DRAGHI: ALL’EUROPA SERVE UN CAMBIO RADICALE  

Questo è il testo dell’intervento tenuto martedì 16 aprile (2024) da Mario Draghi a Bruxelles, alla “Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali”; è una parte del report (commissionatole da Ursula von der Leyen come “via del futuro” europeo, che sarà completato entro fine giugno) sulla competitività dell’economia europea.

   Buongiorno a tutti. In un certo senso questa è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi come si stanno delineando la struttura e la filosofia di quello che sarà il mio rapporto.

   Per molto tempo la competitività è stata una questione controversa per l’Europa. Nel 1994, il futuro economista premio Nobel Paul Krugman definì l’attenzione alla competitività una “pericolosa ossessione”. La sua tesi era che la crescita a lungo termine deriva dall’aumento della produttività, che avvantaggia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la propria posizione relativa rispetto agli altri e acquisire la loro quota di crescita. L’approccio adottato nei confronti della competitività in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrava dimostrare la sua tesi. Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale.

   Ma la questione fondamentale non è che la competitività sia un concetto errato. Il fatto è che l’Europa ha avuto un focus sbagliato. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale positiva, dopo tutto, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività all’estero come una seria questione politica. In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa.

   Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro. La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori e minacciando di indebolire le nostre industrie.

   Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini – compresa quella delle aziende europee –mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento. Non abbiamo mai avuto un “accordo industriale” equivalente a livello UE, anche se la Commissione ha fatto tutto ciò che era in suo potere per colmare questa lacuna.

   Pertanto, nonostante una serie di iniziative positive in corso, manca ancora una strategia generale su come rispondere in molteplici aree. Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina, anche per la difesa, e abbiamo solo quattro attori tecnologici europei globali tra i primi 50 a livello mondiale. Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali.

   Un esempio calzante è rappresentato dalle industrie ad alta intensità energetica. In altre regioni, queste industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere. Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’UE.

   E ci manca una strategia per garantire di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze. Abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa in Europa e obiettivi ambiziosi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica.

   La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: preCovid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze.

   Ma abbiamo bisogno di un’UE adatta al mondo di oggi e di domani. (…) Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deeptech e nel digitale.

   Ma poiché i nostri concorrenti si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Nella mia relazione ci concentriamo su dieci di questi macrosettori dell’economia europea. Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici. Tuttavia, nella nostra analisi emergono tre filoni comuni per gli interventi politici.

   Il primo filo conduttore è consentire la scalabilità. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere economie di dimensioni continentali per generare scala, aumentare gli investimenti e conquistare quote di mercato per i settori in cui conta di più. In Europa abbiamo lo stesso vantaggio in termini di dimensioni naturali, ma la frammentazione ci frena. Nel settore della difesa, ad esempio, la mancanza di scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea, un problema riconosciuto nella recente Strategia europea per l’industria della difesa. I primi cinque operatori negli Stati Uniti rappresentano l’80 per cento del suo mercato più ampio, mentre in Europa ne costituiscono il 45 per cento.

   Questa differenza deriva in gran parte dal fatto che la spesa per la difesa dell’UE è frammentata. I governi non appaltano molto insieme – gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20 per cento della spesa – e non si concentrano abbastanza sul nostro mercato: quasi l’80 per cento degli appalti negli ultimi due anni proviene da paesi extra UE. Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare gli appalti congiunti, aumentare il coordinamento della nostra spesa e l’interoperabilità delle nostre attrezzature e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali.

   Un altro esempio in cui non stiamo sfruttando la scala è quello delle telecomunicazioni. Abbiamo un mercato di circa 450 milioni di consumatori nell’UE, ma gli investimenti pro capite sono la metà di quelli degli Stati Uniti e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e della fibra. Uno dei motivi di questo divario è che in Europa abbiamo 34 gruppi di reti mobili – e questa è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più – che spesso operano su scala nazionale, contro tre negli Stati Uniti e quattro in Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente le normative sulle telecomunicazioni tra gli Stati membri e sostenere, non ostacolare, il consolidamento.

   E le dimensioni sono cruciali, in modo diverso, anche per le giovani aziende che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le proprie idee, il che a sua volta richiede un ampio mercato interno. E la scala è essenziale anche per lo sviluppo di farmaci nuovi e innovativi, attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’UE e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta questa ricchezza di dati di cui disponiamo, se solo potessero essere standardizzati.

   In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e a migliorarlo. Potremmo affrontare questo ostacolo, tra le altre cose, rivedendo l’attuale regolamentazione prudenziale sui prestiti bancari e istituendo un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.

   Il secondo filone riguarda la fornitura di beni pubblici. Laddove ci sono investimenti da cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può portare a termine da solo, abbiamo validi motivi per agire insieme, altrimenti non forniremo risultati adeguati rispetto alle nostre esigenze: non forniremo risultati soddisfacenti in termini di clima, ad esempio nella difesa, e anche in altri settori.

   Nell’economia europea esistono diversi punti di strozzatura in cui la mancanza di coordinamento fa sì che gli investimenti siano inefficienti. Le reti energetiche, e in particolare le interconnessioni, ne sono un esempio. Si tratta di un chiaro bene pubblico, poiché un mercato energetico integrato ridurrebbe i costi energetici per le nostre aziende e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future – un obiettivo che la Commissione sta perseguendo nel contesto di REPowerEU. Ma le interconnessioni richiedono decisioni sulla pianificazione, sul finanziamento, sull’approvvigionamento di materiali e sulla governance che sono difficili da coordinare – e quindi non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia se non raggiungiamo un approccio comune. (…)

   Il terzo filo conduttore è garantire la fornitura di risorse e input essenziali. Se vogliamo realizzare le nostre ambizioni climatiche senza aumentare la nostra dipendenza dai paesi su cui non possiamo più fare affidamento, abbiamo bisogno di una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento minerale fondamentale. Attualmente stiamo in gran parte lasciando questo spazio agli attori privati, mentre altri governi guidano direttamente o coordinano fortemente l’intera catena.

   Abbiamo bisogno di una politica economica estera che offra lo stesso risultato alla nostra economia. La Commissione ha già avviato questo processo con la legge sulle materie prime critiche, ma abbiamo bisogno di misure complementari per rendere i nostri obiettivi più tangibili. Ad esempio, potremmo prevedere una piattaforma europea dedicata ai minerali critici, principalmente per gli appalti congiunti, la sicurezza dell’approvvigionamento diversificato, la messa in comune, il finanziamento e lo stoccaggio. (…)

   I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. (MARIO DRAGHI, 16/4/2024)

IL FUTURO NON È IMPOSSIBILE (di MARIO DRAGHI, da “IL FOGLIO” del 16/2/2024)

“I cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e vogliono preservarla”. Dalla globalizzazione al nuovo mondo. Il discorso a Washington per il premio Paul Volcker alla carriera

(Mario Draghi, da “IL FOGLIO” del 16/2/2024)

– Reshoring delle industrie, crisi sanitarie e climatiche, le democrazie alla prova della guerra. Come rispondere – L’Europa, le politiche fiscali. Serve uno spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita –

   Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, avevano grandi aspettative riguardo alla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale. Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici e lo stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale. Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando disse che “nessuna nazione al mondo ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee straniere alla frontiera”. (…)

   Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento del tenore di vita mai visto nella storia. Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. Affinché i mercati aperti tra i paesi siano sostenuti, è necessario che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie a cui tutti i paesi partecipanti si devono attenere. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio.

   Pertanto, l’ordine del commercio mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsivoglia paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non avrebbe favorito i propri interessi a breve termine. (…) Le conseguenze di questa scarsa conformità sono state economiche, sociali e politiche. La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, le cui conseguenze i responsabili politici hanno tardato a riconoscere. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie nascenti dalla concorrenza estera. Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo, volte a creare eccedenze commerciali e a limitare l’aggiustamento del mercato. (…)

   Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei paesi che ne erano più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti. (…) Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche. La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. (…). E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere il “net zero” in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Ue danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

   Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli choc a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli choc della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di choc positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui. Ora, mentre guadagna posti nella catena del valore, la Cina non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino choc negativi dell’offerta più frequenti, più lenti e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

   E’ probabile che questi choc dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito. (…) In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. (…)

   Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino. La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria. (…) La politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono mitigare gli effetti degli choc dell’offerta sul pil con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo choc energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni paesi dell’Ue, come l’Italia, hanno compensato fino al 90 per cento della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

   Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali.

   Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione. Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del pil. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’èra della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

   Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

   Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’intelligenza artificiale potrebbe essere d’aiuto.

   Ma per fare tutto questo in tempi rapidi sarà necessario un mix di politiche adeguato: un costo del capitale sufficientemente basso per anticipare la spesa per investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di stato laddove siano giustificati.

   Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più sensibile alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

   Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche, cosa che la nostra architettura di politica macroeconomica non è stata progettata per fornire. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine.

   Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

   Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

   In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali sul fatto che la spesa pubblica di oggi, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

   In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleviando alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’Ue è più programmatica – spesso si estende su più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte a che la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.

   In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le Banche centrali dovrebbero assicurarsi che la bussola principale per le loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra crescita salariale di recupero e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

   In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o l’indipendenza. Questa bussola permette di distinguere con precisione gli choc temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o i prezzi più elevati delle materie prime legati all’aumento degli investimenti, dai rischi di inflazione generalizzata.

   Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

   Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune. (MARIO DRAGHI)

L’etica della cura: una nuova prospettiva (di SANDRO ANTONIAZZI, dal sito C3DEM)

Carol Gilligan è un’attivista femminista fra le più celebri al mondo, docente della New York University e autrice di “Con voce di donna” (1982) e “La nascita del piacere” (2002), fra i libri femministi più influenti di tutti i tempi. (foto da https://www.vandaedizioni.com/)

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L’ETICA DELLA CURA: UNA NUOVA PROSPETTIVA, di Sandro Antoniazzi, dal sito C3DEM (Costituzione Concilio Cittadinanza) https://www.c3dem.it/, 26/3/2023

Che cos’è l’etica della cura?

