L’APPRODO EUROPEO (di Aldo Cazzullo, da “il Corriere della Sera” del 27/9/2022)

   Sono quasi trent’anni che l’Europa si indigna, e sono quasi trent’anni che la destra più o meno populista è in maggioranza nelle urne (con l’effimera eccezione dei 24 mila voti in più di Prodi nel 2006), e quando è unita vince. Segno che l’indignazione non serve. Un po’ di preoccupazione, tuttavia, è legittima.

   Ora Giorgia Meloni è davanti a un bivio. Tra l’istinto e la ragione. Tra sovranisti ed europeisti. Tra protezionisti e liberali.

   Da una parte, la strada che conduce alle sue alleanze tradizionali: Viktor Orbán a Budapest, Jarosław Kaczynski a Varsavia, Marine Le Pen a Parigi, Santiago Abascal a Madrid. Dall’altra, la strada che conduce a chi governa davvero l’Europa: Ursula von der Leyen a Bruxelles, Christine Lagarde a Francoforte, Olaf Scholz a Berlino, Emmanuel Macron a Parigi (a Madrid governa invece il socialista Pedro Sanchez; che se dovesse perdere le elezioni l’anno prossimo cederebbe il posto non ad Abascal, ma al leader del partito popolare Alberto Núñez Feijóo).

   Da quale strada sceglierà Giorgia Meloni dipendono la nostra (precaria) salute economica e il nostro futuro nell’Europa turbata dalla guerra che infuria sulle sue frontiere orientali.

   I sovranisti non sono un monolito. Il governo ungherese è il miglior amico di Putin; quello polacco è il miglior amico di Zelenski. Orbán straparla di difesa della «razza bianca»; Abascal teorizza l’iberosfera, invita i venezuelani a venire in Spagna, candida i cubani anticastristi. Quanto a Marine Le Pen, tecnicamente in Europa fa parte del gruppo di Salvini e non di quello della Meloni. Tuttavia, non prendiamoci in giro: le radici e il cuore della prima donna presidente del Consiglio sono da quella parte.

   Poi però c’è la realtà. C’è un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di euro di debito pubblico, e non è fallito perché quel debito è di fatto garantito dai tedeschi, è posseduto per almeno il 10% dai francesi, è finanziato dalla Banca centrale europea, è alleggerito dal debito comune varato dalla Commissione di Bruxelles. Questo ovviamente non può e non deve piacerci. Però è l’amaro destino di chi ha tutti i record negativi d’Europa, di chi fa meno figli e ha meno abitanti al lavoro, di chi ha più evasori e più giovani che il lavoro non lo cercano, di chi non riesce a spendere soldi pubblici in cantieri, progetti, infrastrutture ma solo in sussidi.

   Un Paese così va profondamente cambiato. Tutti ci auguriamo che la Meloni riesca dove centrodestra, centrosinistra, grillini hanno fallito. Tuttavia, c’è una sola cosa che un Paese così deve assolutamente evitare: rompere con l’Europa. Su molti temi, ma innanzitutto sull’Ucraina, sulla politica energetica, sulla tenuta dei conti pubblici. In campagna elettorale, a parte le sbandate degli ultimi giorni per Orbán e Abascal, la Meloni ha dato assicurazioni su questi tre punti. Vedremo se ora sarà coerente. La scelta del ministro dell’Economia, da concordare con Sergio Mattarella, sarà il primo banco di prova. È vero che Fratelli d’Italia ha raccolto un voto di protesta, antisistema. Ma ha anche raccolto il voto dei moderati che – come disse al Corriere Fedele Confalonieri alla vigilia della caduta di Draghi – hanno visto nella Meloni la leader in grado di riportare dopo undici anni il centrodestra a Palazzo Chigi.

   Dall’altra parte, anche l’Europa commetterebbe un grave errore a trattare l’Italia dall’alto in basso. Il passato dimostra che le interferenze non aiutano, semmai rafforzano lo spirito antieuropeo. L’ammonimento della von der Leyen alla vigilia del voto – «abbiamo gli strumenti…» -, e il rimbrotto della prima ministra francese Elisabeth Borne all’indomani – «vigileremo…» -, come se l’Italia fosse un Paese da tenere sotto tutela, rischiano di essere controproducenti.

   Anche Scholz e Macron hanno i sovranisti in casa. Spingere la Meloni in quella direzione non conviene neppure a loro. Al contrario, Berlino e Parigi hanno tutto l’interesse a costruire con il nuovo governo italiano un rapporto produttivo. Un segnale in questa direzione ieri Macron l’ha dato, ribadendo che, com’è ovvio, la Francia rispetta l’esito del voto italiano.

