2004 – 2024: Vent’anni fa il grande allargamento dell’Unione Europea. Bilanci (di DAVID CARRETTA, da “IL FOGLIO quotidiano”, 1/5/2024)

– Il primo maggio l’Unione europea ha festeggiato il ventennale del grande allargamento del 2004, dove aderirono dieci paesi. Celebrazioni un po’ sottotono, nonostante i numerosi successi del progetto europeo in questi ultimi vent’anni. Una rassegna –

BRUXELLES. Il primo maggio, l’Unione Europea ha festeggiato il ventennale del grande allargamento del 2004. La guerra della Russia in Ucraina, la crescita dell’estrema destra prima delle elezioni europee, la deriva illiberale di Ungheria e Slovacchia hanno reso la festa molto sottotono. Il Parlamento europeo ha tenuto una cerimonia il 24 aprile, infilata nell’ultima sessione prima della fine della legislatura in mezzo a centinaia di voti, con un discorso poco ispirato della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

   La presidenza belga dell’Ue lunedì ha invitato i ministri per gli Affari europei a una cerimonia celebrativa. Il 30 aprile c’è stata una discussione tra loro sulle elezioni apprese dall’allargamento del 2004, mentre von der Leyen ha pronunciato un discorso a Praga. A Bruxelles la Commissione ha organizzato una “flashmob”: una manifestazione improvvisata per ricordare questo anniversario. È il sintomo di un pericolo. Che il successo del grande allargamento a dieci stati membri del 2004, quello che è servito a riunificare l’Europa dopo la separazione della Cortina di ferro, faccia soprattutto paura. Guardando al futuro e al prossimo grande allargamento è come se l’Ue avesse paura della sua più grande forza.

   Se c’è una politica che ha dimostrato tutto il suo successo, sia politicamente sia economicamente, è l’adesione dei dieci paesi che un tempo venivano chiamati con un certo disprezzo “la Nuova Europa”. Il successo economico è evidente guardando ai dati. Venti anni fa, il grande interrogativo era quanto sarebbe costato far uscire una serie di paesi impoveriti da decenni di comunismo, quanti “idraulici polacchi” avrebbero rubato posti di lavoro in Francia, quanto ci avrebbero rimesso Spagna o Italia di fondi coesione.

   Invece, l’Ue ha trasformato i paesi Baltici nelle tigri europei. L’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica ceca sono diventate delle mini potenze industriali del mercato unico. La Polonia è diventata terra di opportunità. Anche “l’Ue dei quindici” ha potuto beneficiare di un enorme impulso interno. Le esportazioni spagnole verso i dieci sono raddoppiate. Gli scambi commerciali dell’Italia di beni con questi paesi è aumentato del 77 per cento. “Molti dubitavano della capacità dell’Ue di integrare popolazioni ed economie di più di 100 milioni di persone”, ha ricordato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Invece, il risultato è stato “spettacolare”, ha detto Michel.
   Secondo la Commissione, il Pil medio pro capite dei dieci paesi che hanno aderito nel 2004 è cresciuto dal 59 per cento della media dell’Ue all’81 per cento. L’Estonia ha registrato un tasso di crescita medio annuo del reddito nazionale lordo superiore all’8 per cento. Polonia, Slovacchia, Malta e Lettonia sono cresciute in media di oltre il 7 per cento. I salari reali sono raddoppiati tra il 2004 e il 2023. I livelli di povertà ed esclusione sociale sono diminuiti dal 37 per cento nel 2005 al 17 per cento nel 2020. Il numero di bambini a rischio di povertà è diminuito dal 41 per cento al 17 per cento. La percentuale di persone di età compresa tra 25 e 34 anni con un’istruzione terziaria è aumentata di quasi 20 punti percentuali. La “Nuova Europa” è agile, innovativa, intraprendente, giovane e brillante. Sicuramente più di una “Vecchia Europa” che appare sempre più appesantita da élite e popolazioni sempre più avverse al rischio.

   Sul piano politico il bilancio può apparire meno positivo. L’Ungheria si è trasformata in un regime democratico illiberale dopo 14 anni di governo di Viktor Orban. Gli otto anni di governo del Partito Legge e Giustizia (PiS) in Polonia hanno eroso le fondamenta dello stato di diritto a un livello tale che il primo ministro, Donald Tusk, sta faticando a tornare a una democrazia liberale piena. La Slovacchia è ricaduta nelle mani di Robert Fico che, appena riconquistato il potere, sta smantellando la legislazione anti corruzione. L’argomento alla moda è che il grande allargamento del 2004 fosse stato precipitato per ragioni politiche e che le democrazie dei dieci nuovi entranti non fossero sufficientemente consolidate per gli standard dell’Ue. Oggi dunque se ne pagherebbe il prezzo.
La realtà è più complessa. La Polonia dimostra che le forze delle democrazie liberali possono riconquistare il potere, anche quando un regime illiberale ha preso il controllo delle redini dello stato per quasi un decennio. In Repubblica ceca Andrej Babiš non è diventato un Orban. Nei Baltici le forze politiche filo russe non sono riuscite a destabilizzare il corso occidentale dei loro governi pro europeo e filo atlantisti. La democrazia e lo stato di diritto, inoltre, sono sempre più fragili anche nella “Vecchia Europa”, sottoposti a costanti attacchi da parte di avversari interni ed esterni.
In realtà, il grande allargamento e l’Ue hanno permesso il consolidamento accelerato delle democrazie degli entranti. Basta guardare all’evoluzione dei paesi vicini, quelli rimasti fuori per scelta dell’Ue o per imperialismo della Russia, per averne la controprova. Le riforme nei paesi Balcani si sono arrestate quando l’Ue ha smesso di fare sul serio sulla loro adesione. Recep Tayyip Erdogan ha imboccato la strada della Turchia neo ottomana e illiberale quando ha capito che le porte dell’Ue di fatto erano chiuse. In Ucraina, Georgia e Moldavia, i leader pro russi, gli oligarchi e la corruzione hanno rialzato la testa ogni volta che l’Ue ha guardato più o meno consapevolmente altrove. La Bielorussia è una dittatura poverissima, oltre che un vassallo di Mosca.

L’allargamento è stata la vera arma del “soft power” dell’Ue. E lo è ancora. L’Ucraina resiste all’aggressione di Vladimir Putin grazie anche alla prospettiva di entrare nell’Ue. In Georgia i cittadini si ribellano al governo filo russo che approva una “legge russa” con le bandiere europee. La Moldavia vede nell’Ue la garanzia per liberarsi della minaccia russa. Nei Balcani occidentali, tra mille contraddizioni, la marcia verso l’Ue di Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del nord, Montenegro e Serbia (in attesa del Kosovo) è ripartita e con essa alcune (troppo poche) riforme. Durante una conferenza a Bruxelles, la presidente della Moldavia, Maia Sandu, ha chiesto all’Ue di adottare “un bilancio per la pace, cioè un bilancio che faciliti l’allargamento dell’Unione”.
Il primo maggio 2004 non è stata “solo la nascita di un’Unione più ampia. È stata la nascita di una nuova era”, ha ricordato von der Leyen davanti al Parlamento europeo. “Era stata una notte di promesse, perché l’Europa è una promessa: la promessa che tutti gli europei possono essere padroni del proprio destino. La promessa di libertà e stabilità, pace e prosperità”, ha aggiunto la presidente della Commissione. Von der Leyen ha ragione. Come ha ragione quando dice che “oggi il desiderio di unire l’Europa e completare la nostra Unione è più importante che mai”. Ma il desiderio è più forte oltre la linea di confine che divide l’Ue dai nuovi aspiranti entranti.
Da questo lato del confine si sentono già le voci di chi dice che l’Ue non sarà mai pronta ad accogliere altri otto nuovi membri e comunque non l’Ucraina perché è troppo grande. Ci sono già proteste per l’ingresso di prodotti agricoli ucraini e si fanno già i calcoli di quanto perderebbe l’Italia o l’Ungheria di fondi di coesione. La stessa von der Leyen ha scelto di fare del prossimo grande allargamento un processo burocratico. Nel giargone europeo si dice “processo basato sul merito”: un’infinita lista di riforme che devono essere realizzate una a una, verificate da un burocrate a Bruxelles e certificate all’unanimità da tutti gli stati membri. Von der Leyen rifiuta anche una nuova data “big bang”. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, invece, ha proposto il 2030. “L’allargamento è una pietra angolare della nostra strategia di sovranità”, ha detto Michel.
Il rischio è ricadere nell’apatia burocratica. Peggio ancora: il pericolo è usare l’apatia burocratica per nascondere la paura del proprio successo. Le conseguenze non sarebbero diverse da quelle che Michel ha evocato se l’Ue non avesse fatto la scelta strategica dell’allargamento venti anni fa. “Provate a immaginare per un momento come un’Ue più piccola e debole, con soli 15 stati membri, avrebbe fatto fronte alla guerra della Russia contro l’Ucraina? Una nuova Cortina di ferro nell’Est sarebbe emersa. La Russia avrebbe occupato in modo permanente questi paesi, sia ideologicamente sia politicamente. L’Est sarebbe caduto vittima del dominio e della soppressione della Russia”, ha detto Michel. “È agghiacciante da immaginare”(DAVID CARRETTA, da IL FOGLIO quotidiano, 1/5/2024)

Fiamma bianca, verde, rossa: un po’ di storia non fa mai male (di MARIO FADDA)

   Un po’ di storia non fa mai male: provo a iniziare una riconsiderazione di quanto avvenuto in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi, perché mi pare che la situazione attuale nel nostro Paese (ma non solo!) richieda di rivedere alcuni dati storici, che sono finiti nel dimenticatoio e altri che, per la verità, non sono neppure mai emersi alla luce.