La parola cura ha molti significati.   Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.

   La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).

  Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.

   Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.   Consideriamo alcune di queste situazioni.

   Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.   Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).

   E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.    Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.   Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.

   Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.   Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).   Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.

   L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.   Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).

   Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.   Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.   Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.

   Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.   Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?

   Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.   E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.  

   La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.   Questa cura dell’ambiente porta a sua volta a riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.   Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.   E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?

   Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite. 

Nascita e sviluppo dell’etica della cura

Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a CAROL GILLIGAN, psicologa allieva di KOHLBERG, e al suo libro “CON VOCE DI DONNA”.

   Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.

   Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.   Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di JOAN TRONTO, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.

   Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.   Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di RAWLS, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.

   Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.   Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.

   Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

La cura in campo sociale

Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.   Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.   Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.

   Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.   Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.   In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.   In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).

   Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.   L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.   Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?

   Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.   Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?

   E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale?   Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.

   Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.

   Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.   Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.   In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.   Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.

   Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).   E si può aggiungere rispetto a Marx, e soprattutto alla tradizione marxista, non solo e non tanto per lo sfruttamento (concetto “economico” che indica la differenza tra il lavoro dell’operaio e il suo prodotto complessivo), ma prima e ancor più per l’oppressione, cioè per la condizione di dipendenza in cui si trova il lavoratore, che limita la sua libertà e dignità.

   L’altra tesi fondamentale, sempre collegata all’interpretazione del lavoro intellettivo e affettivo come carattere dominante dell’economia attuale, è che ormai sarebbe difficile distinguere tra lavoro e vita; praticamente l’intera vita costituirebbe un contributo/partecipazione all’economia capitalistica.   Si può riconoscere un minimo di plausibilità a questa tesi, ma indubbiamente entro limiti ben più ristretti da quelli invasivi sostenuti da questi pensatori.

   Prendiamo, ad esempio, un tipico lavoro moderno, quello effettuato al computer: molti di questi lavori sono ripetitivi e non vanno al di là dell’inserimento di dati, registrazioni standard, controlli predefiniti, invii periodici, ecc… In pratica, per molti versi, si presenta come un lavoro tayloristico, col computer invece della catena di montaggio.   Se ci sono lavori dove il contributo intellettivo e affettivo è rilevante questo va adeguatamente retribuito: ma in realtà le imprese lo sanno bene e retribuiscono in modo congruo questi lavoratori, spesso essenziali per la produzione aziendale.

   Se la motivazione a giustificazione del Reddito di base, individuata nel contributo generale all’economia e alla società, si presenta debole, non mancano altre motivazioni a sostegno: il paese è ricco e dunque una parte della ricchezza può essere distribuita a tutti, il sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione non funziona più e quindi sono necessarie altre soluzioni, si favorirebbe l’eguaglianza, si consentirebbe maggiore libertà nella scelta del lavoro, ecc…

   Non entriamo nel merito di tutte queste giustificazioni, che in genere tendono ad accumularsi tra loro, limitandoci a sostenere che per quanto la proposta possa presentarsi allettante, incontra una difficoltà impeditiva al momento insuperabile, che è rappresentata dall’onere finanziario della misura.

   Pur calcolando un’ipotesi bassa di reddito garantito – quantificabile in 500 euro mensili – si avrebbe una spesa annua di 360 miliardi (500 euro x 60 milioni di persona x 12 mesi), che rappresenta più della metà delle entrate previste dallo Stato per il 2023 (672 miliardi); spesa chiaramente insostenibile.   Peraltro, il paese sarà ricco a livello dei privati, ma non certamente a livello pubblico, perché come è noto lo Stato italiano ha un debito molto elevato (in Europa siamo secondi, superati solo dalla Grecia).

   Sono proposte che vanno tenute presenti anche se al momento impraticabili, magari utilizzabili per soluzioni parziali e comunque da discutere bene, soprattutto per non perdere il valore del lavoro, di cui si deve certamente avere cura.

La cura del pianeta

Il termine “cura del pianeta” propone immediatamente uno scenario vastissimo cui corrisponde un ipotetico programma altrettanto smisurato.

   Se alla base si esprime un’istanza etica indubbia, prevale però lo spessore politico della proposta: si tratta, si può ben dire, di cambiare il mondo e ciò chiama in causa tutti, le organizzazioni internazionali, i governi, le imprese, le singole persone.   Ognuno ha la sua responsabilità e il suo compito in quest’opera, ognuno non solo è utile, ma necessario, se si intende salvare il pianeta.

   Naturalmente diverso è il contributo che si chiede alle persone da quello che si chiede alle istituzioni: alle persone si chiede di estendere la loro “cura” dalle persone all’ambiente in cui vivono; verso le istituzioni si svolge un’opera di pressione con documenti, manifestazioni, sit-in, proteste perché accolgano le raccomandazioni di intervento a favore dell’ambiente.   L’esempio e la forza che viene dalle esperienze di base è una condizione essenziale per essere credibili e per poter contare nei confronti delle istituzioni.

   Ma non è mai facile per il singolo cittadino comprendere i grandi problemi a livello mondiale, spesso complessi anche tecnicamente; e poi gli Stati hanno tante posizioni diverse in base al loro grado di sviluppo economico delle loro risorse, della loro collocazione geopolitica.

   A livello delle persone l’etica della cura dovrebbe preoccuparsi di formare una cultura (una coscienza) sui problemi ambientali, sapendo che per curare il pianeta sarà necessario modificare il nostro modello di vita facendo anche delle rinunce (come sta già avvenendo per l’energia e come già si sta programmando per l’auto o per l’acqua).   E significa anche aver presente che nel mondo esistono tante culture diverse, che vanno comprese e con cui bisogna dialogare, se effettivamente si ha a cuore l’intero pianeta.   Sui problemi ambientali, e più in generale sui temi in cui sono coinvolte le istituzioni, è preminente senza dubbio l’etica della giustizia.

   Ora il confronto tra l’etica dominante e quella della cura diventa più stringente e più determinante, perché la cura ha molto da dire sulle decisioni che si assumono e sul modo di vedere i problemi.   Giustamente alcune associazioni di provenienza femminista e ambientalista parlano di “società della cura”, come una finalità a cui tendere nel proprio impegno: una società fatta di persone che si curano degli altri e dell’ambiente e una società dove le decisioni sulla vita comune sono prese insieme con cura.

   L’etica della cura non ha un modello di società da proporre, anche la “società della cura” non è una forma di società definita; se tutti ci preoccupiamo, ci prendiamo cura, allora la vita di tutti e la convivenza certamente migliora.

Conclusione

L’etica della cura porta nel campo dell’etica una novità importante: invece di partire dal modello dell’essere umano perfetto, razionale, autosufficiente, prende come base l’essere umano reale, in quanto tale fragile vulnerabile.

   Lo è particolarmente nella prima fase della vita e nella tarda età, ma lo è in tante altre occasioni della vita (malattie, separazioni, disoccupazione, perdita di persone care, ecc…); più profondamente l’essere umano è ontologicamente in una condizione di fragilità (basta pensare che è destinato a morire).   Abbiamo dunque bisogno delle relazioni, di ricevere e di dare cura: si diventa persone attraverso altre persone.   Dunque, la relazione, la cura, è parte sostanziale della nostra vita. Non dobbiamo crearla o inventarla, dobbiamo piuttosto viverla nel modo migliore.

   Ogni giorno abbiamo rapporti, coi nostri familiari, coi vicini, coi compagni di lavoro: la cura parte da qui, perché non ci si può interessare della cura del pianeta e non curarsi di chi ci circonda.   Proprio per questo suo carattere vitale la cura deve essere valorizzata.   Il valore della cura non è economico: è un valore umano, morale, perché riguarda il valore che diamo alle persone e ai rapporti tra le persone.

   Ciò vale anche per il lavoro di chi si occupa di cura: se la società ritiene importante la cura, anche il lavoro di cura sarà considerato e valutato.   Dare scarso valore alla cura significa relegare alla marginalità il lavoro sociale.

   La cura non è un’attività tranquilla, non è una panacea, è fondamentalmente conflittuale.   La logica della nostra società, ma anche delle persone, di tutti noi che ne siamo immersi è una logica economica, del guadagno, del profitto; la logica della cura è una logica alternativa a quella dominante: non nega la realtà economica, ma sostiene che le persone e le loro relazioni vengono prima, devono prevalere.   L’etica della cura, dunque, propone un modo di vita che, a partire dalle relazioni di prossimità, possa incidere su un cambiamento più grande, che idealmente interessi l’intera società.

(SANDRO ANTONIAZZI, dal sito C3DEM, Costituzione Concilio Cittadinanza, https://www.c3dem.it/, 26/3/2023)

 

Siamo a un bivio, o liberismo o futuro (di GRAZIA BARONI, da demospiemonte.it)

Una riflessione di Grazia Baroni sulla compatibilità del liberismo con un futuro rispettoso dei diritti delle persone e dell’ambiente (28/3/2023, da https://www.demospiemonte.it/ – democrazia solidale)

   Le crisi aumentano. La crisi umanitaria aumenta, a cominciare da quella dell’immigrazione che non accenna a    diminuire, aumentano i numeri delle persone che cercano la sopravvivenza fuggendo da situazioni di pericolo. Le morti continuano ad aumentare. Aumenta la crisi alimentare, dovuta al cambiamento climatico che sta producendo un’inedita siccità, e alla guerra in Ucraina che è il più grosso granaio del mondo. Aumenta la crisi energetica.
L’emergenza pandemica ha messo in luce l’inadeguatezza della logica del profitto che ha reso inefficiente e insufficiente la struttura dei servizi; a questo si aggiunge una nuova crisi bancaria che di nuovo ribadisce che la logica liberista non funziona, come già era stato evidente con la crisi del ’29, perché non è adeguata all’evoluzione e alla qualità della vita umana e distrugge l’ambiente. Inoltre, questa crisi bancaria colpisce l’Istituto che investiva sulle innovazioni e mette in evidenza che il vecchio modello economico, basato sul consumo e sull’uso delle energie fossili, fa resistenza e il potere consolidato non cede spazio alla ricerca per un cambiamento perché non ha intenzione di perdere i privilegi acquisiti; ma più la corda si tende, più il cambiamento sarà doloroso, come la storia insegna.


