VIOLENZA È IL NON SAPER VIVERE LA LIBERTÀ (di GRAZIA BARONI, 11/12/23)

   Parlare di femminicidi come effetto della visione maschilista nel rapporto uomo-donna non va alla radice del problema, è insufficiente e perpetua il modello di contrapposizione tra soggetti diversi.

   L’educazione, infatti, passa attraverso la donna, l’uomo, la scuola e la società, gli esseri umani, insomma. Pertanto, è l’effetto della visione antropologica, di fatto ancora attuale e universale, che ha come modello la logica della supremazia evidenziata nel rapporto di forze che caratterizza il mondo animale.

   Il recente caso di Giulia, ennesimo femminicidio che ha risvegliato le coscienze della stragrande maggioranza dei cittadini italiani, ha suscitando riflessioni sul rapporto uomo-donna, come se la sopraffazione dell’uno sull’altra fosse l’unico ostacolo da superare. Perché mai, allora, la recente sentenza che ha strappato un bambino dalle braccia degli unici genitori che avesse mai conosciuto per consegnarlo a quelle della madre biologica non ha suscitato altrettanta indignazione e incredulità? La violenza di questo atto non è forse altrettanto devastante? Non lascia anch’esso tracce indelebili?

   Questo discorso vale anche per i reati di pedofilia e di pornografia che suscitano al massimo una riprovazione morale, ma non l’indignazione adeguata a un comportamento che degrada l’essere umano alla dimensione bestiale, a spregio della sua dignità. Questi sono atti che mettono in luce l’assurda incongruenza che c’è fra la coscienza di sé, come sembra essere stata raggiunta dalla società tanto da essere espressa nella normativa dei Diritti Umani, e il linguaggio e i comportamenti che persistono e si rifanno a concezioni arcaiche legate a un concetto di dipendenza e di sopraffazione.

   La pedofilia, il femminicidio e il considerare un figlio come un diritto, funzionale al legittimare l’essere donna di una persona, hanno in comune un equivoco di fondo: quello di poter concepire l’altro come oggetto riducibile a proprietà. Tale equivoco è la conseguenza del non aver ancora riconosciuto ciò che distingue l’essere umano da qualsiasi altro essere vivente: il fatto che la libertà sia la sua natura.

   Cosa significa essere liberi? Gli esseri umani si sono evoluti nella ricerca di liberarsi da tutti i vincoli esterni: dai bisogni primari per la sopravvivenza, ai rapporti di forze, tanto che abbiamo inventato la democrazia, che è l’unica forma di organizzazione sociale che garantisce la pace, cioè lo spazio che permette di sperimentare la personale libertà.

   Considerando l’umanità, è solo una sparuta minoranza quella che ha raggiunto questo metodo organizzativo e questa qualità relazionale non ancora consolidata pienamente, tanto è vero che è sempre a rischio. La democrazia è un concetto che non si può conservare o difendere senza snaturarlo, perché come la libertà non accetta limiti ed è solo nella condivisione che può essere esercitata. Chi riduce la struttura democratica ad un semplice conteggio di maggioranza e minoranza riporta indietro il cammino evolutivo ritornando alla dimensione tribale, e si dimostra non adeguato all’evoluzione della civiltà. Chi non trova gli strumenti per condividere la democrazia la perde.

   Però adesso che non abbiamo più vincoli esterni, o che comunque sappiamo come potremmo superarli grazie alla conoscenza, alla democrazia e alla tecnologia, abbiamo comunque ancora la concezione della libertà come idea di indipendenza da qualcosa, non come qualità peculiare della natura umana. Soltanto se cominciamo a riflettere sul fatto che ciascuno di noi esseri umani è libero, riconosciamo che l’altro è come noi e quindi la relazione che dobbiamo costruire è di riconoscimento, di accoglienza e di rispetto della reciproca libertà. Per fare questo è necessario accogliere l’altro: se non lo si accoglie, l’altro diventa il proprio limite e, automaticamente, l’antagonista: infatti, la libertà non accetta limiti.

   Noi abbiamo chiamato amore l’unica forza, l’unica condizione o qualità relazionale che permette di esercitare la personale libertà nella libertà comune. Perché l’amore è quella qualità, quella scelta che consente di vedere l’altro per quello che è e che vuole essere. Perciò esercitare la violenza nei confronti di coloro che dovremmo amare non dipende da concetti sociali come il patriarcato, né da condizioni storiche, ma è ancora legato alla concezione ancestrale e arcaica della natura umana come violenta.

   Certo, vivere la personale libertà è difficile: richiede di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e così facendo si deve uscire dal presente e considerare il tempo dell’intera vita. Quindi responsabilità vuol dire avere coscienza del fatto che la tua vita, le tue azioni, non si esauriscono nell’attimo, ma durano e che le scelte esercitate perdurano nei loro effetti durante il corso dell’esistenza.

   Non è semplice perché abbiamo da superare tanti modelli ben radicati nel passato, ma è necessario per uscire dalla logica del nemico, del conflitto, dalla condizione di “minorità” sia come singoli individui che come umanità. La difficoltà dell’esercizio della libertà la società l’ha intuita, tanto è vero che pone limiti alla responsabilità delle persone in base all’età: ci vuole un minimo di 18 anni per prendersi la responsabilità su sé stessi e sugli altri.

   Ma è urgente andare oltre: lo dimostra il fatto che le cronache sono piene di azioni irresponsabili nonostante il raggiungimento della maggiore età. Poiché esercitare la libertà è così difficile è necessario l’impegno congiunto di tutta la società: ci vuole l’educazione da parte di tutti. Bisogna crescere insieme su questo, in un apprendimento che è personale e comune. Il risolvere i rapporti interpersonali riguarda tutti; affrontare nella sua complessità questa nostra potenzialità è necessario per poter continuare la nostra civiltà e la nostra storia fino a vivere pienamente il valore dell’umanità che ci distingue. (GRAZIA BARONI)

PACE: UNA QUESTIONE DI VOLONTÀ (di GRAZIA BARONI)

Torino, 30 ottobre 2023

   Pace. Più che una parola è un’invocazione che sale da ogni angolo della terra e che i fatti quotidiani non solo allontanano sempre di più, ma trasformano in una chimera, un mostro che nelle sue differenti forme confonde la realtà e ne impedisce la lettura e, di conseguenza, l’interpretazione necessaria a iniziare un processo di reale pacificazione.

   Bisogna comprendere che la pace, invece, non è solo una invocazione ma deve essere un progetto.

Considerare la pace come adattamento al più forte, o al luogo comune o come assenza di guerra, dunque mancanza di confronto, è negare la Storia come processo comune di umanizzazione, espressione delle diversità di ogni singolo essere umano.

   Perché non rimanga una parola che una volta di più rappresenta l’impotenza umana, è necessario riferirsi alla storia nella sua qualità di patrimonio accumulato faticosamente ma tenacemente dall’umanità, che desidera rendere la vita, la vita umana, il valore che sta a fondamento e orienta le scelte, soprattutto dei governanti, per procedere nella costruzione di un’unica comunità umana.

   Infatti, già i nostri antenati della città di Atene avevano capito che la pace non è l’assenza di guerre ma una qualità relazionale tra i cittadini.

   La democrazia è stata concepita per fissare nella storia come rendere reale la parità di valore che ogni cittadino rappresenta per i propri governanti e la politica è lo strumento per la sua concretizzazione. Solo se i cittadini si sentono riconosciuti nella loro dignità, alla pari con tutti gli altri, è possibile una convivenza pacifica.

   La pace è dunque il progetto che dà senso alla democrazia e ha come fulcro il ruolo della politica che ricerca, individua e rende possibile la sua costruzione. Oggi però il mondo della politica ha abdicato al mercato il suo ruolo di indicare la strada del futuro per raggiungere una migliore qualità della vita fino alla piena soddisfazione per tutti. Ma il futuro del mercato è la continua ricerca di soddisfare bisogni che prima erano per la sopravvivenza degli esseri umani e oggi del superfluo – e perciò fittizi – creati dallo stesso mercato per la sua sopravvivenza.

   È per questo motivo che la Democrazia, processo di costruzione della giustizia sociale, è stata sostituita dalla partitocrazia che viene spacciata come sinonimo ma che in realtà è in modo mascherato, per ignoranza o per non dire mala fede e opportunismo, una lotta tra gruppi che assomigliano alle antiche signorie quattrocentesche. Risultato questo di una legge elettorale che strumentalizza e deforma la valenza democratica del voto perché è basata sul mantenimento di un rapporto di forze tra gruppi antagonisti e non sulla condivisione di un progetto di miglioramento della società che vogliono governare.

   E’ basilare e urgente definire cosa si intende per democrazia perché le sue diverse interpretazioni creano profonde contraddizioni che la indeboliscono e rischiano di accendere scontri interregionali che potrebbero allargarsi pericolosamente in qualcosa di più esteso e profondo. Una democrazia ipocrita che non è capace di mettere al bando le armi perché il loro mercato è troppo fiorente, in continua espansione. Come testimoniano l’invasione dell’Ucraina e le atrocità in terra di Israele e Palestina.

   Quindi democrazia come la forma di convivenza che riconosce il valore del singolo cittadino nell’esercizio della sua libertà che mette al servizio per la realizzazione di una vita di felicità per tutti.

   La politica è stata inventata per superare il metodo proprio del mondo naturale basato sulla sopraffazione del più forte, con un metodo tipicamente umano che ha come strumento la parola e la logica razionale. La guerra è la denuncia più esplicita del fallimento della politica o, meglio, dell’azzeramento del ruolo della politica nelle scelte dei governi di qualunque colore. Perché la politica è l’arte che rende possibile al singolo cittadino di essere attore nella costruzione della comune cittadinanza.

   Nel mondo attuale interamente connesso dall’informatizzazione e dagli algoritmi e dove la potenza dello scontro armato non prevede nessun vincitore ma la morte dell’umanità intera, è assolutamente illogico e antistorico fare riferimento ancora ad una geopolitica dell’800, dove le nazioni si considerano implicitamente antagoniste e si misurano in un rapporto di forza con strategie di alleanze a difesa dei confini geografici e delle specifiche diversità.

   Per questo nel pieno disastro della Seconda Guerra Mondiale è stato pensato il progetto di un ente, quale la Comunità Europea, come entità politica unitaria ed è sempre più evidente quanto sia necessario il suo compimento, come unica strada che permetterebbe la costruzione di una intesa e una pace durature.

   Chi si assume la responsabilità di fare politica oggi deve: lottare per la costituzione della Comunità Europea come Stato Unitario Democratico a modello della possibilità di realizzare la giustizia sociale nel mondo; ridare alla politica la centralità del proprio ruolo che è indicare la strada del futuro e, infine, lavorare perché la democrazia sia lo strumento per ogni cittadino di essere arbitro della qualità della vita che vuole realizzare per sé insieme agli altri per il compimento di una vita felice per tutti.  (GRAZIA BARONI)

DIFENDERSI MA SENZA PERDERSI (di Goffredo Buccini, da “il Corriere della Sera” del 2/11/2023)

– Di fronte al programma delirante di Hamas che infiamma l’Islam radicale, l’Occidente deve puntare a una vittoria che possa essere condivisa con gli sconfitti – (Goffredo Buccini, “il Corriere della Sera” del 2/11/2023)

   Se a scrivere la storia sono orrori dei quali è ignobile stilare classifiche, è l’approccio ad essi che fa la differenza: specie in quel campo di battaglia globale che è ormai la quotidianità al tempo della Rete. Sicché la cappa di blackout nelle comunicazioni calata dagli israeliani su Gaza sotto attacco e, per converso, le bodycam indossate dai miliziani di Hamas durante il pogrom del 7 ottobre, ci parlano. E ci dicono molto sugli effetti di un elemento decisivo nella formazione del consenso dentro le opinioni pubbliche: la riprovazione o il sostegno morale.