   In fondo, alla Meloni non si chiede nulla di diverso da quello che ha sempre promesso: far valere l’interesse nazionale. E in questo momento l’interesse nazionale è dialogare in Europa, senza ricevere ordini ma anche senza pretendere di darne (altro che «è finita la pacchia»).

   Il modo migliore per prendere definitivamente le distanze dai fantasmi del passato, dal nazionalismo estremo, dal protezionismo, dal corporativismo, è un grande investimento sulla libertà. Libertà di intraprendere, di rischiare, di lavorare, anche di guadagnare di più, una volta adempiuti gli obblighi fiscali. Scommettere sugli italiani e sugli europei, non come due cose in contraddizione ma come due facce della stessa medaglia, è l’unica maniera che ha Giorgia Meloni per non fare la fine di Grillo, Renzi, Salvini e degli altri innamoramenti fugaci. (ALDO CAZZULLO)

LA REALTÀ E L’ASSURDO (di GRAZIA BARONI)

“Ultima Generazione” (coalizione di cittadini uniti per le richieste legate alla crisi eco-climatica) ha avviato, da sabato 3 settembre a Milano, un ciclo di scioperi della fame per richiedere ai leader dei principali partiti politici che si confrontano in questa campagna elettorale, di impegnarsi a inserire l’emergenza eco-climatica nella propria agenda politica in modo concreto e tangibile. E invita movimenti, associazioni e cittadini a unirsi o a manifestare la propria solidarietà all’iniziativa. Il primo manifestante è un giovane studente di 16 anni che si è seduto sabato mattina anche davanti alla sede di Fratelli d’Italia (foto da https://primadituttomilano.it/)

(15/9/2022) –  In un clima di campagna elettorale e anche di crisi della forma democratica dei governi e dell’Europa, tre notizie di cronaca in questi giorni hanno suscitato in me perplessità e una riflessione non retorica su come l’Italia sta vivendo questo momento elettorale e le occasioni che i nostri rappresentanti politici parlamentari, nazionali e locali, stanno perdendo.

   La prima di queste occasioni è l’iniziativa del forum il “Patto di Assisi” dal titolo “The economy of Francesco”; la seconda è il Leone d’oro del Festival del cinema di Venezia, assegnato al docu-film che denuncia l’attività di una casa farmaceutica americana. La terza è lo sciopero della fame del sedicenne Francesco di Milano a difesa del clima.

   Mi sembra assurdo che sia il Papa, capo di una istituzione religiosa, il solo ad avere il coraggio di dire che la legge di mercato liberista che governa il mondo è la causa delle crisi globali attuali: quella del cambiamento climatico, quella sanitaria e quella sociale. Da un lato è assurdo che sia il Papa a promuovere un progetto di economia alternativa invece che i politici, ma dall’altro lato rende evidente che il cristianesimo è la visione culturale che si fonda sul riconoscere l’essere umano come valore fondante l’esistenza e che promuove la giustizia sociale e la parità dei diritti di ogni essere umano, come è recitato da millenni nel Magnificat “… ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili. Ha rimandato i ricchi a mani vuote e ha colmato di doni gli affamati…”.

   Nel riconoscere a ogni individuo l’essere portatore di diritti, la cultura cattolica ha anche raccolto il patrimonio storico del concetto di “poleis” greca e il concetto di “res pubblica” romana, fino a supportare l’attuale concetto di cittadinanza democratica. Stride che sia il “monarca” dello stato Vaticano a promuovere lo sviluppo della democrazia, ma per fortuna Bergoglio non ha usato la sua carica di sovrano per presentarsi al mondo, ma si è proposto come testimone di un messaggio universale, che riconosce ogni essere umano figlio di un Dio padre che desidera e sostiene la fraternità tra tutti gli esseri umani, il cristianesimo. Ma questo, purtroppo, non ha lo statuto di conquista culturale e dunque non è considerato patrimonio storico dell’umanità, ma è riconosciuto solamente come una delle tante espressioni religiose quindi ridotta a un riconoscimento individuale. Perché i politici democratici e progressisti non propongono loro, fra i progetti della campagna elettorale, di studiare una strategia concreta per avviare una nuova economia?