La realtà è complessa le risposte devono rispettare la complessità della realtà, altrimenti la toppa sarà peggiore del buco. Certamente il cambiamento climatico non può essere risolto solo sostituendo il motore a endocombustione con un motore elettrico, è necessario un cambiamento di logica.
Gli allarmi sono sempre più pressanti. Quanti morti dovranno ancora esserci prima di capire che la logica liberista non è sostenibile, perché supportata dalla logica del consumo, e non prende in considerazione che il pianeta è limitato nelle sue risorse? Lo sviluppo non si può costruire sulle quantità ma solo sulla qualità a partire da quella della vita umana che comprende il rispetto dell’ambiente. Il benessere dell’essere umano è basato sull’equilibrio delle quantità e sullo sviluppo della qualità. La quantità è incrementabile solo all’interno della logica della condivisione. Smettiamo di pensare in maniera manichea. La vita umana e la natura sono complesse, nell’umiltà di riconoscere che la nostra natura è ancora molto sconosciuta, dobbiamo continuare a crescere nel comportamento democratico per concretizzare la giustizia sociale che ci fa uscire dalla dicotomia tra privilegi e sudditanze, tra ricchezza e povertà, e imboccare finalmente la strada dello sviluppo.
Sarebbe sufficiente limitarsi a usare la quantità di energia che la natura può assorbire e rinnovare. Tuttavia, la cosa evidente è che dobbiamo conoscere meglio come siamo fatti noi e come è fatto il nostro ambiente perché ancora non sappiamo né chi siamo né in quale mondo abitiamo. Questo ci dovrebbe suggerire che l’unico investimento sensato sarebbe sulla conoscenza, sulla sua diffusione e sulla ricerca dei diversi aspetti della realtà.


Veramente qualcuno può credere che il fenomeno dell’immigrazione si possa fermare mettendo fuorilegge le persone che cercano di migliorare la propria qualità della vita o peggio che cercano di fuggire da una realtà di violenza o di fame? Chiamare clandestini persone che cercano di sopravvivere al di fuori della propria terra, perché lì non hanno possibilità di vivere, è solo un modo sbrigativo, volutamente ignorante se non addirittura offensivo per escluderle dal consesso civile, per timbrarle come inadatte alla convivenza sociale.
La democrazia se inizi a difenderla, la perdi. Bisogna praticarla, cioè condividerla, migliorandola. Questo è un criterio di riferimento. Bisogna esercitarci a uscire dalla logica dei previlegi e usare la creatività per inventarci soluzioni nuove.
Non si deve far diventare l’Europa una fortezza chiusa ma si deve cercare di realizzare sempre meglio i principi democratici per far emergere la convenienza del sistema democratico, per chi vuole governare, perché il modello democratico è basato proprio sull’aumento della qualità della vita e quindi richiede partecipazione a progetti comuni, in modo che i governi degli altri paesi attualmente presenti prendano come modello la democrazia. Il modello autocratico che si fonda su pochi previlegiati a scapito della maggioranza non può fare a meno di azioni di controllo e si basa su rapporti di forza che hanno come metodo il conflitto, questo è negli interessi di chi produce armi ma non certo di chi ha come prospettiva lo sviluppo e l’evoluzione della vita e della società umana.
Se non si vuole legittimare una società che ha come presupposto la divisione tra ricchi e poveri, tra previlegi e obblighi, bisogna cambiare radicalmente la visione del mondo. Individuare qual’ è la realtà che desideriamo e quali sono le prerogative che definiscono l’essere umano in cui possiamo riconoscerci.
Che il futuro sia prevedibile come continuazione del presente è una logica errata.  L’imprevedibilità del futuro è confermata dagli avvenimenti del nostro recente passato. La consapevolezza che la qualità della vita umana non può fare a meno di un ambiente salubre e l’esigenza di voler abitare una società più giusta e sempre più democratica, sta accelerando l’evoluzione sociale: perciò il futuro sarà un insieme di novità che potranno raccogliere alcuni elementi del presente e del passato ma nulla più, perché gli esseri umani possono scegliere rispetto alle necessità, ai valori in cui credono e a ciò che desiderano e che spesso non sanno neanche descrivere con la parola. Il futuro ci sarà quando lo faremo accadere.


Chi non accetta la logica della supremazia dovrebbe farsi carico di intraprendere l’inizio del cambiamento, cominciando a mettere in pratica ciò che è necessario per cambiare modello: non più il profitto per pochi previlegiati, ma la prospettiva della qualità della vita per tutta l’umanità. Questa prospettiva apre al futuro, perciò richiede l’utilizzo di tutte le risorse umane che abbiamo a disposizione. Non si può scartarne nessuna, se mai se ne devono creare di nuove perché il percorso che ci aspetta è impegnativo e imprevedibile per cui abbiamo bisogno di tutta la nostra capacità anche creativa per far fronte alle novità che si presenteranno.
L’Europa non può chiedere all’America da cui ha origine il pensiero liberista di essere promotrice del cambiamento; deve decidersi a perseguire il progetto della sua esistenza, smettere di annunciarsi e cominciare a costruire la propria unione nella logica del benessere comune senza perdere la propria originalità nella diversità delle storie di ciascuna delle sue componenti. È l’Europa che fonda le sue radici storiche sull’Umanesimo e sulla democrazia e ha come progetto per la sua nascita la costruzione della giustizia sociale, in un mondo di condivisione e di pace. Questo è il compito oggi di noi tutti cittadini europei. (GRAZIA BARONI)

IMPRESA PERSONALE E COMUNE. A CHE PUNTO SIAMO? (di ALDO BIANCHIN)

(brevi, sintetici APPUNTI personali di ALDO BIANCHIN dopo un incontro dedicato al tema “IMPRESA PERSONALE E COMUNE” tenuto a Rugolo di Sarmede l’8 gennaio 2023)

Un giudizio storico

   Il mondo cambia in fretta e mette in crisi i contesti internazionali ereditati dal dopoguerra. E’ sparita l’URSS. E’ entrato in crisi il duopolio mondiale di controllo USA – URSS. Nella prima fase “post” sembrava che il vincitore della “guerra fredda” fosse in grado di costituire la sicurezza del contesto mondiale. Non è stato così. Dopo l’11 settembre del 2001 e le guerre di intervento in Iraq e in Afghanistan, il “monopolio mondiale” si è rivelato fasullo. Con la pandemia abbiamo capito che il mondo attuale non è più alla portata di un egemone. E’ troppo complesso, mobile e in cambiamento per essere controllato da chicchessia.

Dall’altro lato:

la “trappola di Tucidide” (espressione che definisce la possibile tendenza che porta alcune tensioni politiche per la supremazia tra entità statali a sfociare in vere guerre combattute. L’espressione richiama nel nome lo storico e militare ateniese dell’età classica greca Tucidide, il quale ipotizzò lo scoppio della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta come causata dal timore spartano per la crescente egemonia territoriale ateniese. Ora, “trappola di Tucidide” è espressione coniata dal politologo statunitense Graham Allison che, analizzando i possibili sviluppi tra le tensioni che si manifestano tra Stati, individuò una possibile tendenza alla guerra, quando una nuova potenza emergente tenta di sostituire una potenza già consolidatasi come egemone: espressione utilizzata in particolare per descrivere un possibile conflitto tra USA e Cina, ndr) la “trappola di Tucidide” non sembra funzionare nel senso che la situazione mondiale è superiore alle possibilità di egemonie solitarie, non c’è un egemone che abbia il livello (dimensioni, consistenza, risorse, capacità e relazioni) da dominare il tutto. Non si tratta quindi come aveva sentenziato Tucidide 2300 anni fa di sostituire il “Primo” con un “Altro” che ne occupa il posto e la funzione. E’ necessaria un’altra soluzione e qui viene il bello. Quale??

Nel frattempo:

scienza e tecnologia applicata hanno trasformato la situazione mondiale e hanno spinto sull’accelerazione al cambiamento, travolgendo le situazioni esistenti e ponendo il problema del “controllo”. Sembra che gli apparati finanziari (pari a diverse volte il Pil mondiale) e con velocità di impiego // fuori dai tempi di qualsiasi capacità produttiva reale// e il comparto tecnico – scientifico nella sua struttura // fuori dalla capacità di finalizzarlo nel suo insieme (se qualcosa è possibile si fa prima o poi, chi può impedirlo) // abbiano  “autonomia” di sviluppo, con buona pace di chi dovrebbe decidere (la politica) “se e perché” le cose si devono fare.

Esempi:

Le armi atomiche messe in piedi sono in grado di distruggere 200 volte la terra. Oggi si ricorre al riarmo e ci si impegna ad un ulteriore balzo in avanti in termini atomici più efficienti, più distruttivi, più veloci nel distruggere. Ma abbiamo detto che siamo già capaci di distruggerci 200 volte….

…CHE SENSO HA TUTTO QUESTO?

   Il “mercato mondiale” (globalizzazione) non era quella meraviglia creativa, innovativa, di sviluppo sicuro per tutti (quando la marea si alza solleva insieme lo yacht e la barchetta). Non c’era bisogno di regolare l’andamento. Il mercato si regola da solo, non ha bisogno di lacci e lacciuoli. Libertà di impresa porterà un equilibrato sviluppo per tutti lasciamola fare e non disturbiamola. Senza tener conto che se qualcuno anche avesse voluto (la politica) non sarebbe stato in grado di intervenire, si diceva. Oggi tutti a dire che la globalizzazione è in crisi. Che le catene di valore della produzione si stanno riducendo per avere maggiore sicurezza e controllo, che le crisi del 2001 e del 2007/8, del 2020, la guerra in Europa del 2022 hanno cambiato il contesto e che bisogna prendere in mano la situazione e sì, si può guidarla, la politica può!

