e riflessione importante.lucio perosin

QUALCHE RIFLESSIONE SUL LAVORO CHE CAMBIA…

di Lucio Perosin, 1-3-2015

– premessa tenuta da Lucio all’incontro del MFE – Movimento Federalista Europeo (“Ufficio del Dibattito” semestralmente organizzato da Lucio in Veneto in varie località), il 1/3/2015, presso la Comunità Stimmatini di Sezano, vicino a Verona –

   Un titolo un po’ minimalista questo (…il lavoro che cambia…), che sottende problemi ben più profondi quali per esempio il fenomeno della mondializzazione che sta comportando mutamenti così radicali nella struttura del lavoro e dell’occupazione quali non avevamo finora ancora conosciuto. Ecco alcuni spunti per il dibattito.

   La prima riflessione da fare riguarda il significato del lavoro e la sua importanza per la singola persona e la società. E’ preliminare ad ogni altro ragionamento e considerazione. Specie per chi il lavoro non ce l’ha, ma anche per chi ce l’ha…

   In secondo luogo bisogna riflettere su come è cambiato il lavoro con la rivoluzione tecnologica e sulle conseguenze che ne derivano. L’automazione libera l’uomo dalla fatica del lavoro manuale… Ma esiste il rischio di un lavoro o di una prestazione frustrante. Come pure esiste il rischio che soprattutto nella fase di transizione, la massima occupazione sia niente più che un miraggio o un’illusione. In un tipo di società comunque in cui non troveranno occupazione più di due terzi della forza lavoro e in cui il lavoro a tempo pieno e per tutta la vita è finito, come dovremo predisporci a gestire il cambiamento a livello personale e sociale? Da più parti si arriva a invocare il ruolo strategico che sempre più deve avere l’individuo nel crearsi un lavoro, nel mettere in piedi un lavoro indipendente e appagante in una prospettiva anche di lavoro socialmente rilevante e di utilità comune. Che ne pensiamo?

   In terzo luogo bisogna riflettere su come è cambiato il lavoro con la globalizzazione. Due punti importanti da chiarire: il primo è se lo spostamento dai paesi ricchi ai paesi poveri di parte della produzione mondiale, è un processo auspicabile. A me la risposta sembra ovvia. Il secondo punto da affrontare è se il miglioramento dei paesi poveri corrisponde a un peggioramento più che proporzionale dei paesi ricchi (infatti l’accoppiata tecnologie-bassi salari e bassi oneri sociali è tra gli eventi possibili). In questo caso come va guidato il processo per impedire o attenuare l’impatto? E nel lungo periodo cosa succederà? Si dice che i salari dei paesi poveri si allineeranno a quelli dei paesi ricchi, dopo che questi avranno registrato una graduale flessione. E che questo nuovo livello salariale, comune a tutti, avrà incorporato un potere d’acquisto maggiore, sia per il minor costo di produzione delle merci, sia per la maggiore produttività delle nuove tecnologie. Staremo cioè tutti meglio. Il processo quindi sarebbe socialmente auspicabile e non traumatico individualmente. Sarà vero?

   Un quarto punto sull’importanza dello stato sociale (a livello globale). In questa situazione occorre che i paesi ricchi e poveri sintonizzino le grandi scelte dello sviluppo. Il problema prioritario, quello più grave e urgente dal punto di vista dell’evoluzione politica del mondo, è il tipo di stato Sociale che meglio si adatta a questo nuova fase dello sviluppo capitalistico. Il problema più difficile da risolvere è convincere i governanti a realizzare dappertutto uno stato sociale minimo, per fronteggiare gli attacchi rivoltigli dalla competizione commerciale internazionale. La definizione di standard minimi deve diventare materia negoziale per evitare che la concorrenza sleale dei paesi senza rete sociale imponga l’esigenza di ridurre l’assistenza pubblica alla disoccupazione anche laddove necessaria. Se non si facesse niente in questo senso invece di avanzare sulla strada della civiltà, si tornerà indietro e si condannerà l’umanità ad uno stato di sub-umanità in nome delle esigenze della globalizzazione delle economie. I paesi ricchi debbono richiedere e in qualche modo imporre a quelli poveri di impostare e di avviare a realizzazione una politica che punti ad applicare standard sociali minimi, pena l’imposizione di una tariffa compensativa di social dumping. Per impedire l’uso di questo strumento a fini protettivi tradizionale, la gestione va affidata ad organizzazioni internazionali (per es. al WTO).Tariffe compensative il cui gettito andrebbe a finanziare l’avvio della rete di protezione. Questo compito non spetta al mercato ma alla politica.