   Parto da un ricordo personale, che so però di poter condividere con molti della mia generazione: in data 8 dicembre del 1946 ricevetti, con la benedizione del giorno dedicato alla Vergine Immacolata – essendo iscritto da tre mesi alla 1^ elementare della Scuola De Amicis di Alessandria – la mia prima tessera di Azione Cattolica: ero stato incluso, come Fiamma Bianca, nella lista della mia Parrocchia.

   Due anni dopo, frequentando la 3^ Elementare, fui tesserato come Fiamma Verde e poi ancora, dopo altri due anni, divenni Fiamma Rossa.  Ho ancora quelle tesserine, conservate con gioia, come accettazione di una mia presenza che veniva riconosciuta come valore.

   Il primo sospetto che ci fosse una strana coincidenza, sopraggiunse quando un compagno di classe della 2^ superiore (erano trascorsi 5 o 6 anni e ormai in Azione Cattolica ero Junior, dopo essere stato Pre-ju) mi fece notare il distintivo che lui mostrava sulla giacca, con una fiamma tricolore come simbolo: solo allora seppi del Movimento Sociale Italiano-MSI, che già esisteva da qualche anno, pur con una vita non molto esibita.

   Da queste “coincidenze” si snoda un percorso che, visto con gli occhi di oggi, induce a riconsiderare tutto l’itinerario che ne seguì, fino all’attualità.

   Molti anni dopo, infatti, quando i due “anziani” Ernesto e Italo mi ebbero spiegato quanto era accaduto in Italia, successivamente all’epoca di De Gasperi, Nenni e Togliatti e dopo il fallito tentativo di Giuseppe Dossetti di costruire un’alternativa nell’incontro con Felice Balbo (esponente di quella parte cattolica che aveva vissuto la Resistenza con alleanze di sinistra estrema e cioè quando i colloqui svolti a Rossena si conclusero senza intese) ebbi percezione di quanto provo a esporre.

   La presenza di una destra irriducibile è ben presente già da allora ed è attrice di vari tentativi di reinserimento nei percorsi di governo della Repubblica.

   Il periodo tra i due eventi elettorali del 1953 e 1958 è caratterizzato da un continuo susseguirsi di crisi di governo, che non mutano neppure dopo le elezioni, avvenute nel ’58, appunto e che inducono persino (siamo ormai ai primi anni ’60) a un tentativo di composizione, affidato al democristiano Fernando Tambroni, che accetta di essere sostenuto dai voti del MSI.

   Le reazioni popolari a tale esperienza del governo, sono durissime e obbligano ad un cambiamento di rotta.

   Da lì comincia un lungo periodo di nuovi tentativi di costituire solidi schemi, comportando la necessità che il PSI rompesse la sua alleanza di opposizione, con il PCI ed avviasse un accordo con la DC per la lunga stagione dei governi di “centrosinistra”.

   Sicché ne derivano altri venti anni e più, di saliscendi dal treno governativo e poi il nubifragio, con la morte – nel giro di pochi anni – di Moro (1978) e Berlinguer (1984) e la deflagrazione del terrorismo, ormai in atto fin dal tempo dello “autunno caldo”.

   In tutto questo periodo le forze di destra tacciono, ma il sospetto è che quella fase comprenda ben altro, caratterizzata e forse distratta, infatti, anche da violente vicende che investono grandi imprese (molti ricorderanno – cito solo questa, forse la più nota – la vicenda della Società Generale Immobiliare, potente soggetto, originato nel Vaticano di Pio IX, per evolvere poi, in mani sempre meno pulite, arricchendosi tra grattacieli a New York e porti turistici nel Mediterraneo); oppure si snodano su percorsi spesso intrecciati con le vicende del terrorismo, attribuito superficialmente “all’estrema sinistra”, ma che vedono coesistere attori come Licio Gelli e gli associati alla Loggia P2: lì si incontrano personaggi “di tutti i colori”, con intrecci che consentono di andare ben oltre lo speculare solo sulle personalità più in vista, come quelle dei “terroristi”, attribuendo solo a loro la responsabilità di quanto stava accadendo.

   L’epoca di Berlusconi segna, a quel punto, una sorta di calmiere per la destra, in buona parte coinvolta e in altre parti accontentata nel far parte del nuovo andazzo.

   Ma gli anni recentissimi, contrassegnati da una progressiva drammatica perdita di credibilità di una sinistra sfasciata, hanno riaperto la strada del potere, per una forza politica, comunque forte di un sostegno popolare, che però non è mai andato oltre un italiano su quattro o cinque e che oggi gode di un primato parlamentare determinato dal forte assenteismo elettorale di massa della società italiana.

   Quanto avviene in questo settore della nostra società denota una forte difficoltà ad affrontare le radici del problema.

   Si continuano a proporre nuovi percorsi di partito, a partire talvolta dai ruderi delle fortezze del dopoguerra, oppure con nuove aggregazioni, che tuttavia cercano di decollare dall’iniziale proporsi come alternativa di partito, senza affrontare il problema che deriva dalla mancanza di basi, nella società, per cui ne scaturisce l’attuale insufficiente adesione di massa.

   Voglio dire che io ricordo molto bene – pur avendolo vissuto in età molto giovane – del clima in cui in Azione Cattolica si discuteva “delle prossime elezioni”.

   Naturalmente, faceva molta differenza capitare in una sede non solo attiva nel “condurre a Messa la domenica”, ma vivacemente presente in attività culturali, teatrali, sportive.

   Il mio carissimo compagno di banco, figlio di un ferroviere miracolosamente scampato a Mauthausen, mi raccontava che altrettanto avveniva nei circoli del PCI. Nella mia parrocchia, poi, esisteva un antico Circolo della Società Operaia (la struttura cattolica nata a Genova negli ultimi decenti dell’Ottocento, per fare equilibrio con la costituzione del Partito Socialista Italiano, anche quella avvenuta a Genova): insomma tanti erano i luoghi dove si discuteva di politica e si formavano opinioni personali, poi condivisibili.

   Tutto ciò manca da qualche decennio.

   Il neonato, che dal manifesto ci incitava “foccia itaia!”, ha avviato la diffusione di un modo di assumere l’informazione politica come prodotto pubblicitario e televisivo, sostenendo un progressivo allontanamento dell’opinione pubblica da partiti e organizzazioni sempre più impegolate nella divisione di spazi elettorali, gestiti “a maggioranza”, con esclusione di minoranze fastidiose, operanti all’interno dei partiti stessi e peraltro squalificate dal lungo periodo dell’essere state il terreno fertile delle tagliole con cui fermare chi aveva in mano il timone del proprio partito.

   Tagliole che spesso assunsero il carattere di partitini, che indebolivano i fratelli maggiori, ma che però raccoglievano adesioni modeste.

  Da queste premesse scaturì l’adozione della legge che permise l’esistenza dei soli partiti maggiori, ma in una condizione di un progressivo allontanamento di massa.

   Il tutto, accompagnato da un declino, sempre più avvilente, di ambiti culturali e strumenti di informazione, ai quali da qualche anno va riconosciuta una speranza di rivitalizzazione, con siti e percorsi, però, rari, lunghi e durissimi.

   Soprattutto incapaci di fare un salto nello stabilire indispensabili relazioni sovranazionali, capaci di inserirsi nei processi, cosiddetti, di “mondializzazione”.

   Insomma, la battaglia – giusta, ma con poca attenzione retrospettiva – di chi oggi chiede di poter accedere al Parlamento non solo con un solido consenso di gruppo, quindi eliminando le soglie/scalino elettorali, dovrebbe essere preceduta, almeno accompagnata da una vigorosa azione di informazione ed elaborazione culturale, da avviare in sedi molto diffuse.

   Certo, non ci sono più i mille circoli di Azione Cattolica (neppur le sedi dell’equivalente rosso “fronte della gioventù”) e gli Scout cattolici conservano la loro tradizionale “disattenzione” (quante discussioni in proposito con il carissimo Andrea Canevaro, che peraltro sapeva ben criticare l’alveo da cui lui stesso era emerso).

   Allora cosa sta progettando questa Sinistra, oltre le dichiarazioni congressuali di sollecito, che ogni tanto aleggiano, assumendo il colore dell’autogiustificazione, più che dell’apertura di nuove prospettive?

   Come operare nella scuola, perché il corpo insegnati superi la fase attuale di diffuso disinteresse e si riproponga come ambito dove “ricerca” si pone come generatrice di “formazione” e, solo a quel punto, di “istruzione”?  Perché la cultura – che non è solo imparare un mestiere – è sempre stato il miglior sostegno al non ricadere nell’accettazione supina del prepotente.