In che modo poi è tutto da vedere.

ANCORA, CHE SENSO HA TUTTO QUESTO?

   Si è fatto festa per la fine delle ideologie e ci si è immersi senza se e senza ma in una unica (neoliberalismo) che ci condiziona in modo globale e da cui, nonostante tutto, non riusciamo del tutto ad emergere pur in presenza dei suoi fallimenti. Per farlo dobbiamo elaborare una nuova prospettiva ma i contesti da cui veniamo non ci garantiscono più una base di partenza che renda possibile una costruzione di livello e di dimensione all’altezza dei problemi in cui siamo immersi (i paradigmi da cui veniamo non reggono più e i nuovi di cui abbiamo bisogno dove sono?)

SIAMO IN UNA FASE DI “INTERREGNO”

   Abbiamo alcune indicazioni. Una volta si diceva che l’azione politica e sociale doveva almeno avere tre caratteristiche per essere “di livello”: aveva bisogno di “un pensare mondiale, un conoscere nazionale e un agire locale”. Si tentava di tenerlo presente ma non era una linea trasversale che fosse introiettata dall’universo degli attivisti, c’era ma poi, nel fare, finiva per ridursi in modo particolare ad una delle tre.

   Oggi non è più possibile. Non abbiamo margini. E’ necessario che quello che si pone abbia da subito le tre caratteristiche (pensare mondiale, conoscere nazionale, agire locale) e che non si perdano più, indipendentemente da quella da cui vogliamo, per condizione personale, partire.

   DUNQUE: “Piccolo è bello”……se non marcia, in tutti i campi, con la dimensione nazionale, europea, mondiale, non è bello, è una “schifezza”. Non abbiamo certezze, le dobbiamo costruire. Ci vuole tempo, pazienza e apertura a tutto ciò che si muove e cerca nuove strade senza esclusioni e rifiuti a priori.

   Da dove cominciare dall’uno o dai molti?    Non vorrei mettere in corsa se “è prima l’uovo o la gallina”, bisogna cominciare insieme dall’uno e dai molti, non ci sono alternative. Quello che c’è non ci soddisfa, è chiaro, quello che abbiamo intorno non ci basta, cambiarlo è un processo che ci coinvolge personalmente e con gli altri.

   Abbiamo bisogno di muoverci contemporaneamente in più dimensioni. L’uomo che si muove solo in una è un mostro (Marcuse). Siamo complessi e le nostre aspettative sono complesse e non monocordi. E’ un dato. Veniamo però da una modernità che ha sviluppato le specialità (specializzazioni) in modo enorme e a questo punto non è più in grado di coordinarle. Il punto è che gli specialismi, ciascuno a suo modo, si riferiscono al soggetto che sono io e che è uno, non tanti pezzi specifici.

C’È BISOGNO DI UN APPROCCIO COMPLESSO NELLE RELAZIONI E NELLA VISIONE D’INSIEME

   Lo sviluppo adeguato delle diverse dimensioni personali non è spontaneo, ha bisogno di essere scelto e condotto con consapevolezza. Certo ci sono le basi di partenza ma niente è definito istintivamente, è tutto da elaborare (vedi Galimberti). Non è male dotarsi di un metodo (Baroni, Morin, Steiner ecc..) per cogliere la complessità e per non banalizzare le risorse e rifiutare le possibilità.

   Insomma la dimensione che piace a ciascuno di noi non può essere l’unica che ci riguarda, pena la riduzione ad unicum. Un solo aspetto è come minimo insufficiente sia per la lettura di ciò che ciascuno è, sia per la lettura della realtà e degli altri che ci circondano. La medaglia ha due facce che non sono estranee ma in parte diverse.

   In situazioni di cambiamento, di passaggio epocale, come sembra la nostra condizione odierna (tutta l’intellighenzia occidentale, russa, cinese, indiana, ecc. lo dice) dobbiamo riflettere sul tempo. Come diceva Sant’Agostino: “Io normalmente che cosa sia il tempo lo so, non c’è problema; ma se uno me lo chiede comincia il problema”. (…) In situazioni di cambiamento, di incertezza, di paura, IL TEMPO CONTA, è importante. Ci siamo rivolti ad una impostazione che ci ha fornito Luca Robino. Dice Luca: cominciamo con una analisi (tanto per cambiare). C’è UN TEMPO DELL’OROLOGIO; UN TEMPO BIOLOGICO (quale è l’età in cui uno si trova ora, per il suo agire fa differenza); UN TEMPO STORICO (quale dimensione temporale per i cambiamenti storici); UN TEMPO EVOLUTIVO (200.000 anni fa l’uomo di Neanderthal….); e finché rimaniamo nell’analisi tutto torna, in fondo è comprensibile, ragionevole, distinto opportunamente.

   Ma il nostro vivere, le nostre attese, il nostro sentire che è gran parte di ciò che siamo non è così distinto. Le sue dimensioni del tempo si intersecano, si aggrovigliano non sempre riusciamo a sbrogliare la matassa, abbiamo bisogno di rifletterci sul piano personale e su quello comune se no rischiamo di non capirci, di incasinarci. “Grande è il disordine sotto il cielo”, nel nostro tempo storico ma se non poniamo attenzione rischiamo di aumentarlo invece che di ridurlo.

   Ciascuno di noi, dove si trova, che cosa fa in merito al discorso, come pensa di impiegare il suo tempo nelle varie dimensioni e come ritiene di coordinarsi con gli altri?   In altre parole qual è la sua impresa e come può trovare integrazione con quella degli altri e quella comune? (ALDO BIANCHIN)

IL LAVORO GUARDANDO AL FUTURO (di MARIO FADDA)

   Il lavoro è sempre stato una sfida, dal “guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte”, come dichiarato nel libro del Genesi, fino all’essere riconosciuto come diritto, cioè possibilità di libertà, ma sempre al fine di costituire una garanzia di sopravvivenza, consentendo l’accesso all’uso di mezzi economici.

   Come tale, il lavoro è sempre stato considerato – vorrei dire vissuto – come contrapposizione alla libera espressione della persona, che infatti ambisce a disporre di “tempo libero”.

   La persona vuole tempo libero per soddisfare i propri desideri, fra i quali il più elevato è quello di poter esprimere la propria creatività, accettando impegni e fatica che ne possano derivare: come se ciò non significasse e comportasse lavoro, come se ogni nostro agire non fosse realizzato, come invece avviene, lavorando.

Dunque?

Il lavoro può essere espressione di libertà, come tale deve essere pensato e garantito, perché è possibilità e occasione di libera espressione della creatività personale.

   Questo richiede il passaggio a nuove forme di relazione tra quanto scopriamo, studiamo, capiamo e siamo in grado di comunicare ad altri (la nostra cultura) e quanto, di conseguenza, siamo in grado di fare, di produrre di utilizzabile da noi e da altri, che usano quanto di noi e da noi diventa economico.

   Insomma: lavorare deve essere possibile per tutti, mettendo ciascuno in condizione di esprimere quanto sa, pur accettando – più o meno temporaneamente – la riduzione ad essere capito solo attraverso quanto sa produrre di utilizzabile.

   Si disegna così una scena dove la persona produce non sotto il ricatto della sopravvivenza, ma esprimendo quanto di meglio sa pensare e fare.

   Ed ecco un problema: nei due ettari di cui ciascuno di noi dispone nello spazio delle terre emerse (basta una semplice divisione tra abitanti e spazio disponibile per accorgersi a quanto poco siamo giunti!) dobbiamo impegnarci a realizzare quanto di più bello e utile sappiamo produrre, perché chiunque ne possa godere.

   Quindi il lavoro non è più solo una merce che ci dà esiti a seconda di come sappiamo collocarci nel mercato, ma è la nostra possibilità di esprimerci al meglio e quindi come tale deve anche essere garantito.

   Modo di vedere, da cui deriva il modo di procedere, adottando regole che ci consentano di vivere bene nella propria casa: oikos, per usare una parola antica.

Quale vita dobbiamo scegliere per vivere bene e quali regole di convivenza adottare?

Oikos logos, dicevano i greci, da cui derivare oikos nomos: ecologia da cui derivare economia, modo di vedere le cose da cui derivare il modo di usarle, non il contrario a cui ci siamo ridotti, adattando la prima a modesta giustificazione della seconda.

   Per ora siamo giunti alla prima consapevolezza che dobbiamo produrre – almeno! – senza fare danni.     Di qui hanno preso le mosse le logiche cosiddette ambientaliste.

   Dobbiamo operare un passaggio di valore: qualsiasi attività noi svolgiamo, deve ispirarsi al principio universale, che produrre non significa consumare e scartare, ma utilizzare, anche se solo in parte e riscattare il rimanente.

   Bel problema per gli interessi e gli scopi di una ricerca scientifica e tecnologica abituata a essere premiata solo su quanto scopre di nuovo, mentre qui si richiede un salto di qualità nel saper compensare anche chi si occupa di saper riutilizzare quello che oggi chiamiamo scarto.

C’è molto lavoro da fare!

Troppe volte ancora il riconoscimento del valore avviene con ritardo, troppe volte il quadro del pittore che in vita patì la fame, dopo diventa, magari in breve tempo, oggetto di scambio milionario.

   Il lavoro non può continuare a subire il ricatto del mercato, necessitando inoltre di modalità di valutazione idonee a evitare pigrizie intellettuali.

Questo costituisce la nuova frontiera su cui operare.

“Lavoratori di tutto il mondo unitevi” cantava la speranza di conquistare dignità e riconoscimento per il lavoratore, ma non è stato chiaro lo scopo di tale unione: adesso si ripropone questa prospettiva, che costituisce un vero salto evolutivo per la specie e ne impone la consapevolezza.

   Stiamo attenti a imboccare la strada giusta e farlo in tempo. (MARIO FADDA)

NEXT GENERATION: CI PENSIAMO DAVVERO?  (di MARIO FADDA)

 

   Il documento – almeno nella versione EU – già nel titolo, denuncia la volontà di essere presente, se non partecipe, nel panorama delle profonde trasformazioni mondiali in atto, pensando a chi verrà dopo di noi.