   Nel nostro universo valoriale, forgiato dalla cultura giudaico-cristiana e dai Lumi, e approdato tra mille convulsioni alle democrazie liberali del Novecento oggi gravemente a rischio, c’è una linea rossa immaginaria ma ben marcata, che nulla ha a che vedere con quelle tracciate spesso senza costrutto ai tavoli dalle diplomazie.

   Dunque, poco cambia per noi se l’ospedale Shifa è usato anche quale comando operativo dei terroristi islamici, che si mescolano alla popolazione civile nelle case e nelle scuole facendosene scudo; se il missile sull’ospedale Al-Ahli Arab veniva dalla Striscia; se le vittime di questa prima fase sono davvero ottomila o assai meno; e se Gaza è una «prigione» che avrebbe un lato aperto ove gli egiziani non lo tenessero ben serrato per ovvie ragioni di stabilità e sicurezza.

   Ciò che per noi resta insopportabile – così salvandoci, in parte – è il pianto dei bambini e delle madri, sono le barelle grondanti sangue, le macerie fumanti di esistenze distrutte a Jabalia, i medici palestinesi che chiedono acqua e luce per pazienti in agonia e neonati nelle incubatrici. Convinti come siamo che chi salva una vita salva il mondo intero e certi che nessun uomo sia un’isola, viviamo come un conflitto interiore ogni evento bellico, anche se generato da motivi di autodifesa, come nel caso di Israele sin dalla sua fondazione. Se i social ce ne avessero mostrato le immagini live, difficilmente avremmo retto al bombardamento di Dresda, pur consapevoli che il vero responsabile di quella carneficina non era altri che Hitler.

   E, sì, c’è un elemento di ipocrisia inscritto nella nostra storia di occidentali civilizzati con settecentomila coloni ebrei piantati in Cisgiordania. Ma al contempo sarebbe miope vedere solo la «protezione delle operazioni di terra», come dichiarato da Tsahal, nell’interruzione di tutte le comunicazioni imposta durante i primi, terribili giorni di irruzione a Gaza. C’è, anche se nessuno lo ammetterà per adesso, la prova di un elemento di insostenibilità: le sofferenze dei civili palestinesi, ove fossero per intero squadernate in Rete ora dopo ora in tutta la loro evidenza.

   Sono lacrime di coccodrillo? Certo. Eppure, troviamo conforto nell’empatia di «Valzer con Bashir» o nella saggezza di Amos Oz contro fanatici e fanatismi. Ripiegati nell’autoanalisi, convinti che l’essenza del tragico non stia nel conflitto tra ragione e torto ma in quello tra più ragioni, siamo più complessi di come ci raffigurano i predicatori islamisti. I quali, tuttavia, hanno capito benissimo che questa nostra complessità è una loro arma in più, che la nostra umanità ci paralizza ed è loro alleata. Che, allontanandoci a mano a mano dal ricordo del 7 ottobre, ci risulterà sempre più difficile sostenere il sacrosanto diritto di Israele alla propria esistenza e a una risposta militare di fronte alla più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah.

   Per Hamas, e in generale per il terrorismo messianico, vale una narrazione perfettamente rovesciata. E lo provano appunto le bodycam, quelle piccole telecamere che gli assassini avevano indossato per filmare, nell’invasione dei kibbuz, donne incinte sventrate, bambine violentate, uomini bruciati vivi, pacifisti massacrati al rave nel Negev, vecchi torturati nelle case, lo scherno dei cadaveri, il calvario di Shani Louk. Questo, e assai di più, è il materiale che proprio i miliziani di Hamas hanno messo in Rete. Ne conosciamo le imprese perché essi stessi volevano renderle note. L’orrore cambia valenza. Se di qua è colpa da nascondere, di là diventa spot da celebrare: gli infedeli si possono punire, l’entità sionista può essere annientata. Non si capirebbero altrimenti, se non con questo corto circuito politico-religioso, le manifestazioni di giubilo diffuse in tutte le piazze arabe. Occorre invece un supplemento di tossico autolesionismo per spiegare l’indulgenza, quando non l’esplicito consenso, che le stragi al Sud di Israele hanno prodotto anche nelle piazze e nelle università occidentali, e in certi cortei dove si è gridato «Palestina dal Giordano al mare» (cioè, senza ebrei) e dove ci si è raccolti attorno a una piattaforma in cui era scritto che «il 7 ottobre il popolo palestinese ha mostrato di esistere ancora».

   C’è, prendiamone atto, una parte di mondo che pesa le vite diversamente. Chi proprio non volesse comprenderlo, ascolti il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nel video diffuso dal suo comodo rifugio a Doha, in Qatar, ben lontano dal campo di battaglia: «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida». Sembra il delirio d’un pazzo, è invece un programma che infiamma l’Islam radicale (la caccia all’ebreo in Daghestan può essere un terribile campanello d’allarme) e davanti al quale l’Occidente ha davanti un sentiero stretto: difendersi, senza perdersi.

   La vera sconfitta americana del Duemila non è stata il crollo delle Torri, è stata Guantanamo. Per placare i nostri demoni, la vera vittoria non può che essere condivisa con gli sconfitti. Non è un ossimoro, anche questo è un programma, che va dissepolto dall’odio stratificato. Nel 1919 Chaim Weizmann ammoniva che «non da conquistatori» sarebbero dovuti entrare gli ebrei in Palestina: «Noi che siamo stati oppressi non possiamo opprimere». Trent’anni dopo sarebbe diventato il primo presidente d’Israele. (GOFFREDO BUCCINI)

IL RAGAZZO, IL BIMBO E LA VERA SOLIDARIETÀ (di MASSIMO AMMANITI, da “la Repubblica” del 21/9/2023)

POLLICINO A LAMPEDUSA

LA STORIA

   Quantunque le favole abbiano perso la loro attrazione per i bambini, sostituite dai video divenuti ormai indispensabili, riuscivano a mettere in scena le paure e i terrori che turbavano le loro giornate e i loro sogni.  Nella famosa favola di Perrault, Pollicino veniva allontanato dalla famiglia perché i genitori non riuscivano per la loro povertà ad allevare i sette figli e anche lui, che era l’ultimogenito, doveva sottostare a questo terribile destino. Pollicino sempre silenzioso riusciva a ritornare a casa lasciando nel suo percorso dei sassolini che gli indicassero la strada. La paura dell’abbandono da parte dei genitori segnava e segna la vita dei bambini che temono di essere abbandonati e andare incontro ad una vita disperata.

   Ho fatto riferimento alla favola di Pollicino perché il suo destino si è riproposto per un bambino africano di tre anni arrivato in questi giorni in un barcone di migranti al porto di Lampedusa. Questo bambino, di cui ignoriamo il nome, è giunto a Lampedusa senza genitori accompagnato da un ragazzo africano, ancora minorenne, che ha raccontato la sua storia.

   In pieno deserto fra la Libia e la Tunisia questo ragazzo, che cercava faticosamente di raggiungere la costa africana, si era imbattuto in questo bambino che arrancava da solo ormai stremato. Preso a compassione il ragazzo, pur non avendo nessuna informazione sul bambino, chi fosse, come si chiamava, che lingua parlasse e dove fossero i suoi genitori, decise di occuparsi di lui e di portarlo con sé nella traversata del deserto.

   Si può immaginare questo incontro quasi miracoloso con il piccolo che ha seguito il ragazzo più grande, unica sua possibilità di sopravvivenza quantunque non dicesse una parola e non esprimesse nessuna emozione, dal pianto al sorriso. Se si fosse credenti si potrebbe pensare che Dio avesse mandato questo bambino solo e abbandonato per drammatizzare la terribile condizione dei migranti, che attraversano il deserto, scegliendo proprio lui così fragile e sprovveduto. E allo stesso tempo per mettere alla prova l’umanità che chiude la porta in faccia ai migranti, che come viene mostrato nel film di Matteo Garrone “Io Capitano” corrono rischi mortali, violenze, abusi sessuali, segregazioni pur di tenere viva la speranza per il futuro.

   Per fortuna questo bambino ha incontrato questo ragazzo, che come il giovane Tobia della Bibbia, si è preso cura di lui senza troppe esitazioni e senza chiedersi dove fossero i suoi genitori, che forse erano periti nell’attraversata del deserto. E non era un bambino che mostrasse gioia e riconoscenza, chiuso nel suo mutismo seguiva questo compagno più grande che era per lui la sua unica bussola. Insieme sono arrivati a Lampedusa su un barcone e il piccolo è stato preso in carico da psicologi che stanno cercando di avvicinarsi a lui, sapendo bene che la sua chiusura e il suo mutismo sono sicuramente legati ai traumi, alla fame, all’abbandono che hanno pesato sulla sua psiche. Ci vorrà sicuramente del tempo perché si apra e stabilisca dei legami di attaccamento nella famiglia a cui verrà affidato, che dovrà rispettare i suoi tempi in un clima di accettazione e di protezione.

   Allo stesso tempo si dovrà scoprire che è successo ai suoi genitori, se erano con lui durante la traversata e che cosa è avvenuto oppure se il bambino è stato affidato a qualcuno che partiva per questo viaggio della speranza per garantirgli un futuro migliore di quello che poteva avere in Africa.

   Vorrei che questa storia drammatica sciogliesse un po’ il cuore ai guardiani dei nostri confini, per i quali i migranti non sono uomini sono solo dei neri che minacciano le nostre vite. Eppure molti italiani, addirittura milioni, nei primi anni del secolo scorso si avventurarono ugualmente sulle navi per raggiungere le terre promesse, gli Stati Uniti, il Canada o l’Australia sperando in un futuro migliore, non dovremmo dimenticarlo.

   La storia di questo bambino dovrebbe essere raccontata dallo stesso Garrone, non solo le sofferenze e le angosce di un bambino africano migrante ma anche il profondo atto di umanità di un minorenne che non si è fatto intimorire dal peso che doveva assumere e dai pericoli che si moltiplicavano nella traversata. E’ stata una decisione di cuore che non hanno quanti si attardano nelle diatribe e nelle meschinerie con cui vengono affrontate le politiche della migrazione.

   Un’ultima annotazione, dal 2014 ad oggi sono stati circa 100.000 bambini e adolescenti migranti non accompagnati, secondo i dati dell’Unicef, che sono giunti in Europa alla ricerca di un futuro, sarebbe giusto chiedersi che sofferenze hanno vissuto questi minori che hanno lasciato le loro famiglie, le quali a loro volta hanno dovuto sopportare l’angoscia del distacco dai propri figli. (MASSIMO AMMANITI)

Il verme

Un esilio.

È questo che sto vivendo. O, se preferite, che mi pare di vivere da 2 anni a questa parte, da quando il 9 marzo 2020, con un decreto, è stato imposto quello che il governo e i media hanno chiamato lockdown, vietando alle persone di pensare a quello che succedeva come un arbitrio, un eccesso, una misura ingiustificata in quanto smisurata (e infatti era fuori misura, mai accaduta prima).