   Come operare nei servizi pubblici, perché il concetto stesso di “servizio” esibisca chiaramente il senso del proprio nome: servire a chi e per che cosa, non come servile disponibilità verso il migliore offerente, a partire dall’amico che ti ci scava un posto di lavoro e poi si aspetta un regalino, magari un voto alle prossime!

   Forse, in questo momento, in Italia, la migliore espressione di “servizio”, assunto come responsabilità, viene dalle varie componenti militari – escluso naturalmente chi vede una felice carriera, giunta al grado più alto, diventare trampolino per un ulteriore esibizione di “valore” in ambito elettorale – anche se personalmente mi auguro che il percorso avviato con la dolorosa fase “dell’obiezione” evolva nel superamento della necessità di usare le armi.

   Ma qui il problema si fa gigantesco, per l’intreccio con il mondo del denaro, che troppo lucra dalla produzione bellica: per parlarne dobbiamo guardare al futuro, pensarlo, per poi poterlo progettare e realizzare: pacifico, superando il tradizionale approccio competitivo, verso una compresenza alimentata da una visione paziente, cioè in grado di accettare i lunghi tempi richiesti dalla maturazione individuale.

   Tutto ciò mi coinvolge profondamente, perché ne vedo lo spazio entro cui pensare quanto ancora non c’è.       E’ il futuro che la cultura tradizionale dell’homo sapiens chiama “utopia”.

   A me pare, invece, l’ambito entro cui pensare il percorso verso cui è orientato il primo homo patiens, che vede e intraprende i nuovi itinerari dell’umanità: proviamo a seguirlo, nel percorso che conduce all’homo amans. (MARIO FADDA)

GIORNATA DELLA TERRA (e le politiche “green” dell’Europa): tre articoli che cercano di fare il punto (di GIORGIO SARTORI)

Invio tre articoli. 

I primi due riguardano la “Giornata della Terra” con due autrici che affrontano la tematica con punti di vista differenti, ma per certi aspetti “complementari”.

Il terzo articolo, in vista anche delle prossime elezioni europee, fa un po’ un bilancio delle politiche “green” messe in atto concretamente dall’Europa, in particolare dalla Commissione europea. Sembra che prevalga una valutazione più negativa rispetto ai propositi iniziali di cinque anni fa. E questo fa comprendere ancora di più l’importanza del prossimo voto europeo per favorire o meno politiche (e risorse economiche) rivolte alla qualità dell’ambiente e della salute delle Persone, oppure all’incremento delle spese militari.

(GIORGIO SARTORI)

“GIORNATA DELLA TERRA”: C’È POCO DA FESTEGGIARE

di GRAZIA PAGNOTTA, 21/4/2024, da “Il Fatto Quotidiano”

   La Giornata della Terra (22 aprile) si celebra dopo la prima concepita e realizzata negli Usa nel 1970. Nell’ultimo decennio con l’aggravarsi delle condizioni del pianeta, l’allargarsi dell’impegno giovanile su questo tema e un’opinione pubblica più attenta, si è cominciato a celebrarla più ampiamente.

   Ogni anno è l’occasione per misurare quanto si è costruito sul grande tema ambiente, e ogni anno il bilancio è negativo. E anche in questa 54esima edizione si registrano soltanto qualche buona notizia e moltissime pessime, talmente tante che non entrano in un articolo giornalistico.

   Di positivo c’è la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo che pochi giorni fa ha dato ragione all’associazione di donne svizzere “Anziane per il clima” che vi aveva fatto ricorso accusando il proprio Paese di inadempienza nell’affrontare la crisi climatica; è un fatto importante perché dopo altre cause respinte è la prima volta che la Corte si esprime a favore degli attivisti, e soprattutto perché gli Stati europei non potranno non tenerne conto nel definire i propri tempi di intervento in materia e valutare i propri ritardi.

   Di positivo c’è anche la caparbietà crescente dei giovani militanti per il clima raggruppati in diverse organizzazioni, che sono stati capaci di trovare forme per far risuonare le loro preoccupazioni, nonostante la frequente aggressività delle forze dell’ordine denunciata anche dall’Onu.

   Ma veniamo al negativo, scegliendo di focalizzare l’analisi sull’operato delle istituzioni europee e sull’European green deal. Più d’uno sono stati i provvedimenti con cui le politiche ambientali nel corso dell’iter sono state stemperate e diluite: circa gli imballaggi, il regolamento è stato alleggerito da numerosi emendamenti del centrodestra; circa gli standard di sostenibilità aziendale delle imprese che operano in Europa, compresa la catena di fornitura extra- europea, si è rimandato; sulle emissioni del trasporto stradale, è stato definito di mantenere le condizioni attuali dell’Euro 6; sull’efficienza energetica degli edifici residenziali, meglio conosciuta come Case green, il provvedimento durante l’iter è divenuto meno incisivo rispetto al testo iniziale.

   E poi ci sono gli alleggerimenti e le cancellazioni relativi al settore agroalimentare, importantissimo per l’ambiente, in parte avviati prima della mobilitazione contadina. Circa l’aggiornamento della direttiva sulle emissioni industriali che considera come tali anche i grandi impianti zootecnici, nell’accordo finale dell’autunno scorso sono stati stralciati gli allevamenti intensivi di bovini; sui pesticidi si puntava a dimezzarne l’uso entro il 2030 sostituendoli con altri metodi, ma si è preferito ascoltare gli agricoltori; sui gas serra agricoli a fine gennaio era circolata una bozza che prevedeva l’abbassamento del 30% entro il 2040, poi questa riduzione è scomparsa; per quanto riguarda gli obiettivi climatici dell’Unione europea, essi prevedono un taglio del 90% delle emissioni entro il 2040 rispetto al 1990, ma non è più stato compreso il 30% per l’agricoltura che era indicato nella bozza iniziale; anche l’importante legge sul ripristino della natura ha subito lo stralcio della parte riguardante l’agricoltura che proponeva di aumentare dall’attuale 4% al 10% entro il 2030 la superficie di terreno agricolo da non coltivare.

   Insomma, ci si chiede cosa ne è alla data di oggi dell’European green deal che nel 2019 quando fu proposto da von der Leyen si presentava come un vasto programma che metteva d’accordo le differenti componenti politiche e che avrebbe dovuto intervenire in moltissimi ambiti, e per questo di natura epocale. Allora sembrò che sul tema ambiente l’Europa volesse costruire la sua immagine futura e dare un esempio al resto del mondo, ma oggi tale scenario alla vigilia delle elezioni appare molto ridotto.

   E di fronte alla transizione ecologica che non si sta compiendo, ci chiediamo se dobbiamo concludere di considerare il richiamo alle generazioni future soltanto una retorica. Il significato di tale parabola discendente dell’Europa e insieme la sua ragione è nell’ancora forte radicamento del sistema di sviluppo che è stato vincente finora, con tutti i suoi protagonisti; un sistema basato sul fossile e sulla produzione di merci all’unico scopo dell’accumulo di profitto, senza alcun interesse per i limiti biologici e fisici del pianeta.

   Il suo superamento comporterebbe il trasferimento in grande misura di sovranità alle popolazioni; l’esempio più calzante in proposito è ciò che rappresentano le comunità energetiche basate sulle fonti rinnovabili rispetto alla lobby del fossile, di cui si è vista la forza alla Cop28.

   Per tutti i protagonisti di tale sistema la transizione ecologica è un pericolo.

(Grazia Pagnotta)

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GIORNATA DELLA TERRA: OLTRE LA CRISI CLIMATICA, CHIEDIAMOCI CHI ABITERÀ IL PIANETA

di ELISABETTA AMBROSI, 22/4/2024, da “Il Fatto Quotidiano”

   Si possono fare tante riflessioni sulla Giornata della Terra. Moltissimo è stato già detto, essendo la giornata in cui si parla appunto soprattutto della crisi climatica e dei suoi effetti sul pianeta. Forse varrebbe la pena fare una riflessione non tanto sulla terra in sé, ma su chi la abita e soprattutto chi la abiterà nei prossimi decenni.

   L’Europa e i paesi occidentali, ma anche la Cina, stanno attraversando un periodo di contrazione demografica. Moltissimo si parla in Italia dei giovani uomini e donne che decidono di non avere figli. Tra i motivi principali la precarietà e i bassi salari, ovviamente, l’assenza di un welfare degno di questo nome, la sicurezza di avere pensioni da fame, ma anche la mancanza letterale di certezza rispetto all’abitabilità del pianeta nei prossimi anni.

   “Non so se mio figlio avrà acqua potabile da bere”, ha detto una ragazza intervistata qualche giorno fa da Repubblica. E’ un ragionamento corretto, lineare, logico, comprensibile, umano. Ovviamente, la crisi demografica è una sciagura dal punto di vista strutturale ed economico per i paesi che ne soffrono, perché salteranno meccanismi automatici e fondamentali come il pagamento delle pensioni, ma anche lo svolgimento di lavori necessari perché la società stessa vada avanti.