   Non entro nel merito dei contenuti, che comunque mi sento, in generale, di sostenere, ma pongo una questione di metodo che mi pare determinante, pensando a chi è il soggetto, o meglio, i soggetti che dovranno attuare il programma e con quali tempi.

   La riposta potrebbe sembrare ovvia: saranno le forze che governano il Paese, cioè il Governo con il proprio sostegno parlamentare.

   Ma quanto scrive oggi, 16 novembre, Natale Forlani su “politicainsieme” mi aiuta a riflettere con più attenzione.

   Guardo nel passato (guardo il Bel Paese, ma in realtà quanto vedo mi fa riconoscere anche altri vicini di casa) e vedo due tappe fondamentali del comportamento dei due soggetti e della e(in)voluzione avvenuta in Italia negli ultimi sessant’anni, dove il governo del cambiamento, che si realizza su tempi più lunghi delle programmate (ma spesso anticipate) scadenze elettorali, dovrebbe verificare quanto si è realizzato del promesso, per aggiornate piani e programmi, con adeguate revisioni di tempi e mezzi.

   Su cui misurarsi con lo strumento che può riproporzionare le forze in Parlamento.

   Modello quasi perfetto, se il Governo sapesse usare i mezzi del “liberismo corretto” (torniamo agli antenati: Marshall, Keynes, Sraffa, Roosevelt…) attuato con piena libertà di iniziativa per chi detiene i mezzi per investire in tradizionali e nuove attività produttive, ma affiancato da chi (il potere pubblico, fondato sul consenso, della maggioranza almeno!) è in grado di sostenere attività meno redditizie, ma indispensabili per lo sviluppo economico e sociale diffuso.

   Tutto ciò in Italia è finito, come ho già accennato, da oltre mezzo secolo, dopo la mezza dozzina di anni postbellici.

   Bisognerebbe tornare con la memoria ai due tentativi, entrambi falliti, di dialogo tra Cattolici al Governo (Dossetti) e Cattolici della Resistenza (Balbo) o tra Cattolici ancora di governo (Moro) e Comunismo in ricerca (Berlinguer) per capire quanto le forze più miopi (uso un aggettivo gentile!) abbiano contato nel non permettere di intraprendere nuovi percorsi.

   Delle attività partecipate – cioè volontariamente sostenute – dallo Stato cosa rimane?

   Un esempio su tanti possibili: l’Eni non è più il soggetto che conquista spazi internazionali per l’Italia, ma un socio della banda che spreme territori ricchi di risorse naturali e poveri di mezzi di garanzia e difesa per la popolazione; e poi la produzione di armi, che vanno anche in mani che ci ricambiano perfino con delitti che ci toccano (Egitto insegna!) e sappiamo bene che il giusto preoccuparsi dell’Ucraina, vicina di casa, ci fa però dimenticare la ventina di paesi al mondo che sono in stato di guerra.

   Ma si sa, che la distanza rende l’udito debole!

   Cosa manca, dunque, perché la next generation esca dal torbido?

   Cinquant’anni fa si chiamava “programmazione”: non la rimpiango, nel modo in cui ebbe campo, perché la visione del futuro non fu accompagnata da una adeguata compresenza di un dettaglio di azioni calibrate sul ciclo elettorale, quindi sottoponibile a una valutazione periodica di metodi e mezzi di attuazione, ma confermate dalla continuità di programmi lungimiranti, quelli appunto stabiliti in base a una adeguata visione di lungo periodo: mancò il raccordo tra buone idee di “progresso”, cioè di indirizzo del cambiamento, determinato dal quella che si chiamava modernizzazione e progetti/programmi verificabili in tempi politicamente controllabili.

   Dopo di che si è preferito mantenere la parte scadente: il gioco parlamentare si è fatto sempre più dialettico, con il tramonto di ideologie esaurite, cui non ha corrisposto la formulazione di nuove prospettive etiche e culturali.

   L’ultimo barlume di attenzione per questo tipo di impostazione è nei programmi di chi si candidò alle elezioni politiche che diedero il governo a Renzi, ma che furono solo esercizi di autopresentazione, non certo programmi di idee e di governo (cioè – torno al nodo – di progetti di lunga prospettiva, attuabili con dichiarati programmi sottoposti alla verifica della scadenza elettorale).

   Sicché il “modello keynesiano,” impropriamente rievocato, giustificò certi rimpianti su partecipazioni statali, iri e quant’altro: ma quel modello, posto che lo si avesse veramente voluto rispettare, avrebbe richiesto ben altro significato nell’azione pubblica, che – appiattendosi sulla sola missione imprenditoriale – perse vitalità.

   Oggi lo Stato è “padrone” di qualche pacchetto azionario, di un bel po’ di idrocarburi e notevole produzione di armi.   Più una cassa (dove si deposita denaro e lo si presta su urgenze riscontrate) senza nessuna altra visione delle relazioni tra economia e sviluppo complessivo della società e di questo Paese.

   Non essendo un economista, non vado oltre nella critica al modello keynesiano e al suo (ab)uso: però sollecito tutti a ricordare che oikos-nomos (cioè le regole per il governo della casa) viene dopo, deve derivare da oikos-logos (l’idea di casa, cioè il modo di intendere il vivere in comune) non prima, come invece ormai ci ha abituati un’economia del denaro che ha ridotto il campo dell’ecologia alle sole azioni di pulizia che giustifichino ancora di più gli obiettivi di uso, magari abuso, di risorse.

   A causa di ciò anche lo Stato non vede oltre questo orizzonte ristretto ed elude suoi importanti ruoli: garantire la salute di tutti (non basta una Sanità malridotta), sostenere la formazione del cittadino ai massimi livelli, ridando spazio e significato alla parola educazione (mentre la scuola ha avuto riforme non accompagnate da adeguata azioni di formazione del personale, fino ai livelli universitari, affogati in tecniche di carriera che hanno reso assolutamente volontaria, cioè occasionale, ricerca e innovazione), promuovere attività produttive avanzate là dove la qualità dell’innovazione non compensa ancora il peso dell’azione, con equilibrati compensi economici, scoraggiando quindi l’imprenditorialità privata, che necessita di garanzie di buona resa.

   Ma più che discutere dei compiti dello Stato, che in fondo sono abbastanza noti e su cui, rispetto alla deludente ed elusiva situazione in atto, ciascuno trova la scusa per sé, scaricando la colpa sugli altri, penso che si debba andare alla base del problema.

   Smith e Lenin – pur con idee diametralmente opposte –  hanno ammesso lo stesso limite alla capacità di pensare la trasformazione della società: che le questioni su cui operare fossero il controllo delle risorse e la migliore resa ricavabile, lasciando principi etici e adeguati processi culturali per diffonderli sul piano di vaghe formulazioni di “ideali”.

   E con questa parole il gioco ebbe per entrambi lo stesso esito: la visione del futuro resta una speranza, non un progetto di cui pensare percorsi e mezzi e strumenti di attuazione.

   Dopo oltre due secoli, oggi siamo a un punto di svolta.

   Lo determina il processo evolutivo della specie umana, la più fertile nel generare effetti di trasformazione dell’ambiente in cui viviamo.

   E’ notizia del giorno la nascita di chi ha fatto raggiungere alla specie la soglia degli 8 miliardi di esemplari in vita.

   Ricordando che la superficie delle terre emerse è poco meno di 150 milioni di kmq, un facile calcolo mi fa vedere il mio vicino a 100 metri da me, che dispongo di meno di due ettari di terra su cui vivere, metter casa, trovare il campo in cui piantare insalata per avere cibo, una macchina per produrre qualche cosa da vendere, perfino una spiaggia su cui portare moglie e figli.

   Per fortuna abbiamo inventato la città, che ci consente di vivere ammucchiati e lasciare buona parte dei due ettari per sedi di lavoro e tempo libero!

   Capisco che la riflessione possa apparire paradossale, ma voglio solo dire che se non ci mettiamo a pensare la “trasformazione” del mondo e del modo in cui viviamo, il pessimismo di certi ambientalisti diventa realtà.

   Dobbiamo riprendere la riflessione da dove chi propose la ragione come fondamento della costruzione umana si trovò a scontrarsi con chi rispose con la fede: entrambi convinti che l’una valesse più dell’altra e quindi dovesse prevalere.

   Ma soffrirono entrambi dei limiti che quella fase storica induceva, ancora modestamente fornita di strumenti di previsione e progetto, che i secoli a venire avrebbero fornito.

   Ogni tempo soffre di qualche insufficienza.

   Oggi noi soffriamo della consapevole modestia di quanto disponiamo, rispetto a quanto abbiamo certezza essere l’infinito dell’universo, ma abbiamo la possibilità di meglio governare il nostro spazio, la Terra, senza consumarla e distruggerla, come invece siamo a rischio di fare.

   Impariamo a meglio governare (che vuol dire usare senza distruggere) i nostri due ettari di terra e, con il vicino, governeremo la Terra, ricominciando da quelle istituzioni – che sono state ridotte a luogo di spettacoli mondiali, come è in corso oggi al Cairo – che vanno ripensate e ricostruite.

   Un bell’impegno per our generation. (MARIO FADDA)

COME DARE DIGNITÀ AL LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE (di Leonardo Becchetti)

Leonardo Becchetti, da LA VOCE.INFO del 24/5/2022 https://www.lavoce.info/

– La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a globali ha avuto effetti molto diversi lungo la “scala delle competenze”. La risposta è creare le condizioni per lo sviluppo della società civile e del mondo delle imprese –

Il fenomeno

Le patologie del mercato del lavoro italiano sono tante e non si limitano al fenomeno della disoccupazione.  Ci sono i lavoratori poveri, che un tempo erano un ossimoro perché avere un posto di lavoro equivaleva a disporre delle risorse economiche necessarie per sfuggire alla trappola della povertà. Abbiamo un numero molto elevato di part time involontari, ovvero persone che fanno lavoretti e lavorano molto meno di quanto vorrebbero. Ci sono gli scoraggiati che risultato statisticamente come non partecipanti al mercato del lavoro e sfuggono dunque alla stima ufficiale della disoccupazione.