   Il secondo evento, il documentario “All the beauty and the bloodshed” premiato a Venezia mi fa chiedere: è il mondo dell’arte che deve assumersi il compito di controllare e denunciare pubblicamente la qualità dei prodotti di una struttura economico-industriale farmaceutica operante in uno Stato che si dichiara democratico? Non è compito dei ministeri dell’industria e della salute assicurarsi che quanto viene prodotto sia effettivamente a difesa della salute della cittadinanza? Non sarebbe compito dei politici democratici impedire o almeno regolamentare che la ricerca e la produzione farmaceutica abbiano come scopo il profitto, invece che la cura e la salute dei propri elettori?

   Anche in quest’ultimo caso nonostante l’esperienza della pandemia, come mai in questa campagna elettorale i partiti – soprattutto quelli che si pongono come paladini a difesa della qualità della vita dei cittadini – non propongono un reale progetto di riforma complessiva per una nuova sanità pubblica?

   Un progetto che ripristini la medicina di base oggi relegata ormai a svolgere solo una funzione burocratica e i servizi sul territorio così drammaticamente carenti durante la recente emergenza sanitaria. Un progetto che rinnovi l’università, che torni a formare dei professionisti che rispettino la persona e non i protocolli e che curino il malato e non la malattia. Un progetto, infine, che tolga il numero chiuso all’università per evitare non solo la carenza attuale di medici, ma il rischio di eliminare, con una selezione basata sul nozionismo, chi sceglie la facoltà per vocazione di cura. Un’università che insegni ai nuovi studenti di tornare a diagnosticare farebbe risparmiare moltissimo nell’uso indiscriminato dei macchinari per le analisi, che sarebbero quindi usati in modo più mirato e solo a conferma della diagnosi.

   La terza notizia di cronaca che mi dà da riflettere in questi giorni è che un gruppo di ragazzi sedicenni a Milano abbia organizzato una staffetta di sciopero della fame per chiedere ai politici che nei loro programmi elettorali venga contemplata una politica di governo finalizzata alla difesa del clima.

   Intanto i candidati, eludendo questa semplicissima e razionale richiesta necessaria a iniziare a provare ad arginare e rispondere alla ormai nota urgenza climatica, continuano a fondare le loro campagne elettorali su questioni molto settoriali accusando gli altri schieramenti di inettitudine, mettendo in evidenza solo gli aspetti che possono funzionare da spauracchio: maggiore tassazione e immigrazione se vince la sinistra, o un governo autoritario e discriminatorio se vince la destra, rendendosi in questo modo simili, non distinguibili fra loro. Questa modalità li rivela tristemente non adatti a un governo affidabile ed efficace.

   D’altronde, è stato Draghi come Presidente del Consiglio, guidato dall’idea di un’Europa sovrana, a conquistare per l’Italia una posizione di rispetto tra le nazioni tanto da rappresentare un modello possibile da seguire per iniziare il percorso per la realizzazione dell’Europa. Non sono passati due mesi da quando Conte e Salvini hanno fatto cadere il governo Draghi, dimostrando che dell’Italia, della democrazia e dell’Europa non interessa assolutamente niente, che gli Italiani si sono già dimenticati il loro comportamento irresponsabile. Infatti, a quanto dicono i sondaggi, sono pronti a rivotarli anche se hanno dimostrato o una grave ignoranza, o addirittura di essere complici di progetti di governi autocratici, se non addirittura totalitari.

   Questo comportamento mi lascia disorientata, ma mi fa anche ricordare che pochi anni fa è stato prima denigrato, poi abolito il metodo di apprendimento attraverso la memoria, nei primi anni della scuola elementare, come strumento fondamentale non solo per acquisire conoscenza ma per mantenerla nel tempo. Scelta scellerata e ideologica e non certo dettata da una consapevolezza pedagogica. Comunque, questi sono i frutti.

   Però bisogna essere consapevoli che in una democrazia denigrare la classe politica significa denigrare il popolo intero: infatti, ogni volta che si accusa la classe politica di incapacità, dobbiamo riconoscerci responsabili del fatto di non aver saputo scegliere da chi vogliamo farci rappresentare. Ricordiamoci che abbiamo in mano noi il potere di scegliere la qualità di chi ci governerà. Della decadenza di oggi, alla fine, possiamo ringraziare solo noi stessi.