   Si tratta di punti di vista in contrasto: l’uno pone l’accento sulla qualità di vita e la possibilità stessa di una vita, l’altro sulla continuità socioeconomica. In realtà, se si guardassero i flussi demografici a livello globale, senza i paraocchi ideologici che sconfinano spesso nel quasi razzismo di alcune scelte e dichiarazioni di questo governo verso chi “italiano” non è, la questione demografica si potrebbe con fatica risolvere attraverso una redistribuzione degli abitanti da parte dei paesi, e dei continenti, che sono più popolosi e che, secondo le proiezioni demografiche, lo saranno ancora per alcuni decenni, salvo raggiungere poi anche loro il picco e cominciare a decrescere: parlo ovviamente soprattutto dell’Africa.

   Per fare questo, cioè per integrare, ci vogliono ovviamente politici competenti, lungimiranti, aperti, laici, che vedano nelle migrazioni verso il nostro paese un’opportunità (come d’altronde chiedono le stesse imprese). Per far questo servono soldi, soldi appunto per integrare, per formare le persone che arrivano, insegnargli la nostra lingua, come in altri paesi fanno egregiamente. Da noi, invece, spesso finiscono in mezzo a una strada, abbandonati e senza alcun aiuto, alimentando la spirale di razzismo e di malcontento.

   Ma tornando al rapporto tra risorse e demografia: è evidente che il nostro pianeta sarà sempre meno abitabile e più ostile. Che le terre capaci di accogliere persone e farle vivere degnamente saranno sempre di meno. Le conseguenza saranno appunto le migrazioni climatiche, i nuovi conflitti legati al clima. Questo produrrà una ulteriore contrazione demografica, che andrà aumentando mano a mano che le terre inabitabili aumenteranno.

   La contrazione demografica sarà l’unico modo per salvarsi. Se dunque le emissioni non scenderanno, se il clima continuerà a peggiorare, quello che saremo costretti a fare a breve termine è integrare le persone che fuggono da paesi e continenti più popolosi. E poi, in seconda battuta, attrezzarci – come è tutto da vedere – per una necessaria diminuzione demografica, l’unica in grado di salvarci da conflitti sanguinosi.

   A fine secolo io vedo una terra così: abitata da sempre meno persone, con enormi zone abbandonate, e con persone di vari paesi e culture e religioni spinte a convivere da migrazioni di ogni tipo, che non saranno per forza dal sud al nord del mondo, perché gli andamenti climatici sono del tutto incerti (i migranti potremmo essere anche noi).

   L’ipotesi alternativa, appunto, è quella di una radicale conversione verso la sostenibilità, una decrescita felice e veloce, una drastica eliminazione delle fonti fossili: scelte che potrebbero forse consentirci un futuro diverso, meno tragico e più inclusivo per tutti. In questo caso forse a fine secolo lo scenario potrebbe essere diverso.

   Ma, purtroppo, non è assolutamente la direzione verso cui stiamo andando. Questa giornata (della Terra) è, ancora una volta, un’occasione per ripeterlo.

(Elisabetta Ambrosi)

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MA QUALE GREEN, L’UE PENSA SOLO ALL’INDUSTRIA DELLA GUERRA

di AMÉLIE POINSSOT (inchiesta Mediapart ), 22/4/2024, da “Il Fatto Quotidiano”  

– LA TRANSIZIONE DELLE ARMI – Il Green Deal lanciato dall’attuale Commissione e affossato dalla stessa con la scusa delle necessità di indipendenza energetica dalla Russia e di investire in munizioni, missili e caccia –

   Il Green Deal è stato lanciato alla fine del 2019 da Continua a leggere “GIORNATA DELLA TERRA (e le politiche “green” dell’Europa): tre articoli che cercano di fare il punto (di GIORGIO SARTORI)”

DRAGHI: ALL’EUROPA SERVE UN CAMBIO RADICALE  

Questo è il testo dell’intervento tenuto martedì 16 aprile (2024) da Mario Draghi a Bruxelles, alla “Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali”; è una parte del report (commissionatole da Ursula von der Leyen come “via del futuro” europeo, che sarà completato entro fine giugno) sulla competitività dell’economia europea.

   Buongiorno a tutti. In un certo senso questa è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi come si stanno delineando la struttura e la filosofia di quello che sarà il mio rapporto.

   Per molto tempo la competitività è stata una questione controversa per l’Europa. Nel 1994, il futuro economista premio Nobel Paul Krugman definì l’attenzione alla competitività una “pericolosa ossessione”. La sua tesi era che la crescita a lungo termine deriva dall’aumento della produttività, che avvantaggia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la propria posizione relativa rispetto agli altri e acquisire la loro quota di crescita. L’approccio adottato nei confronti della competitività in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrava dimostrare la sua tesi. Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale.

   Ma la questione fondamentale non è che la competitività sia un concetto errato. Il fatto è che l’Europa ha avuto un focus sbagliato. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale positiva, dopo tutto, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività all’estero come una seria questione politica. In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa.

   Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro. La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori e minacciando di indebolire le nostre industrie.

   Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini – compresa quella delle aziende europee –mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento. Non abbiamo mai avuto un “accordo industriale” equivalente a livello UE, anche se la Commissione ha fatto tutto ciò che era in suo potere per colmare questa lacuna.

   Pertanto, nonostante una serie di iniziative positive in corso, manca ancora una strategia generale su come rispondere in molteplici aree. Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina, anche per la difesa, e abbiamo solo quattro attori tecnologici europei globali tra i primi 50 a livello mondiale. Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali.

   Un esempio calzante è rappresentato dalle industrie ad alta intensità energetica. In altre regioni, queste industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere. Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’UE.

   E ci manca una strategia per garantire di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze. Abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa in Europa e obiettivi ambiziosi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica.

   La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: preCovid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze.

   Ma abbiamo bisogno di un’UE adatta al mondo di oggi e di domani. (…) Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deeptech e nel digitale.

   Ma poiché i nostri concorrenti si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Nella mia relazione ci concentriamo su dieci di questi macrosettori dell’economia europea. Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici. Tuttavia, nella nostra analisi emergono tre filoni comuni per gli interventi politici.

   Il primo filo conduttore è consentire la scalabilità. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere economie di dimensioni continentali per generare scala, aumentare gli investimenti e conquistare quote di mercato per i settori in cui conta di più. In Europa abbiamo lo stesso vantaggio in termini di dimensioni naturali, ma la frammentazione ci frena. Nel settore della difesa, ad esempio, la mancanza di scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea, un problema riconosciuto nella recente Strategia europea per l’industria della difesa. I primi cinque operatori negli Stati Uniti rappresentano l’80 per cento del suo mercato più ampio, mentre in Europa ne costituiscono il 45 per cento.

   Questa differenza deriva in gran parte dal fatto che la spesa per la difesa dell’UE è frammentata. I governi non appaltano molto insieme – gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20 per cento della spesa – e non si concentrano abbastanza sul nostro mercato: quasi l’80 per cento degli appalti negli ultimi due anni proviene da paesi extra UE. Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare gli appalti congiunti, aumentare il coordinamento della nostra spesa e l’interoperabilità delle nostre attrezzature e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali.

   Un altro esempio in cui non stiamo sfruttando la scala è quello delle telecomunicazioni. Abbiamo un mercato di circa 450 milioni di consumatori nell’UE, ma gli investimenti pro capite sono la metà di quelli degli Stati Uniti e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e della fibra. Uno dei motivi di questo divario è che in Europa abbiamo 34 gruppi di reti mobili – e questa è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più – che spesso operano su scala nazionale, contro tre negli Stati Uniti e quattro in Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente le normative sulle telecomunicazioni tra gli Stati membri e sostenere, non ostacolare, il consolidamento.

   E le dimensioni sono cruciali, in modo diverso, anche per le giovani aziende che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le proprie idee, il che a sua volta richiede un ampio mercato interno. E la scala è essenziale anche per lo sviluppo di farmaci nuovi e innovativi, attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’UE e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta questa ricchezza di dati di cui disponiamo, se solo potessero essere standardizzati.

   In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e a migliorarlo. Potremmo affrontare questo ostacolo, tra le altre cose, rivedendo l’attuale regolamentazione prudenziale sui prestiti bancari e istituendo un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.

   Il secondo filone riguarda la fornitura di beni pubblici. Laddove ci sono investimenti da cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può portare a termine da solo, abbiamo validi motivi per agire insieme, altrimenti non forniremo risultati adeguati rispetto alle nostre esigenze: non forniremo risultati soddisfacenti in termini di clima, ad esempio nella difesa, e anche in altri settori.

   Nell’economia europea esistono diversi punti di strozzatura in cui la mancanza di coordinamento fa sì che gli investimenti siano inefficienti. Le reti energetiche, e in particolare le interconnessioni, ne sono un esempio. Si tratta di un chiaro bene pubblico, poiché un mercato energetico integrato ridurrebbe i costi energetici per le nostre aziende e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future – un obiettivo che la Commissione sta perseguendo nel contesto di REPowerEU. Ma le interconnessioni richiedono decisioni sulla pianificazione, sul finanziamento, sull’approvvigionamento di materiali e sulla governance che sono difficili da coordinare – e quindi non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia se non raggiungiamo un approccio comune. (…)

   Il terzo filo conduttore è garantire la fornitura di risorse e input essenziali. Se vogliamo realizzare le nostre ambizioni climatiche senza aumentare la nostra dipendenza dai paesi su cui non possiamo più fare affidamento, abbiamo bisogno di una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento minerale fondamentale. Attualmente stiamo in gran parte lasciando questo spazio agli attori privati, mentre altri governi guidano direttamente o coordinano fortemente l’intera catena.