   Ma il fenomeno per certi versi più paradossale è quello del mismatch, ovvero della contemporanea presenza di posti di lavoro vacanti (se ne stimano varie centinaia di migliaia a seconda delle diverse metodologie utilizzate) e di giovani che non lavorano né studiano, in Italia quasi 3 milioni, la quota più elevata sul totale della popolazione di quella fascia di età tra i paesi Ue.

Le cause

Per capire come curare questi mali bisogna risalire alla loro causa. Un meccanismo certamente in azione è quello della race-to-the-bottom nell’economia globalmente integrata, per il quale le aziende cercano di localizzare la produzione laddove possono minimizzare i costi di produzione (lavoro, ambiente, fisco) per realizzare il massimo profitto.

   La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a mondiali nella globalizzazione ha prodotto effetti molto differenziati lungo la “scala delle competenze”. Le persone con alte competenze (fino ad arrivare alle superstar) hanno tratto beneficio dall’allargamento del mercato del prodotto e, essendo scarsamente sostituibili, hanno visto aumentare le loro remunerazioni.

   Al contrario, le persone con basse competenze e altamente sindacalizzate dei paesi ad alto reddito hanno perso potere contrattuale nella concorrenza, diretta o indiretta, con un “esercito di riserva” di lavoratori a bassa qualifica provenienti da paesi poveri con salari di riserva molto più bassi. I lavoratori a bassa qualifica sono altamente sostituibili e dunque per definizione (nonostante la presenza dei sindacati nazionali) hanno meno potere contrattuale in un mondo dove le aziende hanno a disposizione l’opzione della delocalizzazione.

   La storia della Gnk di Campi Bisenzio, un’azienda in utile che chiude lo stabilimento in Italia licenziando più di 300 dipendenti per riaprire in Slovacchia dove il costo del lavoro è più basso, è l’esempio che spiega meglio queste dinamiche di fondo.

   È evidente, pertanto, che la race-to-the-bottom è un meccanismo che genera e amplifica diseguaglianze di reddito per qualifica, che a loro volta aumentano i divari interni nello stesso momento in cui la delocalizzazione riduce invece quelli tra paesi ad alto e basso reddito, per effetto della convergenza condizionata e dell’aumento della produzione e della domanda di lavoro laddove si delocalizza.

Le soluzioni

La risposta ai problemi che tutto questo comporta nel nostro mercato del lavoro è di due tipi: personale e politica. Quella personale, non dobbiamo stancarci di ripeterlo ai nostri giovani, è risalire la scala delle competenze per evitare di essere risucchiati nella corsa al ribasso del lavoro a bassa qualifica. Da questo punto di vista, è fondamentale, nel periodo della scuola, l’emersione di un desiderio, un pallino, una vocazione che crei nei ragazzi la volontà per affrontare la fatica di risalire la scala del talento.

   La risposta politica si gioca su diversi piani, ma deve partire dal presupposto che difendere la dignità del lavoro in un solo paese quando le aziende hanno l’opportunità di delocalizzare può paradossalmente aumentare il vantaggio della delocalizzazione, con effetti indesiderati. È più facile intervenire con misure dirette di tutela e garanzie in settori meno esposti alla concorrenza internazionale e alla minaccia di delocalizzazione (ad esempio i riders e la logistica) stabilendo che chi vuol ricorrervi nell’Unione europea deve rispettare alcune regole.

   In un sistema economico dove vige la centralità dei consumi il voto col portafoglio privato e pubblico può dare un contributo importante. Le scelte di consumo possono e dovrebbero essere orientate, a parità di altri fattori, verso imprese a maggiore qualità e dignità di lavoro. Il settore pubblico – i cui acquisti rappresentano circa il 20 per cento dei consumi – dovrebbe dare l’esempio estendendo l’utilizzo dei criteri minimi sociali e ambientali a tutti i settori, fino a muovere verso una concezione di “appalto generativo” dove la scelta massimizza gli effetti sociali e ambientali.

   Con la strategia FitFor55 l’Unione europea ha introdotto il concetto importantissimo del Border Adjustment Mechanism per prevenire forme di dumping di imprese che delocalizzano per andare a produrre in paesi che hanno standard ambientali al di sotto dei nostri, esportando poi a prezzi più bassi nell’Ue. Il meccanismo, in via di studio, dovrebbe prevedere una tassa d’ingresso che dovrebbe colmare il gap ed evitare che l’area mondiale che vuole essere leader in materia di sostenibilità sociale e ambientale ne debba paradossalmente pagare le conseguenze.

   La destinazione di parte delle risorse raccolte a fondi per finanziare investimenti nella transizione nei paesi terzi dovrebbe vincere le loro opposizioni e resistenze alla nuova politica comunitaria. È assolutamente necessario estendere questo approccio alla dimensione del mondo del lavoro, anche se è tecnicamente più complesso rispetto al caso della sostenibilità ambientale, dove indicatori e parametri (emissioni di CO2, water footprint, qualità dell’aria) sono comuni. Utilizzando le parità di potere d’acquisto e tenendo conto dei diversi contesti nazionali, sarebbe però possibile identificare i parametri da applicare a ciascun paese.

   In un mondo dove la creazione e distruzione di posti di lavoro dettata dall’ascesa e dal declino di interi settori è sempre più frequente, la connessione tra formazione e lavoro è altresì fondamentale. Si pensi all’esempio della messa al bando dei motori a scoppio prevista entro il prossimo decennio che farà perdere decine di migliaia di posti di lavoro nell’indotto della componentistica creandone altrettanti nel settore della transizione ecologica e dell’auto elettrica.

   Formazione permanente, diritto alla formazione dei lavoratori e percorsi di qualificazione e riqualificazione agili e flessibili diventano fondamentali, assieme allo sviluppo degli istituti tecnici superiori – il terziario professionale non universitario – dove la collaborazione tra scuola e impresa crea un canale diretto tra i due mondi.

   La logica dell’economia civile suggerisce che l’approccio da seguire su queste partite non è mai quello di sforzarsi di risolvere tutto con la mano pubblica, quanto di creare le condizioni per mettere in moto le ricchissime energie della società civile e del mondo delle imprese. Guardando a quelle buone pratiche ed eccellenze che già oggi, sul campo, fanno un lavoro egregio nell’affrontare il problema della formazione-lavoro sui nostri territori. (Leonardo Becchetti, da LA VOCE.INFO)

UNA GUERRA CHE VIENE DA LONTANO

Intervista a RICCARDO PETRELLA di Simone M. Varisco, dal sito http://www.costituenteterra.it/ del 16/3/2022

….

– L’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione.  Molti fattori precedenti all’esplosione del conflitto fra Russia e Ucraina –  

   La guerra in corso in Ucraina è una violenza inaccettabile. Si può dire il frutto di quasi un secolo di responsabilità incrociate, diffidenze reciproche, impegni disattesi e differenti interpretazioni delle relazioni internazionali. Eppure, per molti versi, è anche la conseguenza di un pensiero sorprendentemente comune ai due schieramenti: la guerra contro l’uomo. Fra aspirazioni imperiali, pace imposta con le armi e un mondo che sta cambiando. È «l’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione».

   Ne parlo con RICCARDO PETRELLA, economista e politologo, professore emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e dell’Accademia di Architettura di Mendrisio. Dal 1978 al 1994 ha diretto il programma FAST (Forecasting and Assessment in the Field of Science and Technology) alla Commissione delle Comunità europee a Bruxelles.

   Nel 1993 ha fondato il Gruppo di Lisbona e nel 1997 l’Associazione internazionale per il Contratto mondiale dell’acqua. È presidente dell’Institut Europeen de Recherche sur la Politique de l’Eau (IERPE) di Bruxelles e dell’Università del Bene Comune (UBC), fondata ad Anversa e poi in Italia e in Francia. È dottore honoris causa di 8 università in Svezia, Danimarca, Belgio, Francia, Canada e Argentina. Collabora, fra l’altro, con il Wall Street International Magazine ed è autore di pubblicazioni sull’economia e il bene comune.

Prof. Petrella, si è detto che questo conflitto è la continuazione di quello iniziato nel 2014. È davvero così?

La crisi russo-ucraina non è all’origine di tutto quello che sta succedendo. Ci sono ragioni obiettive per avercela con Putin, sia chiaro! Ma non è solo l’agire di Putin che è determinante in questa situazione. Ci sono tanti fattori precedenti all’esplosione del conflitto fra Russia e Ucraina. Dopo l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, sono iniziate pressioni forti, locali e internazionali, soprattutto da parte di Stati Uniti ed Europa affinché l’Ucraina diventasse parte dell’economia occidentale e del sistema militare Nato.