   Perché i partiti, che si dichiarano democratici e di sinistra, cioè aperti al futuro e allo sviluppo della civiltà, non prevedono nei loro programmi elettorali progetti di economia solidale ed ecologicamente sostenibile in una distribuzione equa dei beni primari? Un progetto di massiccio investimento nella scuola pubblica nell’università e nella ricerca, riconoscendo a queste istituzioni il loro ruolo di strumenti necessari perché i giovani possano acquisire conoscenze sufficienti a realizzare concretamente il futuro che desiderano? Dimostrerebbero con questo loro programma non solo lungimiranza ma soprattutto di saper riconoscere ciò che veramente è economico nel tempo e aperto alla possibilità di un futuro soddisfacente e desiderabile per tutti. In questo modo sarebbero facilmente riconoscibili dagli elettori, che questo si aspettano da chi si dichiara progressista.

   Le nuove realtà che si sono proposte come possibili rappresentanti del popolo italiano, nuovi partiti e nuove idee, le tante sigle che si sono presentate, devono rendersi conto di quanto grande sia la responsabilità che si assumono. Se si propongono come novità nell’ambito politico, poi devono essere all’altezza di rendere concreta la loro visione. Se falliscono in questo saranno responsabili non solo del loro fallimento, ma soprattutto di togliere la speranza agli italiani e alle giovani generazioni nella funzione principale della politica che è quella di governare la società in modo democratico. Se manterranno fede alle loro intenzioni la storia li riconoscerà come coloro che hanno permesso e rinnovato lo sviluppo della civiltà umana. (GRAZIA BARONI)

CRISI ENERGETICA: LE DECISIONI EUROPEE NELLA TRAPPOLA CONFEDERALE (di Sergio Fabbrini, da “il Sole 24ore” del 11/9/2022)

   Le implicazioni sociali ed economiche della crisi energetica sono evidenti (e drammatiche). Meno evidenti sono invece le implicazioni geopolitiche ed istituzionali. Discutiamone.

   La politica energetica è una competenza nazionale da gestire attraverso il coordinamento intergovernativo del Consiglio dei ministri nazionali. La Commissione è richiesta di fare proposte, il Parlamento europeo di intervenire nell’eventuale traduzione legislativa di una decisione, ma quest’ultima è presa innanzitutto dai governi nazionali.

   Anche nella politica energetica, per dirla con lo scienziato politico ungherese LÀSZLÒ BRUSZT, c’è una “TRAPPOLA CONFEDERALE” che imprigiona il processo decisionale. Le decisioni sono prese sulla base di un sistema di rappresentanza che enfatizza gli interessi nazionali senza bilanciarli con un interesse europeo.

   Le conseguenze di questo sistema si sono viste venerdì scorso (9 settembre 2022, ndr), quando la riunione informale dei ministri dell’energia del 27 governi nazionali dell’Unione europea (Ue) è finita con un nulla di fatto.

   Sulla base di un “non-paper” (documento di lavoro) della Commissione, i ministri hanno discusso le opzioni (cinque) proposte per giungere alla riduzione dei costi dell’energia. È stata però l’opzione di introdurre un tetto al prezzo del gas che ha portato in superficie le divisioni tra i 27 governi nazionali rappresentati da quei ministri. Per alcuni ministri (di Italia, Belgio, Polonia, Grecia), il PRICE CAP dovrebbe essere introdotto nei confronti di tutti i fornitori di gas; per altri (di Francia e Paesi Bassi) solamente nei confronti dei fornitori russi; per altri ancora (dell’Ungheria) non dovrebbe neppure essere considerato.

   Alla fine della giornata, si è manifestata una maggioranza favorevole di 15 ministri (su 27) a favore della proposta di un price cap generalizzato, una condizione necessaria ma non sufficiente per quindi formalizzare la proposta. Infatti, per una decisione a maggioranza qualificata del Consiglio dei ministri, è necessario disporre di una doppia maggioranza: 55 per cento dei ministri (e con 15 ministri ci siamo) che rappresentino però il 65 per cento della popolazione dell’Ue (e qui non ci siamo, in quanto tra i 15 non c’era la Germania, mentre la Francia era favorevole solamente ad un price cap per il gas russo).

   Anche con il voto a maggioranza qualificata, non si va da nessuna parte senza l’inclusione (nella maggioranza) di uno dei due grandi Paesi. In particolare, la Germania continua ad essere il Paese più refrattario verso l’opzione del price cap (anche per il gas russo). Come ha mostrato ieri Federico Fubini sul Corriere della Sera, la Germania ha continuato a beneficiare, pure nei mesi di guerra, di prezzi di favore da parte di Gazprom in virtù di contratti di lungo termine firmati con quest’ultimo. Il governo tedesco non vuole irrigidire i rapporti con Mosca, spingendola verso una chiusura generalizzata delle forniture (ora che arriva la stagione invernale).