   Abbiamo bisogno di una politica economica estera che offra lo stesso risultato alla nostra economia. La Commissione ha già avviato questo processo con la legge sulle materie prime critiche, ma abbiamo bisogno di misure complementari per rendere i nostri obiettivi più tangibili. Ad esempio, potremmo prevedere una piattaforma europea dedicata ai minerali critici, principalmente per gli appalti congiunti, la sicurezza dell’approvvigionamento diversificato, la messa in comune, il finanziamento e lo stoccaggio. (…)

   I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. (MARIO DRAGHI, 16/4/2024)

Movimento Federalista Europeo: I RISCHI CHE MINACCIANO IL FUTURO EUROPEO E LE RESPONSABILITÀ DEI GOVERNI NAZIONALI

L’UNIONE EUROPEA DEI 27 e il possibile allargamento – Al momento (2024) ci sono nove paesi ufficialmente candidati all’adesione: Turchia (candidata dal 1999), Macedonia del Nord (candidata dal 2004), Montenegro (candidato dal 2010), Serbia (candidata dal 2012), Albania (candidata dal 2014), Ucraina, Moldavia e Bosnia ed Erzegovina (tutte e tre candidate dal 2022) e Georgia (candidata dal 2023). Il Kosovo, ultimo stato della penisola balcanica occidentale, ha firmato l’ “accordo di stabilizzazione e associazione” necessario prima che possa candidarsi per l’adesione ed è considerato “potenziale candidato” (mappa da Wikipedia)

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Comunicato del Movimento Federalista Europeo del 27/3/2024:

   L’Europa deve affrontare un profondo cambio di paradigma in questa fase. Anche il Consiglio europeo che si è tenuto il 21-22 marzo scorsi ha evidenziato la preoccupazione per il rischio di trovarci in tempi non troppo lontani sotto attacco della Russia. Analogamente è forte anche il pericolo segnalato da Mario Draghi di diventare completamente marginali sul piano economico e commerciale se non mettiamo in campo investimenti massicci per sostenere le transizioni green e digitale; e a questo si aggiunge la necessità urgente di garantire anche la sostenibilità sociale di queste transizioni.

   Affrontare questo passaggio epocale per le nostre società, per le nostre opinioni pubbliche, per la nostra democrazia richiede strumenti europei che l’Unione europea non ha. È un fatto evidente, che la stessa Commissione europea ha evidenziato con chiarezza nella sua comunicazione sulle riforme e la revisione delle politiche necessarie in vista dell’allargamento resa pubblica il 20 marzo, alla vigilia del Consiglio europeo.

   In questo quadro è particolarmente grave che il Consiglio europeo continui a rimandare la discussione sulla richiesta avanzata dal Parlamento europeo con il voto del 22 Novembre scorso di avviare una Convenzione per la riforma dei Trattati. Si tratta dell’unica proposta concreta in grado di sbloccare l’impasse in cui è attanagliata l’Unione europea, sia sul piano giuridico – perché le altre procedure semplificate contenute nei Trattati non possono essere utilizzate nei settori in cui è più necessaria una profonda riforma: la politica estera e di sicurezza e la difesa, il finanziamento dell’Unione, la nomina dei membri della Commissione europea, il rafforzamento dello Stato di diritto-; sia perché è l’unica procedura che permette una partecipazione democratica.

   La Convenzione, con la presenza del Parlamento europeo e dei rappresentanti delle istituzioni nazionali ed europee, è il solo quadro in cui può emergere la consapevolezza che l’Unione europea ha bisogno non di singole riforme, ma di una riforma globale che faccia emergere una nuova forma di governo a livello europeo, effettivamente dotata degli strumenti (competenze, risorse, poteri) per agire negli ambiti in cui gli Stati membri non hanno più la capacità di agire efficacemente.

   Anche il nostro Governo, pur dichiarando la necessità di costruire una difesa comune e di finanziarla con appositi eurobond, non coglie la dimensione della sfida. Lo dimostra il fatto che non ha voluto recepire, né discutere, la proposta avanzata dall’opposizione con una delle risoluzioni presentate in occasione del confronto parlamentare sulle comunicazioni in Aula della Presidente del Consiglio in vista della riunione del Consiglio europeo; questa risoluzione chiedeva, in uno dei punti che non sono stati recepiti dal Governo, proprio di favorire la riforma istituzionale dell’UE con l’avvio di una Convenzione, nel cui quadro la proposta degli eurobond – e di una riforma generale del bilancio, come pure evocato dalla Commissione europea – diventerebbe realistica e forte.

Pavia-Firenze, 27 marzo 2024

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NEL MONDO CHE BRUCIA L’EUROPA DEVE TORNARE BUSSOLA

di GIANFRANCO PASQUINO, dal quotidiano “Domani” del 27/3/2024

   Quello che è particolarmente preoccupante in questa fase della storia del mondo è che vediamo l’accumularsi di problemi molto diversi fra loro, prodotti da condizioni diverse in luoghi diversi per i quali molte parti indicano una pluralità di responsabili. Intravediamo qualche complicato emergere di soluzioni che rimangono conflittuali e non trovano l’approvazione delle parti in causa.

   Rincorriamo qualche novità, qualche volta esagerandola, che nel migliore dei casi apre spiragli che non lasciano intravedere una strategia abbozzata almeno nelle sue linee generali. Non si può e non si deve chiedere agli ucraini di alzare bandiera bianca, ma nessuno, tranne forse la Cina, è in grado di chiedere a Putin di porre fine al conflitto. La Cina è seduta lungo il corso di un fiume dove pensa, forse spera, magari progetta di vedere “passare” Taiwan, mentre la sua economia non cresce più, ma aumenta la repressione a Hong Kong.

   Appena riconsacrato, Putin che, come tutti gli autocrati, fonda il suo potere anche sulla promessa di ordine e sicurezza (più una rilanciata grandezza) vede la sua capitale ferita da un attacco terroristico con gravissime conseguenze. La sua ricerca di un capro espiatorio nell’Ucraina come mandante non sembra funzionare, ma probabilmente ha finora impedito che gli venga chiesto conto, da un circolo ristretto che mantiene un po’ di potere intorno a lui, dell’avere ignorato la tempestiva segnalazione dell’intelligence Usa di un attacco terroristico.

   La reazione israeliana all’aggressione di Hamas del 7 ottobre continua mirando a ripulire dalla presenza di terroristi i cunicoli di Gaza la cui lunghezza è stata stimata fra le 300 e le 500 miglia. Repressione e oppressione senza soluzione hanno conseguenze imprevedibili, ma non risolutive.

   L’aumento dell’antisemitismo è tanto inquietante quanto accertato, ma rimane deprecabile. Il presidente Biden, giustamente e comprensibilmente, teme che una parte non trascurabile dell’elettorato islamico Usa, finora orientato a favore dei Democratici, lo possa abbandonare decretandone la sconfitta in due/tre stati chiave in bilico e riportando alla Casa Bianca Donald Trump, certamente non un negoziatore né un pacificatore.

   L’astensione Usa sul voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu a favore del cessate il fuoco è un messaggio sia a quell’elettorato sia a Israele, ma il suo impatto non va oltre il breve termine se non sarà accompagnato da veri e propri negoziati per i quali nessuno finora ha indicato le modalità iniziali e una prospettiva plausibile.

   Israele sembra opporsi alla soluzione dei due stati, comunque difficilissima da tradurre in pratica senza la totale smilitarizzazione di Hamas. Nel variegato mondo dei paesi arabi peraltro non si vede grande entusiasmo per la formazione di uno stato palestinese.

   In questo panorama complesso caratterizzato da opzioni diverse 400 e più milioni di cittadini dell’Unione europea andranno a votare per l’istituzione democratica, l’Europarlamento che ne rappresenterà e esprimerà per cinque anni le preferenze, le aspettative, anche gli interessi.

   Senza compiacermi di nessuna critica moralista/buonista, ritengo che sia non soltanto logico, ma assolutamente opportuno che le grandi famiglie politiche europee, preso atto dello stato del mondo, dei due gravi conflitti ai suoi confini, della persistenza del terrorismo di matrice islamica, procedano a una diagnosi approfondita e suggeriscano soluzioni alle quali saranno gli europei stessi a contribuire. Sicurezza reciproca, ricostruzione materiale, ma anche di rapporti, visione di un futuro di autonomia ma anche di cooperazione: per tutto questo vale la pena di impegnarsi, sempre. Se non ora, quando?

(GIANFRANCO PASQUINO, dal quotidiano “Domani” del 27/3/2024)

LA LINGUA PER INFORMARE O PER IMBONIRE? (di GRAZIA BARONI)

Grazia Baroni, Torino 13/3/2024

Statuto delle Nazioni Unite

emanato a San Francisco il 26 giugno 1945:

Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti,(…..)