   La crisi del 2014, con l’occupazione russa della Crimea e l’appoggio alla secessione – se si può dire così – delle province di Donetsk e Luhansk è una continuazione di qualcosa di molto più grande, di molto più lontano. L’attuale guerra in Ucraina non è, fondamentalmente, una guerra tra russi e ucraini. All’origine ci sono due grandi fenomeni, insieme ad un terzo raramente trattato dagli analisti.
Il primo è il grande errore commesso dagli Stati Uniti, dagli europei e da alcuni gruppi in Russia – gli amanti della visione pan-zarista di Putin – di non aver ascoltato quanto sostenuto nel 1991 da Michail Gorbaciov, cioè che il crollo dell’Unione sovietica non fosse avvenuto a causa della vittoria degli Stati Uniti o del capitalismo, bensì per ragioni interne, per una società mal strutturata, ingiusta, per un potere inegualitario ed oligarchico.
Il secondo fenomeno è lo scontro fra due “imperi”. Dopo la seconda guerra mondiale il mondo era governato da due grandi potenze: da un lato l’URSS, con la potenza militare e soprattutto la potenza ideologica, anche se in declino, e dall’altro gli Stati Uniti, con un’egemonia mondiale in tutti i campi. La Guerra Fredda era questo, l’opposizione fra due potenze mondiali imperiali. Con la crisi dell’URSS gli Stati Uniti hanno pensato di poter approfittare della debolezza della Russia per metterla fuori gioco sul piano della geopolitica e dei rapporti di potere mondiali. E da allora hanno fatto di tutto per ottenere questo. È chiaro, ormai, che la Nato non serve a difendere l’Atlantico. La Nato è uno strumento mondiale. Per gli Stati Uniti cedere sulla Nato, ritirarsi, è una bestemmia. Non lo faranno mai, se non obbligati.
Il terzo fenomeno: anche se non ne siamo sempre coscienti, c’è un profondo razzismo nella convinzione occidentale che sia “naturale” per la nostra società dominare il mondo. Noi pensiamo, come Churchill, che la democrazia, pur imperfetta, sia il sistema politico meno peggiore di tutti gli altri.  Che la nostra democrazia sia the ultimate form, la forma definitiva di organizzazione politica buona, anche solo perché meno peggiore delle altre. Ogni altro sistema politico è dal nostro punto di vista antidemocratico, totalitario. “cattivo”. Spesso il “difendere la democrazia nel mondo” si traduce nel difendere il potere che rappresenta oggi il nostro sistema politico.

   Un’altra convinzione occidentale è che il capitalismo non sia buono, ma che non ci sia alternativa al capitalismo, al mercato, alla competitività, all’ineguaglianza. Finché queste due convinzioni regoleranno l’agire dei nostri governanti non ci sarà pace nel mondo. Sono idee talmente metabolizzate in noi, che ad esempio durante la pandemia abbiamo ritenuto ovvio non fidarci dei vaccini russi o cinesi, perché non fatti dalle nostre università, non fatti dalle nostre imprese. Ancora meno potremmo dare fiducia al prodotto di un popolo ritenuto da sempre soltanto sottomesso: i vaccini cubani. Ancora, non pensiamo che l’Africa o il Vicino Oriente siano luoghi dove possono emergere nuove idee, nuovi stili di vita, nuovi sistemi economici.

In effetti, è un fatto che in 8 anni di tensione non si è fatto abbastanza per evitare una nuova escalation. La sensazione è che gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, siano incapaci di evitare l’innescarsi di conflitti armati e crisi umanitarie. È così?

Perché non si è fatto nulla per fermare i conflitti fra Russia e Ucraina, che sono anche antistorici rispetto alla storia plurisecolare dei due Paesi? Perché, per l’appunto, non è solo una questione russo-ucraina. Si tratta, invece, dell’accentuazione negli ultimi anni di quel conflitto fra due potenze imperiali, con esiti sempre più a favore degli Stati Uniti. Ricordiamo sempre il concetto tipicamente statunitense di peace through strength, pace attraverso la forza militare, secondo alcuni attraverso la guerra. Per questo non si è fatto nulla, soprattutto non ha fatto nulla l’Occidente, per evitare la guerra. I politici europei si sono dimostrati subalterni, senza una visione a lungo termine del loro ruolo, anche come Unione Europea.
Beninteso, non si è fatto nulla non solo da parte occidentale: Putin fa parte di quella categoria di russi che rimpiange il crollo dell’Unione Sovietica, non perché rimpianga il crollo di una società che si diceva socialista e comunista – e che invece era autocratica, classista e ineguale – ma perché l’URSS rappresentava, in certo senso, una continuità con la Grande Russia, la Madre Russia, la Russia messianica, la Russia dell’ortodossia, della tradizione slava, dello zarismo. Da parte sua, Putin non può permettersi un ulteriore indebolimento.

Dal canto loro, Nato e Unione Europea non hanno trovato di meglio che armare uno dei due contendenti, l’Ucraina. Da un lato, è evidente l’intenzione di circoscrivere il conflitto ad una “trincea” lontana dal cuore dell’Europa, dall’altro la presunta soluzione non può che suscitare interrogativi. Con tutte le differenze del caso, non si può fare a meno di pensare all’Afghanistan di Osama Bin Laden e del Maktab al-Khidmat o all’Iraq del regime baathista di Saddam Hussein contro i Curdi iracheni e l’Iran. Come la vede?

In Ucraina si fa fare ad altri la guerra, così come si è fatta fare ad altri in Iraq, in Afghanistan, in Vietnam e nelle decine di altri interventi militari diretti o indiretti in America Latina, secondo la dottrina Hoover di America is ours, tutta l’America è nostra. Il pericolo è che, in fondo, sia World is ours, il mondo intero è nostro. Per questo, oggi, dobbiamo avere paura tanto di Putin come degli europei occidentali e degli Stati Uniti. L’invio di armi è una pazzia, una follia. Sanno benissimo che questo metterà alle corde Putin e lo costringerà a continuare ad essere presente in Ucraina. Armare gli ucraini significa anche creare l’accadibilità dell’incidente nucleare.
Spero che per gli Stati Uniti non sia il colpo di coda del coccodrillo ferito, che sta morendo. Trump è quello: un “visionario” alla Putin, che rimpiange la perdita del potere egemonico degli Stati Uniti. La forza imperiale statunitense non è più così forte come lo era all’epoca della Guerra Fredda, sia per motivi interni sia per l’opposizione di altri Paesi e soprattutto per l’emergere della Cina, una potenza certamente ambigua, ma che dà fastidio soprattutto sul piano economico.

Alcuni analisti hanno indicato il presidente russo Putin come psicologicamente instabile e più di una volta le dichiarazioni del presidente ucraino Zelensky sono sembrate sopra le righe. C’è molta propaganda da ambo le parti, ma la situazione non fa ben sperare. Sono elementi che hanno un peso in questa guerra?

Qualche giorno fa ho ascoltato il ministro dell’Europa e degli affari esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che ha detto sorridendo che “soffocheremo” l’economia russa. Ridendo, come se parlasse di un gioco. Far morire economicamente la Russia significa condannare 144 milioni di persone. È pazzia, pazzia “sana”, non malattia. Si punta ad ottenere la morte economica e militare della Russia e l’inabilitazione della Cina a continuare la sua crescita sul piano economico. Biden, come Trump, vuole la fine della Russia. Biden, come Trump e come gli europei occidentali, vuole l’indebolimento della Cina.
Siamo educati a pensare ad un nemico: oggi la Russia di Putin, ieri l’Unione Sovietica, i movimenti islamisti. E già si delinea il nemico del futuro, la Cina, considerata un “rivale sistemico” dall’Unione Europea. Con in parte delle verità, in questo, ma dev’essere chiaro il motivo per cui siamo educati a questo pensiero: difendere l’egemonia dell’Occidente. Noi occidentali crediamo che il nostro potere, la nostra supremazia mondiale siano un fatto naturale, inevitabile, giusto e buono. Ogni minaccia alla mono-supremazia del mondo occidentale, e in particolare degli Stati Uniti, diventa il nemico.

Da una pandemia globale ad una guerra che rischia di esserlo. In entrambi i casi, al di là della retorica, sembra mancare una risposta comunitaria, realmente condivisa, agli eventi. Ci sono aspetti che accomunano queste due tragedie?

Intanto, l’economia oggi spesso si traduce in guerra. L’economia dominante, il capitalismo di mercato ad alta tecnologia e ad alta finanziarizzazione, è sostanzialmente un’economia di dominio, un’economia di potenza, dell’ineguaglianza, un’economia della guerra: guerra per conquistare il mercato dei vaccini, guerra per la proprietà e i brevetti, guerra per conquistare il mercato delle intelligenze artificiali. Viviamo un continuo stato di guerra: i contadini ai quali a decine e decine di migliaia nel mondo è sottratta la terra o i lavoratori ai quali è tolta l’occupazione sono vittime della guerra dell’economia contro di loro.
La totale digitalizzazione della nostra società è anch’essa una guerra, una guerra contro gli esseri umani. C’è una grande priorità, teorica e pratica, in molte attività scientifiche e tecnologiche oggi: l’autonomizzazione dei sistemi artificiali. Si arriverà al dominio degli esseri umani attraverso il dominio delle macchine? La tecnologia non potrà che aumentare le guerre di potere. Il militare, oggi, è tecnologie di reti e gestione dei dati, come l’economia.
E poi c’è l’individualismo. Putin, anche se non è vero, è considerato “comunista”. E noi, società occidentale, siamo fondamentalmente educati all’interesse individuale, all’io, non al noi. Lo si vede con la guerra e lo si è visto con la pandemia: il principio multilaterale non funziona. È un fallimento, solo che è difficile andare al di là del multilateralismo. Lo si vede con il Consiglio di Sicurezza: anche allargato è impotente.
Questo per dire l’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione. Per questo dobbiamo favorire tutte le forme di trattativa: se quelle attualmente in corso falliranno, si dovrà ricominciare fino ad arrivare ad un cessate il fuoco. Dobbiamo preservare il concetto di trattativa, vivo e forte. C’è una speranza se continuano le manifestazioni in tutte le città. Non solo contro Putin: contro Putin, contro gli Stati Uniti, contro il regime capitalista e l’occidentalismo individualista ed esclusivista.

Da politologo, come interpreta l’atteggiamento finora mostrato da papa Francesco? Si condanna il peccato – la guerra – ma non si vuole interrompere il dialogo con i molti “peccatori” di questo conflitto?

Papa Francesco è una delle poche personalità al mondo che sia a livello istituzionale che per sue scelte personali sta tentando di fare ciò che può. Non possiamo attribuire al Papa poteri che non può avere. Può tentare di sensibilizzare un miliardo di cattolici, peraltro non tutti praticanti. E certo non può mobilitarli come fosse una polizia politica. Ma ha un enorme potere morale e di influenza. Spero che nella Chiesa cattolica si spinga sempre di più per le trattative. Lì papa Francesco può giocare un ruolo molto importante. Non parla per i propri interessi, gli altri sì e si accusano a vicenda di essere miscredenti. Papa Francesco è tra le poche persone che non sta parlando con la testa in mano né con il cuore in mano, ma con l’umanità in mano.