   La freddezza tedesca nei confronti del price cap ha condizionato la presidente tedesca della Commissione, al punto che Ursula von der Leyen è stata criticata dal presidente del Consiglio europeo dei capi di governo, Charles Michel, sensibile invece verso il punto di vista francese.

   Dietro le resistenze della Germania, però, c’è una sua evidente debolezza. La crisi energetica sta ridimensionando il ruolo di quel Paese, conducendo ad un riequilibrio dei rapporti geopolitici interni all’Ue. La Germania ha costruito il proprio successo economico sul gas a basso costo proveniente dalla Russia, massimizzando la sua collocazione geografica limitrofa a quest’ultima. Successo utilizzato per promuovere la propria egemonia (economica e culturale). L’invasione russa dell’Ucraina ha mandato in pezzi il modello economico tedesco, oltre che le sue pretese di “superiore moralità”. Dipendere dal gas russo è stato un errore strategico, di proporzioni colossali, compiuto dall’intera classe dirigente tedesca (politica ed economica).

   Così, questa volta, è la Germania ad avere bisogno di aiuto. Dalla Francia (che glielo ha subito fornito), ma in prospettiva anche dai Paesi dell’Europa del sud. Infatti, la Spagna (che dipende solamente per il 10 per cento dal gas proviene dalla Russia) e il Portogallo dispongono di ben 7 terminali di gas naturale liquefatto, equivalente ad 1/3 della capacità trasformativa (processing capacity) esistente in Europa. Tant’è che il governo tedesco ha proposto di collegare, con nuove pipelines, i due Paesi iberici con il resto d’Europa, dimostrandosi disponibile a condividerne i costi con altri governi nazionali.

   Anche l’Italia (storicamente dipendente dal gas russo) ha tratto vantaggio dalla sua collocazione geografica. In poco tempo, il governo Draghi ha diversificato i fornitori di gas, aprendo nuovi contratti con Paesi del Nord Africa e con gli Stati Uniti (e facendo infuriare Mosca, oltre che i putiniani di casa nostra). L’Algeria ha preso il posto della Russia come nostro principale fornitore. La crisi energetica sta muovendo il pendolo verso sud.

   Tuttavia, c’è poco da godere. Infatti, una politica energetica non dovrebbe favorire, oggi, gli interessi di alcuni Paesi e, domani, gli interessi di altri Paesi. Così come la politica anti-pandemica ha promosso l’interesse europeo alla sicurezza sanitaria, così dovrebbe avvenire anche con la politica energetica. Senza dotare Bruxelles di una sua CAPACITÀ AUTONOMA, non si potrà soddisfare l’interesse comune alla sicurezza energetica. Perché non usare il riequilibrio geopolitico per LIBERARCI DALLA TRAPPOLA CONFEDERALE, che oggi ci favorisce e domani ci penalizza?

(di Sergio Fabbrini, da “il Sole 24ore” del 11/9/2022)

PER UN ‘ITALIA EUROPEA: IL DESTINO INSCINDIBILE DELL’ITALIA E DELL’EUROPA – Appello del Movimento Federalista Europeo ai candidati per le elezioni politiche 2022

   All’appuntamento elettorale del 25 settembre non si decideranno le sorti del nostro Paese sulla base di scelte interne nazionali riconducibili all’alternativa classica tra destra o sinistra.

   Le sfide che l’Italia deve affrontare hanno innanzitutto una dimensione europea e mondiale. Riguardano la pace o la guerra, la libertà o la sottomissione, la democrazia o l’autocrazia, il progresso o la reazione; e dipendono innanzitutto dalla nostra capacità di perseguire e difendere i nostri valori e il nostro modello politico uniti come Europei, perché nessun Paese ha la possibilità di farlo da solo.

   L’Italia ha un ruolo determinante all’interno dell’Unione europea.

   Per questo la vera posta in gioco il 25 settembre riguarda innanzitutto la credibilità che avrà il prossimo governo a livello europeo e l’impegno che saprà mettere in campo per rafforzare l’UE e avviare la costruzione dell’Unione politica federale.

   Qualsiasi scelta di politica nazionale che non sia coerente con questo obiettivo mina i veri interessi dei cittadini. Il futuro dell’Italia si costruisce in Europa e con l’Europa. Il patto per l’unità nazionale alla base del governo guidato da Mario Draghi era nato proprio per questo, per cogliere le opportunità offerte dalla solidarietà europea attraverso il Next Generation EU.