Nemmeno io mi ero reso conto di questa cosa: il 26 febbraio 2020 il Manifesto pubblicava un articolo di Giorgio Agamben che descriveva i lockdown regionali come ingiustificati rispetto alle stesse indicazioni dell’OMS e soprattutto una sistematica creazione di stati di paura messi in atto per governare la coscienza degli individui. Ricordo benissimo che leggendo l’articolo ho pensato: ecco, Agamben ha sbarellato. Forse queste chiusure saranno eccessive, ma bloccheranno l’epidemia, tra un po’ si riaprirà e tutto tornerà come prima. Agamben farnetica, mi spiace perchè mi piacciono i suoi saggi che ho letto e mi ritrovo nella sua ricerca filosofica, per quanto posso capirne.

Subito, immediatamente dopo l’articolo, filosofi, scrittori, giornalisti, politici, tutti, ma veramente tutti, compreso chi scriveva sul manifesto che lo aveva pubblicato, compreso lo stesso manifesto nei suoi editoriali successivi, lo avevano non criticato ma annientato, senza affrontare lo specifico delle cose che aveva espresso, annientato lui come persona e così tutto il suo pensiero, il suo decennale percorso filosofico. Più sintetico di tutti è stato Flores D’arcais che ha definito la sua una “filosofia del cazzo”.

Mi parevano allora eccessive anche queste critiche, ma purtroppo non infondate, lo ammetto.

Non mi rendevo ancora conto che piano piano, ma più spesso di gran carriera, nel nome dell’emergenza, della necessità, del rispetto per chi era morto e di chi sarebbe morto, di chi era ricoverato e di chi sarebbe stato ricoverato nelle terapie intensive degli ospedali e di chi negli ospedali rischiava la vita per curare i pazienti, nel nome e in ragione di tutto questo la critica a chi sentiva dentro di se perplessità sulle scelte fatte, dubbi sulle informazioni che arrivavano dai media o dal governo o dall’OMS (a volte informazioni contradditorie oppure subito contraddette) e li esprimeva pubblicamente o anche discutendone con amici o conoscenti, si stava velocemente trasformando in ingiuria pesante e senza possibilità di appello.

Contemporaneamente la volontà di comprendere cosa stava accadendo si trasformava in spasmodica ricerca di risposte assolute e definitive. Lo sforzo di capire nella caccia al dissenziente, il confronto e la dialettica, magari anche aspra, nella cacciata dai luoghi del confronto: via chi non era conforme dalle pagine dei giornali, dalla televisione, dai notiziari.

A meno che non fosse disposto a partecipare come zimbello.

Lo zimbello è l’uccello che i cacciatori si portano dietro chiuso in una gabbia per attirare i suoi simili. Di più: è “la figura ridicola dell’uccello che grida e saltella legato per la coda – attirando l’attenzione del suo gruppo. In questo specifico senso non ha più il connotato di esca o di lusinga truffaldina: l’immagine si è ripulita da tutte le sue implicazioni ulteriori. Lo zimbello è solo quello che sta in mezzo e di cui gli altri ridono.” (https://unaparolaalgiorno.it/significato/zimbello).

Per cominciare almeno a intuire, non ancora capire, tutto questo, c’è voluto tempo, ci sono voluti quasi due anni, c’è voluta una guerra che è arrivata ed è stata ammanita esattamente come l’epidemia, si è spiegata sopra di noi con le stesse precise dinamiche, quelle dello stato di necessità, del sacrificio, della brevità (promessa all’inizio) e ovviamente, soprattutto, del bombardamento dei luoghi del confronto, dell’argomentazione, del dibattito, l’avvelenamento della discussione espellendo la dignità dei ragionamenti giudicati non conformi e di chi li esprimeva, ridicolizzandolo come uno zimbello.

Piano piano, questa volta sì, questo modo di fare bucava le nostre difese, entrava dentro di noi, attraversava la nostra pelle e si spingeva, come un verme, dentro la nostra carne, ingrossandosi e penetrando sempre più a fondo, alimentato dalle parole dei nostri governanti, dagli applausi del pubblico solidale con i cacciatori di putiniani o dei negazionisti nei talk show, dal silenzio complice di partiti, sindacati, associazioni su cui bene o male avevamo riposto comunque un residuo di fiducia.

Piano piano ci siamo ritrovati, come le crisalidi delle

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inoculati con le uova della vespa parassita, paralizzati, incapaci di fare alcunché. Fine delle marce per la pace, fine della rabbia sacrosanta contro quanto sta accadendo, prigionieri intorpiditi del pensiero di qualcun altro, dei suoi progetti e delle sue visioni del futuro, il suo e anche il nostro. Piano piano il verme dentro di noi ci ha abituato a tutto questo. E’ diventato tutto accettabile, normale. Questo è il motivo per cui ho utilizzato la parola esilio. Ex, fuori dal solum, terra. Espulso dalla terra comune in cui era possibile guardarsi, parlarsi, riconoscersi.

Non so se sono autorizzato ad usarla. Ma d’altra parte cosa importa? Chi comanda sulle parole, ad esempio sulle parole guerra, pace, giusto, ingiusto, vero, falso… comanda, non deve giustificare o discutere niente. Io non comando – e mai vorrei comandare – i significati delle parole (come invece faceva Humphy Dumpty: «Quando io uso una parola» disse Humpty Dumpty con un certo sdegno,  «quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «La questione è» disse Alice, « se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse». «La questione è» replicò Humpty Dumpty, « chi è che comanda – ecco tutto»: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2011/11/28/le-parole-sono-importanti-alice-annotata-14a/#:~:text=%C2%ABQuando%20io%20uso%20una%20parola,che%20comanda%20%E2%80%93%20ecco%20tutto%C2%BB.) perché la parola è più forte di me, e lo sarà sempre. E quindi posso usare la parola esilio, perché non la impongo a nessuno, nessuno può togliermela, tutti possono contestarmela.

Ma la ragione della ritrosia ad usare a usare la parola esilio sta nel fatto che la sto usando pensando a cosa è stato l’esilio per chi è dovuto andarsene veramente dal proprio paese. Come la scrittrice, filosofa, ricercatrice croata Dubravka Ugrešić, mancata pochi giorni fa, cacciata dal suo paese nel 1991 dal governo democratico di Franjo Tuđman, primo attore, ma non unico attore, della dissoluzione della Jugoslavia e della caccia ai non-croati che vivevano da sempre in Croazia. Che razza di esilio è il mio in confronto al suo, denigrata quotidianamente dal suo governo, dai politici, dai giornalisti, dagli intellettuali croati come puttana, strega, traditrice, per il suo pensiero, quello di una intellettuale che non solo non accettava di partecipare alla caccia etnica ma invece la criticava attivamente, costretta alla fine ad emigrare in Olanda e a rifarsi una vita là a cinquant’anni?

Ho letto il suo “Baba Jaga ha fatto l’uovo” e ora sto leggendo (concludendo a die il vero) il “Ministero del dolore“, che racconta appunto questo esilio sotto le spoglie di una sua alter ego, e in tante sue sue parole ritrovo delle parti di me. Mi rivedo in questi due anni. Gli amici che non riconosci più. I giornalisti, gli intellettuali, gli uomini politici, gli scrittori, gli scienziati che avevano sempre evitato di affrontare la realtà come fosse una pulsantiera on/off, vero/falso, giusto/sbagliato, ora schiumavano livore e, spesso, odio contro gli “sbagliati”.

Dai media, dai governi, dagli scienziati, dagli intellettuali, da chi ha diritto di parola, eccolo il muro della verità “vera”, contro cui puoi solo andare a sbattere. Solo porte chiuse di fronte alle domande, ai dubbi. La necessità di nasconderti, di celare il tuo pensiero. Questo è forse il vero esilio. Si può vivere lontani dal proprio paese e sentirsi ancora parte di esso. Ma sentire che il tuo paese si organizza, si predispone per non riconoscerti come persona, è una cosa diversa. E’ un’altra cosa. E’ vero. Non c’è paragone con le guerre che hanno dissolto la Jugoslavia. Non c’è paragone con i morti, la caccia all’uomo, alla donna, ai bambini. Non c’è paragone con quello che è stato fatto nella ex Jugoslavia, dai cattivi ma anche dai buoni. Non c’è paragone nonostante molto sia stato fatto in questi due anni per trovare ragioni e motivazioni per sabotare il dialogo anche qui da noi, per non riconoscere, ma nemmeno ascoltare, le ragioni altrui, per disconfermare i vissuti delle persone, per ridicolizzare le loro domande, per mettere gli uni contro gli altri. E i risultati di questo molto che è stato fatto (e si continua a fare) oggi forse possiamo anche misurarlo nel crollo del voto, nello stato catatonico delle realtà associative e politiche anche non omologate e non partecipi della caccia al nemico interno. Nel silenzio della società di fronte all’entrata in guerra del nostro (?) paese senza entrare (formalmente) in guerra (proprio come ha fatto la Russia, per il cui governo questa non è una guerra ma un’Operazione speciale).

E quindi allora?

Dubravka Ugrešić nel 2014, 9 anni fa, alla domanda di un’intervista se ha ancora un senso la parola “politica”, rispondeva così:

“Oggi più che mai. La politica è un’urgenza. Dobbiamo fare resistenza, altrimenti scivoleremo in una neo-schiavitù esercitata stavolta con mezzi tecnologici. In Europa c’è un numero vergognoso di disoccupati, sono questi gli “schiavi” del terzo millennio, schiavi in senso letterale: gente che è stata privata della propria vita. La politica dello sfruttamento camuffata da democrazia ci ha portato in questo tunnel senza via d’uscita.”

(https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/intervista-a-dubrakva-ugresic/)

E quale può essere il primo atto oggi veramente politico?

Il più urgente, il più necessario?

Riconoscere che non è accettabile escludere nessuno dalla politica. Che non è accettabile privare la politica di nessuna voce. Un vulnus per tutta la società se delle voci vengono escluse o sono costrette ad autoescludersi. La politica deve espellere il verme che sta corrodendo e che sta guastando il dibattito e il confronto sociale, che sta mettendo a tacere tutte le voci che non rispettano gli standard stabiliti in anticipo.

Dovremmo riconoscere che tutte le ragioni che giustificano una esclusione sono pericolose, sono un boccone avvelenato per la democrazia. Sono invece un nutrimento necessario per il verme che la sta mangiucchiando.

Nell’attuale disordine di idee tra antifascismo e fascismo, il discorso integrale di SERGIO MATTARELLA a CUNEO il 25 aprile 2023

   “Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione“. 