(14 Mar 2022: intervista a RICCARDO PETRELLA di Simone M. Varisco, dal sito http://www.costituenteterra.it/)

“Insieme”: un partito in movimento, oltre la sclerosi partitocratica e lo spontaneismo movimentista (di Giorgio Rivolta)

Negli ultimi anni, forse decenni, la formula “partito” non suscita più entusiasmi. Al contrario, tranne rare eccezioni, per lo più evoca diffidenza, rifiuto se non addirittura disprezzo. Spesso, anche tra amici, vedo subito storcere il naso alla sola  pronuncia della parola “partito”. In quel nome sembra condensarsi quanto di peggio negli ultimi quarant’anni abbiamo visto e subito: disonestà, affarismo, corruzione, illegalità, collusione mafiosa, centralismo burocratico, lontananza e distacco dai cittadini, fino alla formazione di una vera e propria “casta” separata dalla società civile.

Perciò, anche nelle migliori disposizioni morali e intellettuali, il partito, con tutto il suo portato di cerchia ristretta, accolita di privilegiati intenta a trafficare per e con il potere politico, evoca qualcosa di negativo che sembrerebbe avere a che fare con il suo stesso significato etimologico: “essere parte”.

Allora, si tratta di sciogliere il nodo dell’ambiguità insito nel suo stesso nome. In altri termini, dovremmo interrogarci sul ruolo del partito politico, pensato e voluto dai nostri costituenti come libera formazione sociale che ha il compito di mediare tra le legittime aspirazioni/interessi dei cittadini e le altrettanto legittime istituzioni giuridiche repubblicane garanti, appunto, dello stato di diritto. Insomma, è giusto che il partito sia concepito come “parte” di un tutto? E come dovrebbe essere inteso questo “prendere parte”, questa “partecipazione” alla più ampia società civile e politica? Nella risposta a questa domanda si gioca tutta la ricchezza e la positività della cosiddetta “dialettica politica”, o meglio, dell’arte politica della contemporanea affermazione/com-posizione delle parti, che dovrebbe caratterizzare una convivenza autenticamente democratica.

Infatti, da un lato è corretto intendere il partito come porzione di un intero in quanto di per sé non è in grado di rappresentare, e tanto meno di esaurire, il “tutto” della più ampia società civile e politica. Nessun partito, per quanto grande e capace, possiede la prerogativa di rappresentare l’intero e chi pretende di possederla, o ha raggiunto legittimamente un consenso unanime (cosa finora mai accaduta), oppure mira a un potere totalitario che lo esclude automaticamente dal gioco democratico e quindi dalla legittima partecipazione alla competizione politica ed elettorale per la rappresentanza e il governo del Paese. Tra l’altro, un partito che ha sposato la centralità della persona, da considerare e trattare sempre come fine e mai come mezzo, sa che solo in essa può realizzarsi quella speciale sintesi armonica tra singolarità (irripetibilità) e universalità (validità), che invece manca agli altri enti (naturali, logici, sociali e artificiali) la cui essenza è sempre definita all’interno della logica che si stabilisce tra individuo e genere, tra parte e tutto. In tal senso, anche il migliore partito e il miglior Stato non potranno mai essere concepiti e vissuti come fini, ma sempre e soltanto come mezzi al servizio dello sviluppo integrale della persona.

Dall’altro lato, è altrettanto legittimo e auspicabile che il partito si costituisca come formazione dedita alla coltivazione e alla realizzazione dei propri valori/interessi. Ma bisogna subito aggiungere una condizione fondamentale, cioè che questi valori/interessi non siano autoreferenziali, che il partito non viva la propria identità come un fine in sé da perseguire e difendere a tutti i costi con le unghie e con i denti, identità esclusiva che gli impedirebbe di entrare in un dialogo costruttivo, certamente concorrente e vivace, con le altre “parti” che compongono il “tutto” della società civile e politica. In altre parole, la legittima appartenenza a una parte, portatrice di ideali, valori e interessi, non deve sottostare alla monologica dell’appartenenza, che è fine a sé stessa, puro agire strategico (non comunicativo) finalizzato alla massimizzazione del consenso in funzione dell’acquisizione del potere, qui inteso come pura autoaffermazione e dominio di sé e non come positiva capacità (to be able) di pensare e agire politicamente per trasformare, per quanto è possibile, la realtà con le altre parti concorrenti. Il superamento della monologica dell’appartenenza avviene solo per volontà politica, non c’è regola o legge che tenga!

Il consenso, termine positivo e qualitativo che nella logica dell’agire comunicativo esprime il medium (mezzo), la via, il metodo per raggiungere il telos (fine) dell’intesa possibile tra persone e soggetti diversi in dialogo su determinati oggetti o argomenti, nella logica dell’agire strategico (finalizzata al successo di parte) perde il significato originario di ricerca e metodo del con-senso (condivisione di senso) per acquistare quello prevalentemente negativo e quantitativo di acquisizione di forza (mediatica, elettorale, politica, ecc.) da incrementare continuamente e da opporre, appunto, nei rapporti di forza con le altre “forze” politiche per la conquista e il mantenimento del potere (= dominio). Da mezzo positivo, “ideale regolativo” per la realizzazione delle idee e dei progetti politici, il consenso si trasforma così in qualcosa che diventando fine a sé stesso si negativizza perché tradisce la sua funzione di servizio. Ecco che allora, la positiva e legittima ricerca del consenso come mezzo/metodo per realizzare la più ampia intesa comunicativa (sia all’interno del partito sia tra i partiti concorrenti), si rovescia nella ossessiva e compulsiva ricerca del consenso elettorale. Da qui la dipendenza patologica dei partiti dai sondaggi elettorali e la loro volontaria sottomissione a quella che potremmo definire una vera e propria “dittatura del consenso”.

Il consenso buono, se così si può dire, è un contenuto che nasce dalla bontà del metodo perché il bene (contenuto) si realizza solo attraverso una modalità (metodo) coerente ad esso, altrimenti avremmo l’affermazione di un contenuto che è vero solo astrattamente in quanto negato nella modalità pratica (“predicare bene e razzolare male”). La coerenza tra contenuto e metodo è la legge suprema della politica che vuole davvero realizzare il bene comune.

Il metodo del consenso è buono perché paradossalmente interessato, cioè attento a ogni ragione, e disinteressato, cioè aperto a tutte le ragioni. O meglio, attraverso il disinteressato scambio di ragioni e posizioni, ha come suo unico interesse l’affermazione dell’argomento migliore attraverso la com-posizione delle differenti posizioni, la ricerca delle soluzioni più avanzate ai problemi della polis attraverso l’integrazione delle singole proposte, soluzioni che è possibile trovare insieme solo avendo a cuore il merito delle cose, la loro verità considerata e valutata in sé e per sé e non in funzione di altro (consenso negativo come acquisizione di forza).

E allora il consenso buono si ottiene frequentando quotidianamente la società civile, stando tra le persone, con le loro ansie, difficoltà e speranze. Ma per far ciò, per conoscere e migliorare da cittadini e con i cittadini il nostro ethos (costume) e contestualmente cambiare le regole del gioco, non basta essere solamente un partito, che rischia di sclerotizzarsi (indurirsi) nella propria infantile autoreferenzialità, così come non è sufficiente restare solo un movimento, che subisce il fascino adolescenziale dello spontaneismo protestatario che non diventa mai pro-getto. Occorre diventare un partito in movimento, cioè una comunità di persone in costante cammino, capace di condividere i problemi, conoscere le aspirazioni, ascoltare e portare nella società politica, mediandole e articolandole, le energie nuove, le critiche e le proposte dei cittadini, i quali conoscono la realtà perché la vivono direttamente e quotidianamente. Infatti, solo chi vive in prima persona la densità, l’unicità e spesso la drammaticità dei problemi è portatore di una storia e di una sensibilità che nessun esperto è in grado di conoscere, anche se ha bisogno del “sapere esperto” del tecnico e del politico per affrontare e risolvere con competenza, perizia e senso della giustizia tali problemi. È vero che ci sono problemi che hanno origine sistemica e che devono essere affrontati e risolti con logica e tecniche sistemiche, ma è anche vero che la complessità di questi problemi, con tutto il loro carico di sofferenza, ha sempre a che fare con le storie e i vissuti delle persone, che pertanto non possono non essere ascoltate.

Un partito incapace di praticare la politica dell’ascolto e di essere poi il tramite fecondo tra la società civile e quella politica per affrontare e risolvere con competenza e visione d’insieme i problemi del Paese, non è un partito in grado di pensare e agire politicamente per il bene comune. In questo senso, la scelta del radicamento territoriale del partito non è tanto o solo una questione organizzativa, ma una questione strategica, e quindi eminentemente politica.

Parafrasando il “ferratissimo” Lucio Magri, un cattolico poi diventato comunista, potremmo di nuovo con entusiasmo desiderare “un partito che non sia coscienza separata, né puro riflesso dell’autonomia del movimento, ma teoria, progetto politico” ispirato ai principi etici cristiani e universali, e memoria delle grandi lotte popolari che hanno fatto l’Italia. (per gentile concessione della rivista online Politica insieme, articolo del 12 gennaio 2022.)

Giorgio Rivolta, ha insegnato Filosofia nei Licei della provincia di Milano, è consulente filosofico individuale, progetta e conduce pratiche filosofiche di gruppo. Da decenni si dedica alla formazione della persona attraverso il metodo di integrazione comunitaria ideato da Felice Balbo e sviluppato da Ernesto Baroni. Con l’editore IPOC ha curato “Felice Balbo tra storia ed attualità”, Milano 2017. Con Baroni ha pubblicato “Libertà personale e bene comune”, Aracne, Roma 2019. È tra i fondatori di “Persona al centro. Associazione per la Filosofia della Persona” e membro del Consiglio Direttivo. È coordinatore del Dipartimento Formazione del partito “Insieme”.