Capitolo V: Consiglio di sicurezza

Art. 23

Composizione (1) Il Consiglio di Sicurezza si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite di cui la Repubblica di Cina, la Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. (…..)

Art. 24 Funzioni e Poteri

  • Al fine di assicurare un’azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome. (……)

   Leggendo gli articoli di questi trattati emerge chiaramente che c’è un serio problema di conoscenza e di uso della lingua, sia a livello nazionale che internazionale. Urge una riflessione comune per ridare il significato proprio a tutte quelle parole che in questi anni, ne sono state private dal comportamento dei responsabili delle varie istituzioni di governo, nazionali e internazionali, e dalla loro mancata divulgazione all’intera popolazione attraverso la scuola.

   Com’è possibile che uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si permetta di invadere uno Stato sovrano? E oltretutto lo fa in nome delle nazioni firmatarie del trattato. Questo vuol dire che le parole che descrivono le finalità di questi patti sono solo simboli che non hanno più alcun significato, perché nel tempo si è data priorità ad altri valori, come quelli economici e commerciali, anziché mantenere la priorità dei diritti umani e dei valori democratici degli Stati.

   Non ci si è preoccupati di rinnovare i membri del consiglio di sicurezza alla caduta dell’URSS né di ricomporlo quando, all’interno degli Stati, non si rispettano i diritti umani come per esempio accade in Cina.

   Questa immobilità del Consiglio poteva essere tollerata durante la Guerra fredda per mantenere un equilibrio e non dare adito a un nuovo conflitto. Ma dal novembre dell’89, dopo la caduta del muro, questo immobilismo non è più giustificato; è stato questo comportamento che ha tolto il significato e il valore alle parole del Trattato Internazionale.

   Altrettanto grave è la passività del mondo culturale che non ha svolto il compito sociale e democratico di aprire un dibattito pubblico per chiarire e definire che cosa significhino le parole: democrazia, repubblica, politica, burocrazia e che funzione abbiano per lo stato italiano la Costituzione, i Partiti, e le elezioni. Non si è nemmeno ribellato alla cancellazione della disciplina dell’educazione civica dalla scuola media e superiore, come al solito per questioni economiche e per assecondare chi denigrava la scuola italiana come arretrata.

   Lo stesso mondo culturale non ha definito quali siano le prerogative irrinunciabili per uno Stato democratico affinché possa agire come tale, cioè la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo mancato dibattito mostra ora le sue conseguenze con le proposte di riforma costituzionale detta del premierato e dell’autonomia differenziata delle Regioni che vengono avanzate dall’attuale governo di destra e che mettono a rischio la nostra repubblica parlamentare, le istituzioni democratiche e l’Italia come stato unitario.

   È stato possibile presentare questa proposta di riforma perché c’è ignoranza sulle caratteristiche e prerogative delle nostre Istituzioni Statali. Molti ignorano cosa significhi “democrazia parlamentare”. Roberto Benigni aveva visto l’inizio di questo fenomeno, perciò aveva organizzato il suo progetto di spettacolo sulla Costituzione, suggerendo in questo modo alla RAI come fare vero servizio pubblico. Suggerimento che si sono guardati bene dal raccogliere, anche, forse, per non offuscare il concorrente Fininvest di proprietà di un Primo Ministro.

   Come si fa a parlare di democrazia definendola, come ha fatto il Primo Ministro di uno stato europeo, come “illiberale”? Come definire democrazia quella dell’India, la cui società è ancora divisa in caste o quella degli Stati Uniti dove, per esempio, la qualità dell’istruzione non è garantita a tutti in egual misura, così come la salute? È urgente definire cos’è la democrazia e cosa è irrinunciabile perché sia un fondamento riconosciuto e riconoscibile.

   La democrazia non si esaurisce nel rapporto tra maggioranza e minoranza e nella dialettica tra governo e opposizione. La democrazia è un sistema di istituzioni e servizi che permettono a ogni singolo cittadino di avere uguali diritti e opportunità perché possa esercitare la personale libertà in una società altrettanto libera. Questo sistema è definito nella prima parte della nostra Costituzione.

   Alcuni Stati della presunta Unione Europea stanno iniziando a sviluppare questa realtà, ma sono appena agli inizi, perché la libertà è la cosa più difficile da vivere e da condividere. È difficile perché, essendo un valore assoluto, non può avere limiti e quindi l’unico elemento che garantisce la possibilità della sua realizzazione è che ciascuno si riconosca membro insostituibile di una comune umanità. È difficile perché è necessaria la piena consapevolezza di far parte di un comune progetto di convivenza a cui tutti partecipano. Quindi lo strumento principe per la democrazia è l’educazione alla libertà.

   È necessario fornire gli strumenti di conoscenza per dare consapevolezza al cittadino riguardo alle scelte che compie, a partire dal voto. Da qui il ruolo fondamentale della scuola pubblica che deve essere garantita uguale per tutti. Non è un caso che il primo intervento per cambiare la costituzione italiana è stato proprio quello di svalutare la scuola pubblica a favore di quella privata contravvenendo all’indicazione specifica della costituzione che all’articolo 33 diceva che le scuole private non devono costituire un onere per lo stato. Il fatto che questa azione sia stata propagandata proprio come misura democratica dimostra come, spesso, le parole siano usate per influenzare o, meglio, manipolare, l’opinione pubblica.

   E qui emerge il secondo grande responsabile in ambito culturale: il mondo dell’informazione che sia per interessi commerciali sia per pigrizia e forse anche per ignoranza e malafede, per descrivere alcuni concetti, fenomeni e avvenimenti usa termini di diverso significato come se fossero sinonimi; per esempio chiama consumatori i cittadini, clienti invece che passeggeri gli utenti delle ferrovie preparando il cambiamento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato senza dirlo esplicitamente, con una campagna pubblicitaria che non ha mai parlato di privatizzazione. Così la scuola ha chiamato Dirigente scolastico il Preside, facendo intendere che la scuola non sia un servizio ma un’azienda, e ha definito quello che dovrebbe essere il piano pedagogico ed educativo il POF: Piano di Offerta Formativa, come se la cultura fosse un prodotto da vendere. Così i professori non sono stati più inquadrati a ruolo ma secondo il contratto di pagamento a tempo indeterminato come impiegati aziendali; tutto questo non è stato mai detto in maniera esplicita ma presentato come dato di fatto, col silenzio dei sindacati e confidando nell’ignoranza della popolazione assuefatta a una costante informazione superficiale e approssimativa.

   E adesso la proposta di riforma costituzionale spacciata come occasione per dare agli italiani la possibilità di scegliere direttamente da chi vogliono essere governati come i cittadini statunitensi, quando questo non è vero perché negli USA i candidati che saranno oggetto di votazione per diventare Premier sono il risultato di quattro livelli di selezione a partire dalle votazioni per eleggere i governatori di ciascuno Stato.

   Chiamare Premier il Presidente del Consiglio o Governatore il Presidente delle Regione, allude a forme di governo che non hanno niente a che fare con la nostra forma istituzionale di repubblica parlamentare. Il premier appartiene alla realtà del governo federale degli Stati Uniti d’America, che è una repubblica presidenziale, come quella francese. Il Presidente del Consiglio italiano, invece, è indicato dal Presidente della Repubblica che lo sceglie tra i parlamentari eletti durante le votazioni e che lo presenta al Parlamento, vero rappresentante del popolo, il quale con un voto lo accetta o lo respinge. Si chiama Presidente del Consiglio dei Ministri perché sceglierà poi i ministri che comporranno il governo e questo lo fa consultando il Parlamento, il quale alla fine potrà confermarli. Per questo la nostra è una Repubblica Parlamentare proprio perché il Parlamento rappresenta il potere legislativo, sceglie il governo e può anche farlo decadere.

   Purtroppo, in questi ultimi anni i governi hanno abusato dei Decreti-legge, che sono previsti solo come strumento di emergenza, trasformando l’eccezione in una normalità, cosa molto grave perché esclude il ruolo legislativo del parlamento.

   Significativo e indicativo dell’ignoranza della qualità della nostra Repubblica Parlamentare è stato il successo del Referendum che ha dimezzato i membri del Parlamento, diretti rappresentanti della volontà popolare, argomentando questa scelta come soluzione per non sprecare i soldi dei cittadini, come se il lavoro di chi cerca di trasformare in leggi le istanze della popolazione, fosse inutile spreco di tempo e denaro.

   Altra cosa negativa che indica la piaggeria dei mezzi di informazione verso la cultura anglosassone, più pragmatica e mirata maggiormente alla funzionalità dell’agire quotidiano e poco adatta all’astrazione, è il cessato uso del congiuntivo che è il modo verbale che permette di descrivere un futuro immaginabile, funzione propria della nostra lingua e delle sue strutture sintattiche.

   Tutte queste superficialità, ambiguità e approssimazioni predispongono e abituano la mente di chi ascolta a cambiare il significato delle parole e i concetti senza averne piena coscienza, oltre a mostrare la scarsa conoscenza, rispetto e valutazione che i protagonisti dell’informazione hanno dello strumento principe che devono usare: la lingua italiana. Questo tipo di modalità dei mezzi di informazione ha fatto accumulare così tante insufficienze storiche che oggi risulta quasi impossibile trovare il bandolo di questa matassa per permetterci di uscire da questa confusione comunicativa che riguarda direttamente la possibilità di progettare un futuro.