   È Piero Calamandrei che rivolge queste parole a un gruppo di giovani studenti alla Società Umanitaria, a Milano, nel 1955.
   Ed è qui allora, a Cuneo, nella terra delle 34 Medaglie d’oro al valor militare e dei 174 insigniti di Medaglia d’argento, delle 228 medaglie di bronzo per la Resistenza.
   La terra dei dodicimila partigiani, dei duemila caduti in combattimento e delle duemilaseicento vittime delle stragi nazifasciste. 
   È qui che la Repubblica celebra oggi le sue radici, celebra la Festa della Liberazione. 
   Su queste montagne, in queste valli, ricche di virtù di patriottismo sin dal Risorgimento.
   In questa terra che espresse, con Luigi Einaudi, il primo Presidente dell’Italia rinnovata nella Repubblica.
   Rivolgo un saluto a tutti i presenti, ai Vice Presidenti del Senato e della Camera, ai Ministri della Difesa, del Turismo e degli Affari regionali. Al Capo di Stato Maggiore della Difesa. Ai parlamentari presenti.
   Saluto, e ringrazio per i loro interventi, il Presidente della Regione, la Sindaca di Cuneo, il Presidente della Provincia. Un saluto ai Sindaci presenti, pregandoli di trasmetterlo a tutti i cittadini dei loro Comuni. Un saluto al Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza.
   Stamane, con le altre autorità costituzionali, ho deposto all’Altare della Patria una corona in memoria di quanti hanno perso la vita per ridare indipendenza, unità nazionale, libertà, dignità, a un Paese dilaniato dalle guerre del fascismo, diviso e occupato dal regime sanguinario del nazismo, per ricostruire sulle macerie materiali e morali della dittatura una nuova comunità.
   “La guerra continua” affermò, nella piazza di Cuneo che reca oggi il suo nome, Duccio Galimberti, il 26 luglio del 1943. 
   Una dichiarazione di senso ben diverso da quella del governo Badoglio. 
   Continua – proseguiva Galimberti – “fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana…non possiamo accodarci ad una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani“.
   Un giudizio netto e rigoroso. Uno discorso straordinario per lucidità e visione del momento. Che fa comprendere appieno valore e significato della Resistenza. 
   E fu coerente, salendo in montagna.
   Assassinato l’anno seguente dai fascisti, è una delle prime Medaglie d’oro della nuova Italia; una medaglia assegnata alla memoria. 
   Il “motu proprio” del decreto luogotenenziale recita: “Arrestato, fieramente riaffermava la sua fede nella vittoria del popolo italiano contro la nefanda oppressione tedesca e fascista“; ed è datato, con grande significato, “Italia occupata, 2 dicembre 1944″.
   Dopo l’8 settembre il tema fu quello della riconquista della Patria e della conferma dei valori della sua gente, dopo le ingannevoli parole d’ordine del fascismo: il mito del capo; un patriottismo contrapposto al patriottismo degli altri in spregio ai valori universali, che animavano, invece, il Risorgimento dei moti europei dell’800; il mito della violenza e della guerra; il mito dell’Italia dominatrice e delle avventure imperiali nel Corno d’Africa e nei Balcani. Combattere non per difendere la propria gente ma per aggredire. Non per la causa della libertà ma per togliere libertà ad altri.
   La Resistenza fu anzitutto rivolta morale di patrioti contro il fascismo per il riscatto nazionale. 

   Un moto di popolo che coinvolse la vecchia generazione degli antifascisti. 
   Convocò i soldati mandati a combattere al fronte e che si rifiutarono di porsi sotto il comando della potenza occupante tedesca, pagando a caro prezzo, con l’internamento in Germania e oltre 50.000 morti nei lager, questa scelta.
   Chiamò a raccolta i giovani della generazione del viaggio attraverso il fascismo, che ne scoprivano la natura e maturavano la scelta di opporvisi. La generazione, “sbagliata” perché tradita. Giovani ai quali Concetto Marchesi, rettore dell’Università padovana si rivolse per esortarli, dopo essere stati appunto “traditi”, a “rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano”. 
   Fu un moto che mobilitò gli operai delle fabbriche.
   Coinvolse i contadini e i montanari che, per la loro solidarietà con i partigiani combattenti, subirono le più dure rappresaglie (nel Cuneese quasi 5.000 i patrioti e oltre 4.000 i benemeriti della Resistenza riconosciuti). 
   Quali colpe potevano essere ascritte alle popolazioni civili?
   Di voler difendere le proprie vite, i propri beni? Di essere solidali con i perseguitati?
   Quali le colpe dei soldati? Rifiutarsi di aggiungersi ai soldati nazisti per fare violenza alla propria gente?
   L’elenco delle località colpite nel Cuneese compone una dolorosa litania e suona come preghiera. 
   Voglio ricordarle.

   Furono decorate con medaglie d’oro, d’argento o di bronzo, o con croci di guerra: Cuneo, l’intera Provincia, Alba, Boves, Borgo San Dalmazzo, Dronero; Clavesana, Peveragno, Cherasco, Busca, Costigliole Saluzzo, Genòla, Trinità, Venasca, Ceva, Pamparato; Mondovì, Priola, Castellino Tanaro, Garessio, Roburent, Paesana, Narzòle, Rossana, Savigliano; Barge, San Damiano Macra, Villanova Mondovì.
   Alla memoria delle vittime e alle sofferenze degli abitanti la Repubblica oggi si inchina.
   Questo pomeriggio mi recherò a Boves, prima città martire della Resistenza, Medaglia d’oro al Valor militare e Medaglia d’oro al Valor Civile. 
   Lì si scatenò quella che fu la prima strage operata dai nazisti in Italia.
   Una strage che colpì la popolazione inerme e coloro che avevano tentato di evitarla: Antonio Vassallo, don Giuseppe Bernardi, ai quali è stata tributata dalla Repubblica la Medaglia d’oro al Valor civile; don Mario Ghibaudo. I due sacerdoti, recentemente proclamati beati dalla Chiesa cattolica, testimoni di fede che non vollero abbandonare il popolo loro affidato, restarono accanto alla loro gente in pericolo.

   E da Boves vengono segni di un futuro ricco di speranza: la Scuola di pace fortissimamente voluta dall’Amministrazione comunale quasi quarant’anni or sono e il gemellaggio con la cittadina bavarese di Schondorf am Ammersee, luogo dove giacciono i resti del comandante del battaglione SS responsabile della feroce strage del 19 settembre 1943.
   A Borgo San Dalmazzo visiterò il Memoriale della Deportazione. 
   Borgo San Dalmazzo, dove il binario alla stazione ferroviaria è richiamo quotidiano alla tragedia della Shoah.
   Cuneo, dopo Roma e Trieste, è la terza provincia italiana per numero di deportati nei campi di sterminio in ragione dell’origine ebraica. 
   Accanto agli ebrei cuneesi che non riuscirono a sfuggire alla cattura, la più parte di loro era di nazionalità polacca, francese, ungherese e tedesca. Si trattava di ebrei che, dopo l’8 settembre, avevano cercato rifugio dalla Francia in Italia ma dovettero fare i conti con la Repubblica di Salò. 
   Profughi alla ricerca della salvezza, della vita per sé e le proprie famiglie, in fuga dalla persecuzione, dalla guerra, consegnati alla morte per il servilismo della collaborazione assicurata ai nazisti. 
   Dura fu la lotta per garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo. Ci aiutarono soldati di altri Paesi, divenuti amici e solidi alleati: tanti di essi sono sepolti in Italia.
   Ad essa si aggiunse una consapevolezza: la crisi suprema del Paese esigeva un momento risolutivo, per una nuova idea di comunità, dopo il fallimento della precedente. 
   Si trattava di trasfondere nello Stato l’anima autentica della Nazione. 
   Di dare vita a una nuova Italia.
   Impegno e promessa realizzate in questi 75 anni di Costituzione repubblicana.        

   Una Repubblica fondata sulla Costituzione, figlia della lotta antifascista.
   Le Costituzioni nascono in momenti straordinari della vita di una comunità, sulla base dei valori che questi momenti esprimono e che ne ispirano i principi.
   Le “Repubbliche” partigiane, le zone libere, furono anticipatrici, nelle loro determinazioni, nel loro operare, della nostra Costituzione.
   E’ dalla Resistenza che viene la spinta a compiere scelte definitive per la stabilità delle libertà del popolo italiano e del sistema democratico, rigettando le ambiguità che avevano permesso lo stravolgimento dello Statuto albertino operato con il fascismo.

   Se il decreto luogotenenziale del 2 agosto 1943 – poco dopo la svolta del 25 luglio – prevedeva l’elezione di una nuova Camera dei Deputati, per un ripristino delle istituzioni e della legalità statutaria, non appena ce ne fossero le condizioni, fu il decreto del 25 giugno 1944  –  pochi giorni dopo la costituzione del primo Governo del CLN – a indicare che dopo la liberazione del territorio nazionale sarebbe stata eletta dal popolo, a suffragio universale, un’Assemblea costituente, con il compito di redigere la nuova Costituzione. Per questo quel decreto viene definito la prima “Costituzione provvisoria”.
Seguirà poi il referendum, il 2 giugno 1946, con la Costituente e la scelta per la Repubblica.
La rottura del patto tra Nazione e monarchia, corresponsabile, quest’ultima, di avere consegnato l’Italia al fascismo, sottolineava l’approdo a un ordinamento nuovo.
La Costituzione sarebbe stata la risposta alla crisi di civiltà prodotta dal nazifascismo, stabilendo il principio della prevalenza della persona e delle comunità sullo Stato, guardando alle autonomie locali e sociali dell’Italia come a un patrimonio prezioso da preservare e sviluppare.
Una risposta fondata sulla sconfitta dei totalitarismi europei di impronta fascista e nazista per riaffermare il principio della sovranità e dignità di ogni essere umano – autonoma identità – sulla pretesa di collettivizzazione in una massa forzata al servizio di uno Stato, in cui l’uomo appare solo un ingranaggio.
Il frutto del 25 aprile è la nostra Costituzione.
Il 25 aprile è la Festa della identità italiana, ritrovata e rifondata dopo il fascismo.
E’ nata una democrazia forte e matura nelle sue istituzioni e nella sua società civile, che ha permesso agli italiani di raggiungere risultati inimmaginabili.
E qui a Cuneo, mentre la guerra infuriava, veniva sviluppata un’idea di Costituzione che guardava avanti.
Pionieri Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci.
Guardava a come scongiurare per il futuro i conflitti che hanno opposto gli Stati europei gli uni agli altri, per dar vita, insieme, a una Costituzione per l’Europa e a una per l’Italia. Dalla ossessione del nemico alla ricerca dell’amico, della cooperazione.
La Costituzione confederale europea si accompagnava alla proposta di una “costituzione interna”.
Obiettivo: “liberare l’Europa dall’incubo della guerra”.
Sentiamo riecheggiare in quello che appariva allora un sogno, il testo del preambolo del Trattato sull’Unione Europea: “promuovere pace, sicurezza, progresso in Europa e nel mondo”.
Un sogno che ha saputo realizzarsi per molti aspetti in questi settant’anni. Anche se ancora manca quello di una “Costituzione per l’Europa”, nonostante i lodevoli tentativi di conseguirla.
Chiediamoci dove e come saremmo se fascismo e nazional-socialismo fossero prevalsi allora!
Nel lavoro di Galimberti e Rèpaci troviamo temi, affermazioni, che sono oggi realtà della Carta costituzionale italiana, come all’art. 46:
le differenze di razza, di nazionalità e di religione non sono di ostacolo al godimento dei diritti pubblici e privati“.
Possiamo quindi dire, a buon titolo: Cuneo, città della Costituzione!
Galimberti era stato allievo di Francesco Ruffini a Torino, uno dei docenti universitari che, rifiutando il giuramento di fedeltà al fascismo, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento.
Accanto a Galimberti e Rèpaci, altri si misurarono con la sfida di progettare il futuro.
Silvio Trentin, in esilio dal 1926, nel suo “Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell’Italia”, dettato al figlio Bruno nel 1944, e sostenitore, anch’egli, dell’anteriorità dei diritti della persona rispetto allo Stato.
E Mario Alberto Rollier, con il suo “Schema di costituzione dell’unione federale europea”. Testi, entrambi, di forte ispirazione federalista.
Si tratta, nei tre casi, di esponenti di quel Partito d’Azione di cui incisiva sarà l’influenza nel corso della Resistenza e dell’avvio della vita della Repubblica.
La crisi della monarchia e quella del fascismo apparivano ormai irreversibili, tanto da indurre un gruppo di intellettuali cattolici a riunirsi a Camaldoli, a pochi giorni dal 25 luglio 1943, con l’intento di riflettere sul futuro, dando vita a una carta di principi, nota come “Codice di Camaldoli”, che lascerà il segno nella Costituzione.  Con la proposta di uno Stato che facesse propria la causa della giustizia sociale come concreta espressione del bene comune, per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo di ogni persona umana, per rendere sostanziale l’uguaglianza fra i cittadini.
Per tornare alla “Costituzione di Duccio”, apparivano allora utopie alcune sue previsioni come quella di una “unica moneta europea”. Oggi realtà.
O quella di “un unico esercito confederale”. E il tema della difesa comune è, oggi, al centro delle preoccupazioni dell’Unione Europea, in un continente ferito dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina.