   La necessità di garantire, dopo il 25 settembre, la continuità con l’esperienza del governo uscente va quindi intesa in questo senso. Questo vale per tutte le forze politiche.

   Per tutti, e innanzitutto per i cittadini che dovranno orientarsi nel voto, deve essere chiaro che per perseguire l’interesse nazionale è necessario:

– mantenere gli impegni, in termini di investimenti e riforme, indicati nel PNRR, senza deroghe, ritardi, ripensamenti. Le nuove proposte politiche avanzate nei programmi elettorali ai cittadini devono essere coerenti e in continuità con questo quadro e, per non minare la credibilità dell’Italia, devono coniugarsi con l’obiettivo del risanamento dei conti pubblici;

– rinunciare ad ogni posizione che, nel quadro europeo, possa allontanare l’Italia dalle sue alleanze tradizionali, a partire da quella con Francia e Germania. In particolare è essenziale garantire la continuità dell’asse con la Francia per dare seguito ai progetti comuni di riforma dell’UE, e proseguire sulla via tracciata dal Trattato del Quirinale;

– promuovere, a livello europeo – insieme alle politiche legate alla transizione energetica, alla lotta al cambiamento climatico e in generale allo sviluppo di tutti i settori in cui è necessario costruire un’autonomia strategica (dal digitale, all’industria militare, alla ricerca, ecc.) – le riforme politico-istituzionali su cui già Draghi e il governo erano impegnati, in collegamento con le richieste avanzate dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, per rendere l’Unione europea una vera unione politica, sulla base “di un federalismo pragmatico e ideale”:

  1. sostenere in seno al Consiglio europeo e lavorare per promuovere la convocazione di una Convenzione in base all’art. 48 TUE come chiesto dal Parlamento europeo per avviare la riforma dei Trattati sulla base delle proposte definite dalla Conferenza sul futuro dell’Europa. Il governo italiano con Draghi e il Parlamento uscente si erano già espressi a sostegno di questa iniziativa;
  2. sostenere l’attribuzione di nuove competenze dell’Unione europea perché possa sviluppare politiche efficaci, in particolare in quei settori che ora sono esclusivamente o prevalentemente nazionali, ma che invece necessitano una dimensione europea: in materia fiscale ed economica, nella politica industriale, in quella sociale e in quella sanitaria, nella politica estera e della sicurezza, sia esterna che interna;
  3. attribuire in tutte queste materie poteri di codecisione al Parlamento europeo generalizzando la procedura legislativa ordinaria e abolendo il diritto di veto, per superare l’attuale sistema intergovernativo e costruire una effettiva sovranità democratica europea;
  4. rafforzare il ruolo del Parlamento europeo come rappresentante dei cittadini attribuendogli sia il potere di iniziativa legislativa, sia quello fiscale, per riformare l’attuale bilancio dell’UE in senso federale e creare le condizioni per una capacità politica effettiva delle istituzioni europee e per investimenti e meccanismi di stabilizzazione a livello europeo;
  5. rafforzare l’evoluzione della Commissione europea in un vero governo responsabile difronte al Parlamento e quella del Consiglio dell’Unione europea in direzione della trasformazione in un Senato degli Stati;
  6. sostenere la creazione di liste transnazionali e il sistema degli Spitzenkandidaten per l’elezione del Presidente della Commissione europea;

– sostenere con tutti i mezzi necessari, diplomatici e militari, l’Ucraina; rimanere con coerenza nell’Alleanza Atlantica promuovendo al tempo stesso la capacità di difesa autonoma dell’UE.

   Il Movimento Federalista Europeo ricorda a tutte le forze politiche e ai candidati questi impegni precisi, senza i quali qualsiasi promessa elettorale sarà priva di ogni fondamento, e intende portare questi temi nel confronto della campagna elettorale.

   Il destino dell’Italia è in un’Europa federale, sovrana e democratica. Chi si candida a governare lo dichiari apertamente e dimostri con i fatti e le proposte di impegnarsi in tal senso.

…………..

Il/La sottoscritto/a [Nome e Cognome] _________________________________________________________

Candidato per il Partito _________________________________________________________

Firmo/a l’Appello del Movimento Federalista Europeo Il destino inscindibile dell’Italia e dell’Europa

____________________________________

Luogo_______________________ Data________________________

 

(per firmare online: https://sway.office.com/GHA1MqbSwhrOvHV2?ref=Link&loc=mysways)