   Altro punto cruciale è il problema del rapporto tra economia e politica. Sembra che le oligarchie che controllano il mercato internazionale non mostrino sensibilità sociale: se lo Stato del benessere costa e rende difficile la concorrenza lo si riduce o lo si elimina, dove c’è, o si impedisce il suo nascere, dove ancora non opera. L’Unione Europea pretende rigidità fiscale, mentre il fisco dovrebbe essere manovrato con elasticità, sia per raggiungere obiettivi strutturali, sia per influenzare i cicli recessivi o eccessivamente espansivi. Essa impone che chi non ha il 3% di disavanzo deve raggiugerlo ad ogni costo.

   Ciò è dovuto al fatto che non stiamo costruendo una nuova e più ampia società, ma solo un mercato dove vige un regime di democrazia finanziaria che, assegnando al mercato il compito di fissare il costo del denaro, premia il rentier e penalizza l’imprenditore produttivo. Riconosce infatti un tasso dell’interesse reale positivo, anche se il capitale produttivo rende mediamente meno. In tal modo si crea disoccupazione.

   Ciò lascia indifferenti le oligarchie finanziarie ed economiche, purché il capitale renda di più. Se la politica volesse, potrebbe cambiare lo stato di cose, le regole del gioco monetario ed economico internazionale. Se i governanti europei si fossero prefissi di riacquistare la sovranità monetaria, invece del solo controllo dei disavanzi pubblici, chiedendo alle banche centrali di attuare questo disegno, forse sentiremmo l’Europa più vicina e più civile del resto del mondo. Il combinato effetto dello sviluppo tecnologico e della concorrenza in social dumping sta creando condizioni precarie nel mercato mondiale del lavoro.

   La politica deve muoversi lungo tre direttrici: 1- ridurre l’elevato costo del denaro rispetto al più basso rendimento del capitale reale per dare slancio e vigore all’iniziativa imprenditoriale; 2-rendere più elastico e meno burocratizzato il mercato del lavoro con istituti contrattuali che consentano di avvicinare e sintonizzare domanda e offerta di prestazioni lavorative e investendo sulla scuola e l’istruzione professionale; 3-eliminare o minimizzare il social dumping mediante il meccanismo tariffario e politiche che non emarginino i paesi poveri dallo sviluppo mondiale.

   Un’ultima riflessione sul superamento dello sfruttamento del lavoro (o sogno rivoluzionario). La riflessione che segue interroga chi un tempo (ma oggi ce ne sono ancora?) credeva nella palingenesi sociale o, come si soleva dire allora, nella rivoluzione. “La fatica specifica connessa al lavoro manuale e al lavoro esecutivo sarà ridotta nella misura della riduzione o eliminazione della manualità o dell’esecutività. Essa è connessa alla disumanizzazione e allo sfruttamento del lavoro umano e proviene dal tipo di organizzazione del lavoro, individuale e sociale. Ma non si elimina lo sfruttamento o l’ingiustizia come tali, e tanto meno definitivamente.

   Si possono eliminare quegli sfruttamenti o quelle ingiustizie connesse con determinati e definibili errori contro la condizione umana (come ad es. l’autosfruttamento di un singolo che riduce la sua vita a lavoro esecutivo per accumulare il maggior numero di beni; lo sfruttamento del sistema capitalistico di organizzazione del lavoro e del suo rapporto coi bisogni).

   Ma eliminando questi tipi di sfruttamento, non si elimina lo sfruttamento della vita umana e nemmeno dell’organizzazione sociale, ma quel determinato tipo di sfruttamento. In conclusione, la riduzione di pene, sfruttamenti, disumanizzazioni del lavoro non sono diminuzioni del male e avvento della giustizia come tali, ma sono passi della realizzazione dell’uomo umano… (Lucio Perosin)

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