   Sulla scia di quei “visionari” che, nel pieno della tragedia della guerra e tra le macerie, disegnavano la nuova Italia di diritti e di solidarietà, desidero sottolineare che onorano la Resistenza, e l’Italia che da essa è nata, quanti compiono il loro dovere favorendo la coesione sociale su cui si regge la nostra comunità nazionale.
Onorano la Resistenza i medici e gli operatori sanitari che ogni giorno non si risparmiano per difendere la salute di tutti. Onorano la Resistenza le donne e gli uomini che con il loro lavoro e il loro spirito di iniziativa rendono competitiva e solida l’economia italiana.
Onorano la Resistenza quanti non si sottraggono a concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva.
Il popolo del volontariato che spende parte del proprio tempo per aiutare chi ne ha bisogno.
I tanti giovani che, nel rispetto degli altri, si impegnano per la difesa dell’ambiente.
Tutti coloro che adempiono, con coscienza, al proprio dovere pensando al futuro delle nuove generazioni.
Signor Presidente della Regione, lei ha definito queste colline, queste montagne “geneticamente antifasciste”.
Sappiamo quanto dobbiamo al Piemonte, Regione decorata, a sua volta, con la Medaglia d’oro al merito civile
Ed è alle donne e agli uomini che hanno animato qui la battaglia per la conquista della libertà della Patria che rivolgo il mio rispettoso pensiero.
Nuto Revelli ha parlato della sua esperienza di comandante partigiano e della lotta svolta in montagna come di un vissuto di libertà: di un luogo dove era possibile assaporare il gusto della libertà prima che venisse restituita a tutto il popolo italiano.
Una terra allora non prospera, tanto da ispirargli i racconti del “mondo dei vinti”.
Una terra ricca però di valori morali.
Non c’è una famiglia che non abbia memoria di un bisnonno, di un nonno, di un congiunto, di un alpino caduto in Russia, nella sciagurata avventura voluta dal fascismo.
Non c’è famiglia che non ricordi il sacrificio della Divisione alpina “Cuneense” nella drammatica ritirata, con la Julia. Un altro esempio. Un altro monito alla insensatezza della guerra.
Rendiamo onore alla memoria di quei caduti.
Grazie da tutta la Repubblica a Cuneo e al Cuneese, con le sue medaglie al valore!
Come recita la lapide apposta al Municipio di questa città, nell’ottavo anniversario della uccisione di Galimberti, se mai avversari della libertà dovessero riaffacciarsi su queste strade troverebbero patrioti.
Come vi è scritto: “morti e vivi collo stesso impegno, popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”.
Viva la Festa della Liberazione!
Viva l’Italia!

Sergio Mattarella

L’etica della cura: una nuova prospettiva (di SANDRO ANTONIAZZI, dal sito C3DEM)

Carol Gilligan è un’attivista femminista fra le più celebri al mondo, docente della New York University e autrice di “Con voce di donna” (1982) e “La nascita del piacere” (2002), fra i libri femministi più influenti di tutti i tempi. (foto da https://www.vandaedizioni.com/)

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L’ETICA DELLA CURA: UNA NUOVA PROSPETTIVA, di Sandro Antoniazzi, dal sito C3DEM (Costituzione Concilio Cittadinanza) https://www.c3dem.it/, 26/3/2023

Che cos’è l’etica della cura?

La parola cura ha molti significati.   Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.

   La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).

  Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.

   Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.   Consideriamo alcune di queste situazioni.

   Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.   Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).

   E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.    Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.   Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.

   Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.   Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).   Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.

   L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.   Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).

   Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.   Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.   Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.

   Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.   Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?

   Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.   E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.  

   La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.   Questa cura dell’ambiente porta a sua volta a riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.   Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.   E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?

   Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite. 

Nascita e sviluppo dell’etica della cura

Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a CAROL GILLIGAN, psicologa allieva di KOHLBERG, e al suo libro “CON VOCE DI DONNA”.

   Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.

   Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.   Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di JOAN TRONTO, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.

   Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.   Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di RAWLS, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.

   Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.   Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.

   Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

La cura in campo sociale

Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.   Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.   Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.

   Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.   Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.   In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.   In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).

   Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.   L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.   Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?

   Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.   Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?

   E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale?   Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.

   Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.

   Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.   Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.   In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.   Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.

   Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).   E si può aggiungere rispetto a Marx, e soprattutto alla tradizione marxista, non solo e non tanto per lo sfruttamento (concetto “economico” che indica la differenza tra il lavoro dell’operaio e il suo prodotto complessivo), ma prima e ancor più per l’oppressione, cioè per la condizione di dipendenza in cui si trova il lavoratore, che limita la sua libertà e dignità.

   L’altra tesi fondamentale, sempre collegata all’interpretazione del lavoro intellettivo e affettivo come carattere dominante dell’economia attuale, è che ormai sarebbe difficile distinguere tra lavoro e vita; praticamente l’intera vita costituirebbe un contributo/partecipazione all’economia capitalistica.   Si può riconoscere un minimo di plausibilità a questa tesi, ma indubbiamente entro limiti ben più ristretti da quelli invasivi sostenuti da questi pensatori.

   Prendiamo, ad esempio, un tipico lavoro moderno, quello effettuato al computer: molti di questi lavori sono ripetitivi e non vanno al di là dell’inserimento di dati, registrazioni standard, controlli predefiniti, invii periodici, ecc… In pratica, per molti versi, si presenta come un lavoro tayloristico, col computer invece della catena di montaggio.   Se ci sono lavori dove il contributo intellettivo e affettivo è rilevante questo va adeguatamente retribuito: ma in realtà le imprese lo sanno bene e retribuiscono in modo congruo questi lavoratori, spesso essenziali per la produzione aziendale.

   Se la motivazione a giustificazione del Reddito di base, individuata nel contributo generale all’economia e alla società, si presenta debole, non mancano altre motivazioni a sostegno: il paese è ricco e dunque una parte della ricchezza può essere distribuita a tutti, il sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione non funziona più e quindi sono necessarie altre soluzioni, si favorirebbe l’eguaglianza, si consentirebbe maggiore libertà nella scelta del lavoro, ecc…

   Non entriamo nel merito di tutte queste giustificazioni, che in genere tendono ad accumularsi tra loro, limitandoci a sostenere che per quanto la proposta possa presentarsi allettante, incontra una difficoltà impeditiva al momento insuperabile, che è rappresentata dall’onere finanziario della misura.

   Pur calcolando un’ipotesi bassa di reddito garantito – quantificabile in 500 euro mensili – si avrebbe una spesa annua di 360 miliardi (500 euro x 60 milioni di persona x 12 mesi), che rappresenta più della metà delle entrate previste dallo Stato per il 2023 (672 miliardi); spesa chiaramente insostenibile.   Peraltro, il paese sarà ricco a livello dei privati, ma non certamente a livello pubblico, perché come è noto lo Stato italiano ha un debito molto elevato (in Europa siamo secondi, superati solo dalla Grecia).

   Sono proposte che vanno tenute presenti anche se al momento impraticabili, magari utilizzabili per soluzioni parziali e comunque da discutere bene, soprattutto per non perdere il valore del lavoro, di cui si deve certamente avere cura.

La cura del pianeta

Il termine “cura del pianeta” propone immediatamente uno scenario vastissimo cui corrisponde un ipotetico programma altrettanto smisurato.

   Se alla base si esprime un’istanza etica indubbia, prevale però lo spessore politico della proposta: si tratta, si può ben dire, di cambiare il mondo e ciò chiama in causa tutti, le organizzazioni internazionali, i governi, le imprese, le singole persone.   Ognuno ha la sua responsabilità e il suo compito in quest’opera, ognuno non solo è utile, ma necessario, se si intende salvare il pianeta.

   Naturalmente diverso è il contributo che si chiede alle persone da quello che si chiede alle istituzioni: alle persone si chiede di estendere la loro “cura” dalle persone all’ambiente in cui vivono; verso le istituzioni si svolge un’opera di pressione con documenti, manifestazioni, sit-in, proteste perché accolgano le raccomandazioni di intervento a favore dell’ambiente.   L’esempio e la forza che viene dalle esperienze di base è una condizione essenziale per essere credibili e per poter contare nei confronti delle istituzioni.

   Ma non è mai facile per il singolo cittadino comprendere i grandi problemi a livello mondiale, spesso complessi anche tecnicamente; e poi gli Stati hanno tante posizioni diverse in base al loro grado di sviluppo economico delle loro risorse, della loro collocazione geopolitica.

   A livello delle persone l’etica della cura dovrebbe preoccuparsi di formare una cultura (una coscienza) sui problemi ambientali, sapendo che per curare il pianeta sarà necessario modificare il nostro modello di vita facendo anche delle rinunce (come sta già avvenendo per l’energia e come già si sta programmando per l’auto o per l’acqua).   E significa anche aver presente che nel mondo esistono tante culture diverse, che vanno comprese e con cui bisogna dialogare, se effettivamente si ha a cuore l’intero pianeta.   Sui problemi ambientali, e più in generale sui temi in cui sono coinvolte le istituzioni, è preminente senza dubbio l’etica della giustizia.

   Ora il confronto tra l’etica dominante e quella della cura diventa più stringente e più determinante, perché la cura ha molto da dire sulle decisioni che si assumono e sul modo di vedere i problemi.   Giustamente alcune associazioni di provenienza femminista e ambientalista parlano di “società della cura”, come una finalità a cui tendere nel proprio impegno: una società fatta di persone che si curano degli altri e dell’ambiente e una società dove le decisioni sulla vita comune sono prese insieme con cura.

   L’etica della cura non ha un modello di società da proporre, anche la “società della cura” non è una forma di società definita; se tutti ci preoccupiamo, ci prendiamo cura, allora la vita di tutti e la convivenza certamente migliora.

Conclusione

L’etica della cura porta nel campo dell’etica una novità importante: invece di partire dal modello dell’essere umano perfetto, razionale, autosufficiente, prende come base l’essere umano reale, in quanto tale fragile vulnerabile.

   Lo è particolarmente nella prima fase della vita e nella tarda età, ma lo è in tante altre occasioni della vita (malattie, separazioni, disoccupazione, perdita di persone care, ecc…); più profondamente l’essere umano è ontologicamente in una condizione di fragilità (basta pensare che è destinato a morire).   Abbiamo dunque bisogno delle relazioni, di ricevere e di dare cura: si diventa persone attraverso altre persone.   Dunque, la relazione, la cura, è parte sostanziale della nostra vita. Non dobbiamo crearla o inventarla, dobbiamo piuttosto viverla nel modo migliore.

   Ogni giorno abbiamo rapporti, coi nostri familiari, coi vicini, coi compagni di lavoro: la cura parte da qui, perché non ci si può interessare della cura del pianeta e non curarsi di chi ci circonda.   Proprio per questo suo carattere vitale la cura deve essere valorizzata.   Il valore della cura non è economico: è un valore umano, morale, perché riguarda il valore che diamo alle persone e ai rapporti tra le persone.

   Ciò vale anche per il lavoro di chi si occupa di cura: se la società ritiene importante la cura, anche il lavoro di cura sarà considerato e valutato.   Dare scarso valore alla cura significa relegare alla marginalità il lavoro sociale.

   La cura non è un’attività tranquilla, non è una panacea, è fondamentalmente conflittuale.   La logica della nostra società, ma anche delle persone, di tutti noi che ne siamo immersi è una logica economica, del guadagno, del profitto; la logica della cura è una logica alternativa a quella dominante: non nega la realtà economica, ma sostiene che le persone e le loro relazioni vengono prima, devono prevalere.   L’etica della cura, dunque, propone un modo di vita che, a partire dalle relazioni di prossimità, possa incidere su un cambiamento più grande, che idealmente interessi l’intera società.

(SANDRO ANTONIAZZI, dal sito C3DEM, Costituzione Concilio Cittadinanza, https://www.c3dem.it/, 26/3/2023)

 

LA GUERRA IN UCRAINA (IN EUROPA): un contributo di riflessione sull’odierna e complessa situazione politica, sociale ed economica a livello planetario (di GIORGIO SARTORI)

(Giorgio Sartori, 3/2/2023)

   Ho ritenuto di proporvi gli articoli che qui seguono come semplice contributo alla discussione con la convinzione che, oltre alle molte analisi televisive/giornalistiche, sia necessario ed urgente proporre delle azioni concrete per arrivare almeno a delle forme di “sospensione delle ostilità” e aprire dei tavoli di vera trattativa.

   Trovo assai interessante la proposta operativa avanzata dall’ultimo numero (n° 6, novembre-dicembre del 2022) de ”L’unità europea” del Movimento Federalista europeo” (UE_2022_6.pdf (mfe.it). Riporto alcuni passaggi del testo di pag.24 “Noi crediamo che sia venuto il tempo per dire basta, adesso, al massacro. Basta a questo assassinio di massa, a questa disumana distruzione di un popolo …” Come per Berlino nel 1948-’49, bisogna “organizzare un ponte di salvezza tale da far capire alla Russia che l’Ucraina non soccomberà in questo inverno né mai. Dobbiamo portare tutto quello che occorre: migliaia di generatori elettrici, tonnellate di scorte alimentari, di vestiti e di medicine in quella terra martoriata d’Europa”.  “Per questo il Movimento Federalista europeo, nato più di settant’anni fa tra le macerie della guerra e dalla speranza di un mondo libero ed unito (…) chiede all’Unione Europea, alle sue più alte istituzioni, e agli stati Uniti d’America di dar vita ad un imponente ponte di salvezza per l’Ucraina e per il mondo libero…”

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Breve introduzione agli articoli

1-  L’articolo di Zamagni affronta i problemi in una prospettiva politica di respiro mondiale coinvolgendo tutti gli Stati del Mondo, in particolare le due Forze maggiori tra loro in competizione: USA e CINA.  C’è un’indicazione “forte” di messa in discussione e aggiornamento dei trattati di Yalta e del dopoguerra. “Ci vuole una nuova Yalta perché l’ordine mondiale è cambiato ed è chiaro che il patto del ’45 tra Churchill, Roosevelt e Stalin che allora garantì la pace è crollato”. Gli scenari oggi sono mutati e Zamagni afferma che bisogna incoraggiare gli sforzi per una soluzione dei problemi per vie diplomatiche e non con la forza delle armi. Purtroppo ancor oggi l’ONU per i veti interni tra le principali Potenze non riesce a proporre ed imporre soluzioni di pace (o almeno di tregua) nei vari Paesi in guerra.

2-  L’articolo della Prof.ssa Di Cesare punta a farci riflettere sull’assuefazione alla guerra/guerre che sta coinvolgendo i nostri comportamenti, la nostra mentalità. “Adesso l’eccezione della guerra, quella che i bellicisti giuravano sarebbe durata qualche settimana, è diventata la norma, mentre noi abbiamo finito per assuefarci. Come se fosse un’ovvietà familiarizzarsi con la guerra, accettare che rientri nel nostro orizzonte”. E’ ormai una consuetudine per noi osservare negli schermi ogni giorno (a volte anche spettacolarizzate) scene di morti, distruzione di infrastrutture fondamentali per uno Stato (energia elettrica, condotte d’acqua, ospedali, abitazioni, strade ponti linee ferroviarie, emigrazione forzata di milioni di persone, etc).

3- L’articolo di Montanari – relativo al messaggio di Pace di un grande personaggio come La Pira – ci dà una “sferzata positiva” su come i movimenti per la pace debbano conciliare un’analisi seria e puntuale del momento storico con adeguate azioni politiche orientate alla pace, ma necessariamente supportate  dall’indispensabile  coinvolgimento delle persone. Scriveva La Pira: “L’età   atomica, nella quale la storia è entrata il 6 agosto 1945 con lo scoppio della prima atomica di Hiroshima (appena 0.015 megatoni!) e nella quale è incredibilmente avanzata in questi tre decenni (siamo già ad un milione di megatoni disponibili; nella sola Europa vi sono oltre 10 mila testate nucleari, una vera polveriera capace di far esplodere in pochi minuti  l’intero continente) fa sempre più emergere, mettendola in grandissimo  rilievo, la profezia di Isaia: al negoziato, al disarmo ed alla pace non c’è alternativa!”

4- Nel quarto articolo Montanari riporta un’importante analisi di Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, a proposito del dibattito sull’escalation della guerra in Ucraina e sull’utilità o meno dell’invio continuo di armi (carri armati, etc).

   La domanda cruciale è: ammettiamo di mandarli, e dopo che faremo? Risponde Lucio Caracciolo: “Ciò dovrebbe aprirci gli occhi sulla deriva del conflitto. Continuando lungo questo piano inclinato, prima o poi l’invio periodico e limitato di armi ai combattenti ucraini non basterà più. Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”. E la via suggerita da Caracciolo è l’unica possibile: quella della diplomazia, del dialogo, del tentativo di accordo.

(GIORGIO SARTORI)

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1- STEFANO ZAMAGNI: “PER I NEGOZIATI RIFONDARE L’ONU. ZELENSKY A SANREMO? SCIVOLONE”

DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA all’Università di Bologna  

“Bisogna creare istituzioni nuove o riscrivere gli statuti: quelli post-1944 sono obsoleti, l’ordine mondiale è cambiato”

di ALESSIA GROSSI, 28/1/2023,  da Il Fatto quotidiano

Per arrivare a una pace duratura bisognerebbe creare delle istituzioni di pace. Quelle uscite nel ’44 dagli accordi di Bretton Woods post-Seconda guerra mondiale sono obsolete. Andrebbero riscritti gli statuti, perché non facilitano negoziati”. Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, non dice Onu ma ricorda l’ultimo voto pro-Russia nella sede delle Nazioni Unite. “È l’istituzione in sé che non funziona”. Per il professore, che ha firmato l’appello per la pace e indicato in sette punti le condizioni per il negoziato, “ci vuole una nuova Yalta perché l’ordine mondiale è cambiato ed è chiaro che il patto del ’45 tra Churchill, Roosevelt e Stalin che allora garantì la pace è crollato”.

Professore, a un anno dall’invasione siamo ancora qui. Come vede la situazione?

La situazione è peggiorata: se si guarda indietro, esattamente a un anno fa, si pensava che con l’arrivo dell’estate le cose si sarebbero aggiustate. Si comprende ora ciò che per me era chiaro allora: questa guerra è atipica, ibrida e soprattutto combattuta per conto di altri per la prima volta nella modernità. I due contendenti sono Usa e Cina e l’oggetto del contendere è il nuovo assetto geopolitico. Se Xi Jinping e Joe Biden dicessero a Putin e Zelensky rispettivamente di fermarsi si arriverebbe alla pace.

Anche il presidente russo ha detto: “Biden ha in mano la chiave per la pace ma non la usa”.

E la ragione è tutta economica. Ci si spartisce l’accesso ai mercati. Poi si è trovata una ragione: sono anni che ci sono screzi tra Russia e Ucraina, ma non sarebbero stati sufficienti a innescare un conflitto di queste proporzioni. Usa e Cina hanno fomentato non la terza guerra mondiale, ma la prima guerra globale. Perché le guerre mondiali coinvolgono solo Paesi belligeranti, qui sono coinvolti anche altri Paesi: pensi solo allo stop dell’export del grano, se non si fosse sbloccato gli africani sarebbero morti di fame. E poi questa è una guerra di logoramento perché è interesse della Cina e degli Usa la ricostruzione.

È questa la ragione per la quale si continua ad alimentare il conflitto inviando armi a Kiev?

È chiaro. Le guerre di logoramento funzionano così. In passato vinceva o l’uno o l’altro. Qui un giorno sembra che vinca uno, il giorno dopo prevale l’altro. È in questo contesto che occorre insistere su un negoziato tra le due superpotenze senza ulteriori spargimenti di sangue.

E la minaccia nucleare? Siamo a 90 secondi dalla catastrofe.

La minaccia nucleare non è reale. La Cina ha imposto alla Russia di non usare armi atomiche e Mosca non lo fa per due ragioni: se usa la bomba tattica ci rimettono anche i russi. Se invece utilizzasse quella strategica a lungo raggio, la reazione della Nato e della Cina sarebbe immediata. La minaccia serve a Putin per spaventarci.

Cosa pensa della mobilitazione internazionale per la pace in programma per l’anniversario, il 24 febbraio?

Se vuoi la pace, prepara la civilizzazione e le istituzioni di pace. Tutti i più grandi economisti mondiali lo dicono: questa è una guerra data dalla iperglobalizzazione. Le soluzioni sono due: o la de-globalizzazione, ma non sono d’accordo perché porterebbe alla morte per fame di almeno 1 miliardo e mezzo di persone, o si riscrivono le regole economiche degli ultimi 35 anni, quelle che hanno portato all’aumento spaventoso delle diseguaglianze, che poi è il fattore scatenante delle guerre. I poveri non fanno la guerra perché per imbracciare un fucile ci vogliono 3 mila calorie.

Cosa pensa di Zelensky al Festival di Sanremo?

Cosa? Si esibisce?

No, partecipa con un videomessaggio.

Sì, ormai pare sia ufficiale. Secondo me non è opportuno: ma non credo alle tesi complottiste. Penso sia solo una caduta di stile della Rai che non ha pensato alle conseguenze indirette di questo gesto che non favorisce certo né i negoziati, né la pace.

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2- ABBIAMO NORMALIZZATO PURE LA GUERRA E LE ARMI

di DONATELLA DI CESARE

Docente di  Filosofia Teoretica Università La Sapienza di Roma

21/1/2023, da Il Fatto quotidiano

   Ha vinto la guerra? Si direbbe così a sentire il ministro Crosetto, che dalla base Nato di Ramstein ha promesso a Stoltenberg che l’Italia invierà più armi. Si parla di carri armati e di scudi missilistici, armi spacciate per difensive per renderle accettabili. Ma nessuno può distinguere tra difesa e attacco quando si tratta di armi. Siamo sempre più coinvolti in una guerra, che finanziamo anche a costo di rendere impossibile la vita dei più poveri, una guerra mai avallata, che procede nostro malgrado e che ormai preferiamo quasi dimenticare. Come se fosse letteralmente uscita dalle nostre menti, prese nel vortice di mille problemi e mille sciagure. Crescono perciò l’ansia, il disorientamento e un malinconico senso di impotenza. Eppure, tra le tante ombre minacciose, si stagliano le nubi di questo terribile conflitto che, dopo quasi un anno, appare irreversibile. Le immagini dei bombardamenti a Dnipro, dei combattimenti a Kherson, passano sui nostri schermi quotidianamente. Sembrano parti dello scenario in cui ci è toccato vivere. Siamo ormai arrivati a questo: la guerra si è normalizzata.

   Non avremmo mai voluto dirlo, né tantomeno scriverlo. E ancora fino a qualche mese fa, resistevano lo stupore per un conflitto sul suolo europeo, l’indignazione per l’invio di armi, la protesta per l’assenza di negoziati di pace. Adesso l’eccezione della guerra, quella che i bellicisti giuravano sarebbe durata qualche settimana, è diventata la norma, mentre noi abbiamo finito per assuefarci. Come se fosse un’ovvietà familiarizzarsi con la guerra, accettare che rientri nel nostro orizzonte. Dimentichiamo volentieri i rischi a cui ci esponiamo (come quelli nucleari alla centrale di Zaporizhzhia), tralasciamo ipocritamente i danni che spedendo armi infliggiamo ad altri, sbandierati invece per benefici.

   Certo, la propaganda è stata martellante, aggressiva, sfrontata. E continua a esserlo. Gli stessi cliché, le stesse assurde forzature, le stesse mielose menzogne. Ancora adesso c’è chi ripete il ritornello di Vlad il mattacchione che ha combinato questo disastro. Noi che siamo dalla parte del Bene prima o poi ne verremo fuori. Mandiamo più armi per “preparare la pace”. In realtà il fondamentalismo atlantista è diventato una vera e propria religione, con i suoi credo, i suoi dogmi e l’inevitabile crociata.

   Non sono ancora chiari gli effetti di quest’inedita dottrina, che sembra far saltare l’opposizione destra-sinistra (in diversi Paesi europei). Quello che conta è lo scontro democrazie-oligarchie. Grazie a questo schema l’estrema destra di Meloni ha potuto insediarsi al governo senza troppi ostacoli. La meraviglia, che persiste all’estero, sottovaluta questo tema. È bastata la nuova professione di fede atlantista per sdoganare i vecchi fascisti. Non parliamo poi di quello che è avvenuto nel centrosinistra, lì dove c’era da aspettarsi dall’inizio una fermezza contro questa guerra. Nel Pd, che ha pagato caro il cieco militarismo della prima ora, destano sconcerto parole come quelle di Elly Schlein, piene di ambiguità, eppure almeno in questo chiare: sì all’invio di armi. In una fase costituente, o ricostituente, come quella attraversata dal Pd, la guerra avrebbe dovuto essere la prima questione all’ordine del giorno, vagliata, analizzata, discussa nei suoi diversi aspetti. Invece tutto viene liquidato in uno slogan imbarazzante. Da Meloni a Schlein il fondamentalismo atlantista si è affermato facendo proseliti e insinuandosi un po’ ovunque, come se fosse ovvio accettare un conflitto europeo, come se fosse normale una terza guerra mondiale.

   Che dire poi di quel che si preannuncia a breve: Zelensky a Sanremo? Un capo di Stato in guerra che interviene a un festival di canzoni per chiedere che si mandino carri armati, scudi missilistici, ecc. Usare la musica popolare a sostegno della propaganda bellicista è un’abiezione. C’è da augurarsi che quell’opposizione che ancora esiste – dal M5S a SI – chieda conto di una tale scelta. Quest’iniziativa dà tuttavia la misura di quel che succede. In realtà, qui il popolo è e resta contro questa guerra. Il problema, lo sappiamo, è la rappresentanza, la possibilità di esprimere e coagulare quel dissenso che esiste.

   Non fa dimenticare la guerra Papa Francesco, che la menziona ogni volta, la domenica, il mercoledì, quando può. Le sue parole sono un baluardo contro l’oblio e la normalizzazione. Ma anche il mondo cattolico, che pure sin dall’inizio ha reagito, non riesce davvero a far sentire la propria voce e il proprio peso, quasi a sua volta travolto e frammentato da eventi così tragici e dirompenti. Più passa il tempo e più la pace perde. Si restringono le possibilità di negoziati, si approfondisce il solco, aumentano l’odio e la sete di vendetta, propende a tacere chi pensa che non è con le armi che si risolvono i conflitti tra i popoli. Ma non diciamo ancora che ha vinto la guerra.

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3- RITROVARE NEL SANTO LA PIRA L’OPPOSIZIONE ALLA GUERRA

di TOMASO MONTANARI, Storico dell’Arte e Rettore Università per gli Stranieri  Siena

23/1/2023, da il Fatto quotidiano

SCRITTI INTERNAZIONALI DIMENTICATI – “Diciamolo francamente, con fermezza e senza esitazione, questo diluvio di bombe, di fuoco, di morte e di distruzione non deve protrarsi oltre”

   Vista la mirabile vocazione all’inattualità (e dunque alla più stringente, drammatica attualità) del suo autore, il quinto volume dell’edizione nazionale delle opere di Giorgio La Pira, dedicato a Continua a leggere “LA GUERRA IN UCRAINA (IN EUROPA): un contributo di riflessione sull’odierna e complessa situazione politica, sociale ed economica a livello planetario (di GIORGIO SARTORI)”

IMPRESA PERSONALE E COMUNE. A CHE PUNTO SIAMO? (di ALDO BIANCHIN)

(brevi, sintetici APPUNTI personali di ALDO BIANCHIN dopo un incontro dedicato al tema “IMPRESA PERSONALE E COMUNE” tenuto a Rugolo di Sarmede l’8 gennaio 2023)

Un giudizio storico

   Il mondo cambia in fretta e mette in crisi i contesti internazionali ereditati dal dopoguerra. E’ sparita l’URSS. E’ entrato in crisi il duopolio mondiale di controllo USA – URSS. Nella prima fase “post” sembrava che il vincitore della “guerra fredda” fosse in grado di costituire la sicurezza del contesto mondiale. Non è stato così. Dopo l’11 settembre del 2001 e le guerre di intervento in Iraq e in Afghanistan, il “monopolio mondiale” si è rivelato fasullo. Con la pandemia abbiamo capito che il mondo attuale non è più alla portata di un egemone. E’ troppo complesso, mobile e in cambiamento per essere controllato da chicchessia.

Dall’altro lato:

la “trappola di Tucidide” (espressione che definisce la possibile tendenza che porta alcune tensioni politiche per la supremazia tra entità statali a sfociare in vere guerre combattute. L’espressione richiama nel nome lo storico e militare ateniese dell’età classica greca Tucidide, il quale ipotizzò lo scoppio della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta come causata dal timore spartano per la crescente egemonia territoriale ateniese. Ora, “trappola di Tucidide” è espressione coniata dal politologo statunitense Graham Allison che, analizzando i possibili sviluppi tra le tensioni che si manifestano tra Stati, individuò una possibile tendenza alla guerra, quando una nuova potenza emergente tenta di sostituire una potenza già consolidatasi come egemone: espressione utilizzata in particolare per descrivere un possibile conflitto tra USA e Cina, ndr) la “trappola di Tucidide” non sembra funzionare nel senso che la situazione mondiale è superiore alle possibilità di egemonie solitarie, non c’è un egemone che abbia il livello (dimensioni, consistenza, risorse, capacità e relazioni) da dominare il tutto. Non si tratta quindi come aveva sentenziato Tucidide 2300 anni fa di sostituire il “Primo” con un “Altro” che ne occupa il posto e la funzione. E’ necessaria un’altra soluzione e qui viene il bello. Quale??

Nel frattempo:

scienza e tecnologia applicata hanno trasformato la situazione mondiale e hanno spinto sull’accelerazione al cambiamento, travolgendo le situazioni esistenti e ponendo il problema del “controllo”. Sembra che gli apparati finanziari (pari a diverse volte il Pil mondiale) e con velocità di impiego // fuori dai tempi di qualsiasi capacità produttiva reale// e il comparto tecnico – scientifico nella sua struttura // fuori dalla capacità di finalizzarlo nel suo insieme (se qualcosa è possibile si fa prima o poi, chi può impedirlo) // abbiano  “autonomia” di sviluppo, con buona pace di chi dovrebbe decidere (la politica) “se e perché” le cose si devono fare.

Esempi:

Le armi atomiche messe in piedi sono in grado di distruggere 200 volte la terra. Oggi si ricorre al riarmo e ci si impegna ad un ulteriore balzo in avanti in termini atomici più efficienti, più distruttivi, più veloci nel distruggere. Ma abbiamo detto che siamo già capaci di distruggerci 200 volte….

…CHE SENSO HA TUTTO QUESTO?

   Il “mercato mondiale” (globalizzazione) non era quella meraviglia creativa, innovativa, di sviluppo sicuro per tutti (quando la marea si alza solleva insieme lo yacht e la barchetta). Non c’era bisogno di regolare l’andamento. Il mercato si regola da solo, non ha bisogno di lacci e lacciuoli. Libertà di impresa porterà un equilibrato sviluppo per tutti lasciamola fare e non disturbiamola. Senza tener conto che se qualcuno anche avesse voluto (la politica) non sarebbe stato in grado di intervenire, si diceva. Oggi tutti a dire che la globalizzazione è in crisi. Che le catene di valore della produzione si stanno riducendo per avere maggiore sicurezza e controllo, che le crisi del 2001 e del 2007/8, del 2020, la guerra in Europa del 2022 hanno cambiato il contesto e che bisogna prendere in mano la situazione e sì, si può guidarla, la politica può!

In che modo poi è tutto da vedere.

ANCORA, CHE SENSO HA TUTTO QUESTO?

   Si è fatto festa per la fine delle ideologie e ci si è immersi senza se e senza ma in una unica (neoliberalismo) che ci condiziona in modo globale e da cui, nonostante tutto, non riusciamo del tutto ad emergere pur in presenza dei suoi fallimenti. Per farlo dobbiamo elaborare una nuova prospettiva ma i contesti da cui veniamo non ci garantiscono più una base di partenza che renda possibile una costruzione di livello e di dimensione all’altezza dei problemi in cui siamo immersi (i paradigmi da cui veniamo non reggono più e i nuovi di cui abbiamo bisogno dove sono?)

SIAMO IN UNA FASE DI “INTERREGNO”

   Abbiamo alcune indicazioni. Una volta si diceva che l’azione politica e sociale doveva almeno avere tre caratteristiche per essere “di livello”: aveva bisogno di “un pensare mondiale, un conoscere nazionale e un agire locale”. Si tentava di tenerlo presente ma non era una linea trasversale che fosse introiettata dall’universo degli attivisti, c’era ma poi, nel fare, finiva per ridursi in modo particolare ad una delle tre.

   Oggi non è più possibile. Non abbiamo margini. E’ necessario che quello che si pone abbia da subito le tre caratteristiche (pensare mondiale, conoscere nazionale, agire locale) e che non si perdano più, indipendentemente da quella da cui vogliamo, per condizione personale, partire.

   DUNQUE: “Piccolo è bello”……se non marcia, in tutti i campi, con la dimensione nazionale, europea, mondiale, non è bello, è una “schifezza”. Non abbiamo certezze, le dobbiamo costruire. Ci vuole tempo, pazienza e apertura a tutto ciò che si muove e cerca nuove strade senza esclusioni e rifiuti a priori.

   Da dove cominciare dall’uno o dai molti?    Non vorrei mettere in corsa se “è prima l’uovo o la gallina”, bisogna cominciare insieme dall’uno e dai molti, non ci sono alternative. Quello che c’è non ci soddisfa, è chiaro, quello che abbiamo intorno non ci basta, cambiarlo è un processo che ci coinvolge personalmente e con gli altri.

   Abbiamo bisogno di muoverci contemporaneamente in più dimensioni. L’uomo che si muove solo in una è un mostro (Marcuse). Siamo complessi e le nostre aspettative sono complesse e non monocordi. E’ un dato. Veniamo però da una modernità che ha sviluppato le specialità (specializzazioni) in modo enorme e a questo punto non è più in grado di coordinarle. Il punto è che gli specialismi, ciascuno a suo modo, si riferiscono al soggetto che sono io e che è uno, non tanti pezzi specifici.

C’È BISOGNO DI UN APPROCCIO COMPLESSO NELLE RELAZIONI E NELLA VISIONE D’INSIEME

   Lo sviluppo adeguato delle diverse dimensioni personali non è spontaneo, ha bisogno di essere scelto e condotto con consapevolezza. Certo ci sono le basi di partenza ma niente è definito istintivamente, è tutto da elaborare (vedi Galimberti). Non è male dotarsi di un metodo (Baroni, Morin, Steiner ecc..) per cogliere la complessità e per non banalizzare le risorse e rifiutare le possibilità.

   Insomma la dimensione che piace a ciascuno di noi non può essere l’unica che ci riguarda, pena la riduzione ad unicum. Un solo aspetto è come minimo insufficiente sia per la lettura di ciò che ciascuno è, sia per la lettura della realtà e degli altri che ci circondano. La medaglia ha due facce che non sono estranee ma in parte diverse.

   In situazioni di cambiamento, di passaggio epocale, come sembra la nostra condizione odierna (tutta l’intellighenzia occidentale, russa, cinese, indiana, ecc. lo dice) dobbiamo riflettere sul tempo. Come diceva Sant’Agostino: “Io normalmente che cosa sia il tempo lo so, non c’è problema; ma se uno me lo chiede comincia il problema”. (…) In situazioni di cambiamento, di incertezza, di paura, IL TEMPO CONTA, è importante. Ci siamo rivolti ad una impostazione che ci ha fornito Luca Robino. Dice Luca: cominciamo con una analisi (tanto per cambiare). C’è UN TEMPO DELL’OROLOGIO; UN TEMPO BIOLOGICO (quale è l’età in cui uno si trova ora, per il suo agire fa differenza); UN TEMPO STORICO (quale dimensione temporale per i cambiamenti storici); UN TEMPO EVOLUTIVO (200.000 anni fa l’uomo di Neanderthal….); e finché rimaniamo nell’analisi tutto torna, in fondo è comprensibile, ragionevole, distinto opportunamente.

   Ma il nostro vivere, le nostre attese, il nostro sentire che è gran parte di ciò che siamo non è così distinto. Le sue dimensioni del tempo si intersecano, si aggrovigliano non sempre riusciamo a sbrogliare la matassa, abbiamo bisogno di rifletterci sul piano personale e su quello comune se no rischiamo di non capirci, di incasinarci. “Grande è il disordine sotto il cielo”, nel nostro tempo storico ma se non poniamo attenzione rischiamo di aumentarlo invece che di ridurlo.

   Ciascuno di noi, dove si trova, che cosa fa in merito al discorso, come pensa di impiegare il suo tempo nelle varie dimensioni e come ritiene di coordinarsi con gli altri?   In altre parole qual è la sua impresa e come può trovare integrazione con quella degli altri e quella comune? (ALDO BIANCHIN)

GIORNATA DELLA MEMORIA 2023: significato nell’attuale situazione politica, sociale e culturale (di GRAZIA BARONI, da “Demos Piemonte – Democrazia Solidale”)

   Cosa rinnova la Giornata della Memoria che potremmo acquisire come insegnamento ulteriore? È solo lo sterminio degli ebrei?
   La domanda si ripropone ogni volta che si avvicina questa data. Ciò che volevamo non dimenticare, prima di tutto, è che non c’è niente al mondo che giustifichi la soppressione di una vita umana. In secondo luogo, non esiste nessuno al mondo che possa arrogarsi il diritto di scegliere chi può vivere e chi no.
   La necessità di ribadire costantemente il valore irrinunciabile di questi principi – ed è per questo abbiamo messo un punto fisso sul calendario – è data dal fatto che la storia ci insegna che i problemi di convivenza tra le diversità che caratterizzano le nostre società richiede una forte dose di creatività per inventare nuove relazioni. Non tutti però sono in grado o disposti a fare questa fatica. È più facile e frequente scegliere scorciatoie per rispondere in fretta alla domanda, a discapito della complessità implicita.
   Accumulandosi nel tempo, queste scorciatoie portano a ripetere gli stessi errori. Sono vent’anni che in Italia persiste l’incongruenza tra il celebrare il 27 gennaio, Giorno della Memoria, e il mantenere una legislazione relativa all’immigrazione che non è di sterminio esplicito, è vero, ma che contiene molti elementi di similitudine con quanto si condanna del processo storico che ha determinato la Shoah.
   La prima somiglianza è tra le leggi razziali, che nel Reich avevano reso reato l’essere ebrei, e la legge Bossi-Fini che rende reato l’esistere dei non Italiani in Italia. Un’altra cosa grave è che la dicitura della legge nasconde l’elemento discriminatorio e lo trasforma in una norma a difesa della nazione. In questo modo chi la critica sembra mettersi contro la propria patria.
   La terza incongruenza è il linguaggio usato deliberatamente in modo ambiguo. Riporto, ad esempio, l’incipit della legge: “Al fine di favorire le elargizioni in favore di iniziative di sviluppo umanitario, di qualunque natura, al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni…” Pertanto, le operazioni compiute dalle ONG che con le navi recuperano i naufraghi nel Mediterraneo e le azioni delle associazioni che rispondono alle necessità umane degli immigrati a terra, sono rese impossibili da questa legge che rende tutti complici del reato di “immigrazione clandestina”.
   La legge Bossi-Fini risale al 2002, ma la tecnica di usare parole in modo ambiguo, deformandone il significato, è incominciata con il governo Berlusconi nel ’94 e poi con i governi di Salvini e Conte ed è arrivata all’estremo di un trasformismo tale, da togliere qualsiasi forma di relazione costruttiva tra le persone, tutto questo favorito dalla velocità dell’informazione che consente di fare dichiarazioni contraddittorie tra loro da un giorno all’altro. Se le parole non corrispondono a valori e a realtà, non esistono più comunicazione e progetti possibili. Infatti, la comunicazione è un rapporto biunivoco tra due soggetti che si scambiano i loro punti di vista creando una nuova dimensione che li contiene entrambi senza confonderli e li trascende.
   Questo scollamento tra il significato della parola e la realtà dei fatti ha distrutto la politica.
   La politica è l’uso del confronto verbale in alternativa all’uso delle armi; quindi togliere valore alla parola crea di fatto spazio per le armi. Questo quotidiano uso deviato delle parole ci ha portato a gravi conseguenze e costituisce una semplificazione che rende sterile il linguaggio. Chiamare “buonismo” ciò che fanno le ONG legittima l’indifferenza. Usare il termine “politica”, vale a dire la ricerca del bene comune, quando in effetti ci si riferisce all’esercizio di potere di un partito, legittima la supremazia del potente. Definire i media e i social “mezzi di comunicazione,” cioè uno scambio creativo tra due soggetti, quando siamo di fronte a meri strumenti di informazione, legittima la superficialità e la strumentalizzazione dell’altro da sé. Infine, parlare di “economia” – che è l’armonia nell’uso delle risorse – quando ciò a cui ci si riferisce è la finanza – che è una scommessa su chi vince e chi perde – legittima la disuguaglianza.
   Nel mondo della finanza e della produzione, le conseguenze di questo uso distorto del linguaggio sono particolarmente gravi perché hanno creato uno scollamento tra il valore della qualità del prodotto e il valore finanziario basato sul “gioco” in borsa. Ciò porta alla dequalificazione sia del lavoro che del prodotto e origina l’aumento della povertà e del consumismo che sfocia nel dramma ambientale.
   Questa incongruenza è evidente anche nelle conseguenze delle speculazioni finanziarie: infatti, il giocatore finanziario sopravvive all’ondeggiare dei picchi di valore, perché il gioco è tutto virtuale, mentre le aziende produttive, i privati e i lavoratori, base dell’economia reale, soccombono perché ciò che ha perduto valore è la concretezza stessa della realtà.
   In questo modo non si impoverisce soltanto l’aspetto economico della vita, ma si distrugge proprio il lavoro come qualità umana, espressione della capacità creativa e produttiva di trasformare la materia rendendola sempre più rispondente al nostro desiderio di condivisione del benessere e della soddisfazione per il proprio agire.
   Abbiamo capito che uno dei più importanti valori è la relazione umana e continuiamo ad erigere separazioni. Temiamo le siccità conseguenti al riscaldamento globale dovuto all’uso degli idrocarburi e continuiamo ad inquinare sempre di più; sappiamo che il 75% dei lavori attuali tra due anni al massimo non ci sarà più e si continua a organizzare la scuola come luogo di formazione a questi lavori.
   Quando c’è questa incongruenza tra ciò che facciamo e ciò che consideriamo giusto, creiamo il nostro disagio perché l’essere umano è un essere razionale la cui specificità è proprio dare ragione e senso alle cose.
   Oggi non è solo il pianeta ad essere a rischio, ma l’umanità.
   Questa contraddizione tra il celebrare una giornata che ammonisce su un fatto storico da non ripetere come i campi di segregazione quando la nostra società crea altri obbrobri disumani a scopo di bieco consenso per conservare il proprio potere personale, mette a rischio il valore della democrazia come conquista di civiltà.
   Le giornate mondiali sono davvero momenti di riconoscimento e consolidamento dei valori su cui si fonda la nostra convivenza oppure è solo folclore?
   La commemorazione del passato ci ricorda solo un momento storico, oppure ci ricorda qualcosa che sostiene e dà qualità alla nostra scelta della Democrazia? Questo dobbiamo domandarci.
   Allo stesso modo il fatto di giurare sulla Costituzione da parte di chi si appresta a governare è solo un rito o è una dichiarazione di fedeltà a quei valori che sono la prospettiva della società che il Governo si propone di realizzare?
   Il mandato che si riceve attraverso le elezioni è proprio quello di realizzare i principi che la Costituzione descrive come base della convivenza civile e come progetto di prospettiva da realizzare in solido: tutti i punti della Costituzione devono essere rispettati.
   La democrazia è proprio il superamento della necessità di individuare una misura che dica chi vale e chi no; è lo strumento che consente a ogni persona di avere diritti in quanto essere umano che partecipa al vivere civile, la democrazia non richiede altri meriti. Quindi cosa vuol dire giurare sulla Costituzione quando al Ministero dell’istruzione e del Merito, dell’attuale Governo Meloni, si ripropone la meritocrazia?
   Cosa vuol dire giurare sulla Costituzione e poi proporre l’autonomia differenziata tra le regioni, come hanno fatto i ministri Salvini e Calderoli, aggravando le differenze tra i territori e i servizi per la cittadinanza?
   La qualità democratica deve essere quella di estendersi sempre di più, fino a includere l’intera umanità perché quando ci si trova a dover difendere la democrazia, anziché condividerla, si erigono muri, si tolgono diritti e si inizia a negarla.
   La storia testimonia la profondità del significato che le parole trasmettono: non è folklore. A testimonianza di ciò quando il Parlamento italiano ha dato riconoscimento ai luoghi della Shoah, assegnando un finanziamento alle scuole per far conoscere la realtà dei campi di sterminio, Liliana Segre nel dichiarare il proprio voto favorevole ha detto: “Ad Auschwitz, si va in silenzio, con vestiti adeguati. Non si va in gita, si va come a un santuario magari avendo anche saltato la colazione del mattino….”  (GRAZIA BARONI)