   Alcuni professionisti dell’informazione sembrano considerare il popolo circuibile con giochetti linguistici, come se non facessero parte anche loro della stessa nazione italiana, come se il mondo dell’informazione fosse una realtà separata dal resto della popolazione, come se non appartenessero all’Italia, all’Europa, all’Occidente Democratico e al Mondo.

   Un capitolo a parte merita, poi, l’uso dilagante di termini ed espressioni stranieri per definire cose e concetti che sono più che definibili con la nostra lingua. Questo atteggiamento servile e rinunciatario è un pretestuoso e offensivo uso improprio e culturalmente impoverito dell’espressione dei concetti, come se la lingua italiana fosse inadeguata a descrivere situazioni moderne o complesse.

   È urgente ritornare per chi lavora nei servizi di informazione pubblica all’obbligo di un uso corretto e completo della lingua italiana sia nella dizione che nella sintassi. Perché è rispettando la lingua nella sua compiutezza che si fa vero sevizio pubblico di informazione e ci si rende credibili.

   Inoltre, è altrettanto urgente formare i quadri amministrativi alla cultura e al comportamento democratico nel servizio pubblico, perché diventi cultura comune che i cittadini non sono sudditi ma sono il motivo per cui esistono i servizi. Questi non sono benevole concessioni elargite a coloro che se le meritano ma sono pubbliche strutture che fanno di un popolo una democrazia.

   Bisogna ridare valore alle parole e al loro significato e considerare che la cultura e l’informazione sono strumenti irrinunciabili per la realizzazione di una vera democrazia, che è la forma di civiltà che non solo riconosce l’essere umano come valore, ma soprattutto costruisce la convivenza pacifica, cosa della quale sentiamo di questi tempi tanto il bisogno per dare alla vita la qualità che la rende degna di essere vissuta: la libertà.

(GRAZIA BARONI)

P.S.= Suggerirei il libro “Even. Pietruzza della memoria” di Adriana Muncinelli come libro di testo del primo anno delle scuole superiori perché mostra come i mezzi di informazione hanno educato gli italiani ad accettare senza ribellarsi le leggi razziali del fascismo.

Palestinesi – Israeliani: una pacificazione sarà mai possibile? Il tentativo e la testimonianza dell’associazione PARENTS CIRCLE (con due interviste dalla rivista di Forlì “UNA CITTÀ”)

Famiglie israeliane e palestinesi insieme, entrambe colpite da gravi lutti famigliari di guerra (foto dal sito Home page – Parents Circle Families Forum (theparentscircle.org)

Da “UNA CITTÀ” (https://www.unacitta.it/):

   (…) Dedichiamo diverse pagine al Parents Circle, (Home page – Parents Circle Families Forum (theparentscircle.org) un’associazione “miracolosa” di israeliani e palestinesi, colpiti da un lutto per mano degli altri, che lavorano insieme per promuovere la concordia tra i due popoli. Ascoltare i tragitti compiuti a fatica, dall’odio all’amicizia, è commovente. Di quel che succede abbiamo già detto e tutto sembra confermarlo: destra israeliana e Hamas hanno lo stesso obiettivo: impedire ogni possibile ripresa del progetto “due stati” e per far questo il numero dei morti palestinesi è decisivo. Il cinismo di entrambe le parti è impressionante. Ma c’è una differenza: i fanatici musulmani che sognano la Umma hanno tempo e, nel frattempo, vanno in paradiso: ma gli israeliani? Hanno tempo? Qual è la prospettiva se i palestinesi, come hanno dimostrato, non se ne vanno? Tenerli sottomessi per generazioni sul modello sudafricano? Ma non sanno che i “sottouomini” alla fine, dopo tante sofferenze, possono farcela? E a quel punto? E tutto per la Cisgiordania dove “hanno camminato i patriarchi”? Non resta che sperare che, da entrambe le parti, dal peggio nasca il meglio. 

   Riproponiamo le interviste ai membri del Parents Circle Bassam Aramin, palestinese e Robi Damelin, ebrea sudafricana, emigrata in Israele. 

   Siccome anche noi pensiamo che i territori, e in particolare la Cisgiordania, siano alla radice del conflitto terribile odierno, apriamo la rivista con la citazione illuminante di Leibovitz del 1968.
“Il dominio sui territori occupati avrebbe ripercussioni sociali […]. Uno Stato che governa una popolazione ostile di 1,5-2 milioni di persone è destinato a diventare uno Stato di polizia segreta, con tutto ciò che ne consegue per l’istruzione, la libertà di parola e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale prevarrebbe anche nello Stato di Israele. L’amministrazione dovrebbe sopprimere l’insurrezione araba da un lato e procurarsi quisling arabi dall’altra. C’è anche una buona ragione per temere che la Forza di Difesa di Israele, che finora è stata un esercito di popolo, trasformandosi in un esercito di occupazione, degeneri… Per amore del popolo ebraico e del suo Stato non abbiamo altra scelta che ritirarci dai territori […]. Non ogni “ritorno a Sion” è un traguardo religioso significativo… esiste un tipo di ritorno che può essere descritto con le parole del profeta: “Quando sei tornato, hai contaminato la mia terra e hai reso la mia eredità un abominio”
 (Geremia 2:7). Yeshayahu Leibowitz, “The Territories” (1968)

Da “UNA CITTÀ” (https://www.unacitta.it/)

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QUEL FILM IN CARCERE

La resistenza palestinese e l’arresto a 17 anni, la visione, durante la detenzione, di un film sulla Shoah, che sconvolge; alla liberazione l’impegno nei “Combatants for peace”, ma poi l’impensabile: la perdita della figlia, di soli 10 anni, per mano di un soldato e però, ancora una volta, la scelta di lavorare per tenere aperto un dialogo, entrando nel Parents Circle; Israele troverà la sicurezza solo quando farà la pace con i palestinesi. Intervista a Bassam Aramin.

Bassam Aramin, palestinese, già condirettore del Parents Circle-Families Forum, ha trascorso sette anni in un carcere israeliano per il suo ruolo nella resistenza palestinese. Nel 2007 sua figlia Abir, 10 anni, è stata uccisa da un soldato israeliano. Vive a Gerico, in Cisgiordania.
Prima di tutto vorrei chiederti di raccontare brevemente la tua storia e di come sei entrato nel Parents Circle.
Ho trascorso sette anni nelle carceri israeliane, ci sono entrato quando avevo 17 anni. Proprio in prigione ho visto un film sull’Olocausto, ed è così che ho scoperto della sua esistenza. Fino ad allora pensavo fosse una bugia, mi dicevo: “Non ne ho mai sentito parlare…”. All’epoca fu molto difficile per me guardare quelle immagini; quella visione mi ha segnato al punto che, venticinque anni dopo, ho conseguito un master sull’Olocausto. A muovermi era stato il desiderio, la necessità di saperne di più sull’altra parte.
Quando sono stato rilasciato, sette anni dopo, Continua a leggere “Palestinesi – Israeliani: una pacificazione sarà mai possibile? Il tentativo e la testimonianza dell’associazione PARENTS CIRCLE (con due interviste dalla rivista di Forlì “UNA CITTÀ”)”

IL FUTURO NON È IMPOSSIBILE (di MARIO DRAGHI, da “IL FOGLIO” del 16/2/2024)

“I cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e vogliono preservarla”. Dalla globalizzazione al nuovo mondo. Il discorso a Washington per il premio Paul Volcker alla carriera

(Mario Draghi, da “IL FOGLIO” del 16/2/2024)

– Reshoring delle industrie, crisi sanitarie e climatiche, le democrazie alla prova della guerra. Come rispondere – L’Europa, le politiche fiscali. Serve uno spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita –

   Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, avevano grandi aspettative riguardo alla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale. Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici e lo stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale. Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando disse che “nessuna nazione al mondo ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee straniere alla frontiera”. (…)

   Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento del tenore di vita mai visto nella storia. Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. Affinché i mercati aperti tra i paesi siano sostenuti, è necessario che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie a cui tutti i paesi partecipanti si devono attenere. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio.

   Pertanto, l’ordine del commercio mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsivoglia paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non avrebbe favorito i propri interessi a breve termine. (…) Le conseguenze di questa scarsa conformità sono state economiche, sociali e politiche. La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, le cui conseguenze i responsabili politici hanno tardato a riconoscere. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie nascenti dalla concorrenza estera. Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo, volte a creare eccedenze commerciali e a limitare l’aggiustamento del mercato. (…)

   Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei paesi che ne erano più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti. (…) Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche. La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. (…). E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere il “net zero” in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Ue danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

   Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli choc a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli choc della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di choc positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui. Ora, mentre guadagna posti nella catena del valore, la Cina non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino choc negativi dell’offerta più frequenti, più lenti e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

   E’ probabile che questi choc dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito. (…) In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. (…)

   Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino. La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria. (…) La politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono mitigare gli effetti degli choc dell’offerta sul pil con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo choc energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni paesi dell’Ue, come l’Italia, hanno compensato fino al 90 per cento della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

   Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali.

   Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione. Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del pil. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’èra della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

   Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

   Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’intelligenza artificiale potrebbe essere d’aiuto.

   Ma per fare tutto questo in tempi rapidi sarà necessario un mix di politiche adeguato: un costo del capitale sufficientemente basso per anticipare la spesa per investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di stato laddove siano giustificati.

   Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più sensibile alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

   Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche, cosa che la nostra architettura di politica macroeconomica non è stata progettata per fornire. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine.

   Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

   Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

   In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali sul fatto che la spesa pubblica di oggi, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

   In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleviando alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’Ue è più programmatica – spesso si estende su più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte a che la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.

   In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le Banche centrali dovrebbero assicurarsi che la bussola principale per le loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra crescita salariale di recupero e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

   In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o l’indipendenza. Questa bussola permette di distinguere con precisione gli choc temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o i prezzi più elevati delle materie prime legati all’aumento degli investimenti, dai rischi di inflazione generalizzata.

   Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

   Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune. (MARIO DRAGHI)

LA STORIA PER USCIRE DALL’IMPOTENZA (di GRAZIA BARONI, 26/1/2024)

   La tremenda realtà della guerra in Ucraina e dei bombardamenti dell’esercito israeliano sul popolo palestinese ammazzato nella striscia di Gaza, che si squaderna ogni giorno sotto i nostri occhi sta rendendo intollerabile l’inerzia dell’Europa, quasi muta osservatrice, e l’inefficace richiamo degli Stati Uniti a cessare il fuoco per rendere possibile un inizio di trattative di tregua tra le due parti in conflitto.

   Come si fa oggi ad agire in favore della pace? Oggi che prevalgono la logica del rapporto di forze e il valore supremo pare essere il profitto? L’umanità, però, è già arrivata a riconoscere come valore condiviso i “diritti umani”, il diritto di ogni uomo alla vita e ad una vita qualificata. E l’Europa è andata oltre alla dichiarazione soltanto: ha realizzato settant’anni di pace, ha trasformato tali principi in una realtà storica. Perfettibile, naturalmente, ma già reale, dimostrando che la pace non è un’utopia.

   Forse è per questo che tante forze si sono coalizzate perché il progetto europeo non si realizzasse, perché renderebbe inutile il mercato delle armi, il mercato degli esseri umani, e perché una democrazia in compimento, attiva, tende a migliorarsi e a migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini, e non essendo più il profitto il valore di riferimento, l’economia tornerebbe a essere l’espressione dell’armonia tra le varie componenti della comunità umana. Di fatto gli sprechi diminuirebbero perché sarebbe evidente che il consumismo è un surrogato che illude di riempire con le cose il vuoto di una vita insoddisfacente.

   Per riuscire a trovare una risposta a quesiti angoscianti e uscire dall’impotenza, noi cittadini dovremmo ripercorrere la nostra storia. Nella storia dell’occidente, infatti, si rilevano almeno due momenti che hanno vista realizzata una convivenza dialogante. Uno è la città di Atene che, scegliendo di vivere in una civiltà di pace, ha inventato la democrazia; l’altro sono i settanta anni di pace successivi alla Seconda guerra mondiale realizzati grazie al progetto europeo.

   La democrazia, infatti, è la forma di governo su cui si è concepito e iniziato a costruire il progetto “Comunità Europea”; ma in questi ultimi trent’anni i governi hanno spesso ignorato, non considerato o addirittura tradito i principi democratici, tanto da suscitare sfiducia nella cittadinanza, fino a renderla impotente e incapace a difendere i propri diritti, e giustificata nel non rispettare i doveri civici di partecipazione necessari alla realizzazione di uno stato democratico.

   Perché la democrazia, senza la partecipazione dei cittadini, non esiste. I cittadini europei sottolineando solo gli errori e le insufficienze del modello democratico senza evidenziarne i pregi ne hanno tracciato un’immagine di fragilità, di confusione del tutto inadeguata ad affrontare le sfide che il futuro ci sta già presentando, come la crisi climatica e le troppo rapide e incontrollate trasformazioni tecnologiche. Questa immagine di debolezza ha reso possibile il fatto che Putin, per esempio, pensasse di poter disprezzare le regole di convivenza internazionale e i trattati, senza pagarne le conseguenze.

   Il fatto che il modello europeo non si stia compiendo ha tolto alle popolazioni del medio oriente un esempio da seguire per uscire dalla logica dell’“occhio per occhio, dente per dente”, con la scusa del diritto alla difesa. Ma quella praticata da Israele dopo l’attacco truce di Hamas sembra più rispondere alla legge del taglione. Non è più solo un atto di pronta difesa, un’alzata di scudi per disarmare chi ti assale.

   Per tutto questo è urgente che i cittadini europei ricostruiscano un linguaggio comune su ciò che si intende per stato democratico perché, se non c’è accordo sulle questioni di base, la prepotenza trova giustificazione ad agire, con la scusa di riportare l’ordine.

   Per costruire un linguaggio comune si potrebbe riflettere sul perché la democrazia non si possa esportare, ma si possa solo condividere che è l’unico modo per poterla difendere. Nel ricostruire questo linguaggio comune si dovrà ripercorrere il processo storico che nel corso dei millenni ha condotto a questo progetto. Ripercorrendo questo cammino di faticosa costruzione di un nuovo modo di convivenza, meno conflittuale e finalizzato a migliorare la qualità della vita possibilmente per tutti, riusciremmo a capire quali sono i passaggi necessari a costruire una proposta di futuro comune.

   Verrebbe ricordato che già i Longobardi per superare le continue lotte tra le faide che la logica della vendetta costringeva a una spirale infinita di violenza, avevano deciso di assimilarsi alla cultura dei popoli conquistati. Avevano riconosciuto infatti nella cultura umanistica incontrata, la condizione necessaria per una convivenza pacifica. Questa cultura, dando il valore assoluto all’essere umano e alla sua vita, aveva trovato nel dialogo tra le parti lo strumento per superare la logica della vendetta. Inoltre, riconosceva nella scelta di condividere e nella capacità del dono, la vera forza dell’uomo che poteva abbandonare la violenza e la logica della sopraffazione come affermazione della propria dignità.

   Sarebbe quindi possibile riqualificare questi valori per superare il disastro della conflittualità in Medioriente. Solo in una condizione di sicura sopravvivenza si può guardare l’altro non come nemico, ma riconoscerlo nella comune umanità e quindi iniziare a considerarlo un possibile collaboratore per la costruzione di una convivenza non conflittuale. Anche la prepotenza di Putin troverebbe un limite nella consapevolezza del popolo europeo, che difende la propria libertà.

   Sta diventando sempre più chiaro che la guerra non risolve mai niente, le guerre che si sono innescate negli ultimi cinquant’anni si trascinano infinite senza approdare a nulla, a partire da Vietnam, Cecenia, Afghanistan, Siria, Sudan, Yemen. Questo perché solo in una dimensione di pace si può attivare la creatività sufficiente a progettare il futuro.

   Perché, dopo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, usiamo ancora la guerra come strumento di confronto? Perché si stanno riproponendo modelli già giudicati fallimentari dalla storia come i totalitarismi? Perché non c’è più prospettiva: a partire dall’Europa che rimane un progetto non compiuto, continuando con le democrazie che non si sono più rinnovate, purtroppo si ripiega su ciò che si è già conosciuto e che non richiede uno sforzo creativo.

   Per questo oggi si sente fortemente la carenza della presenza attiva e innovatrice degli intellettuali: pare muto e impotente il fronte della riflessione. La loro funzione di critica della realtà attuale è possibile solo se c’è un orizzonte con cui confrontarsi, ma questo orizzonte è stato demolito dagli stessi intellettuali, che hanno accusato “l’occidente” di colonizzare culturalmente il mondo, giudicando negativo il suo antropocentrismo visto come affermazione prepotente e prevaricante sulla natura. Ma se l’essere umano e la qualità della sua vita non sono più il senso della storia, quale altra cosa mai ne può prendere il posto?

   Prive di un orizzonte e di una direzione, molte istituzioni democratiche si sono trasformate da organizzazioni di servizio alla democrazia, in ruoli di potere finalizzati a mantenere o lo status quo o una rendita di posizione, persino i sindacati espressione della volontà democratica popolare. Gli intellettuali sono muti perché consumismo, ingiustizia sociale, competitività e tutti gli strumenti per il successo personale ad ogni costo, che si sono imposti all’umanità oggi, sono solo obbiettivi individuali, non condivisibili e perciò non possono dare una prospettiva di sviluppo universale. Per una visione critica del presente ci vuole un progetto di futuro, e di come l’umanità possa raggiungere la propria pienezza.

   Ogni essere umano tende al raggiungimento della felicità, che deve essere una conquista comune, non un traguardo individuale. Ancora di più, coinvolge l’intera creazione: è soltanto in un ambiente vitale e armonioso che l’essere umano gusta la pienezza della vita fino a coinvolgere la prospettiva del futuro. Solo in un ambiente improntato all’armonia si può immaginare un futuro desiderabile e riconoscere in tutti gli esseri umani la possibilità di realizzare la Comunità come pienezza della Storia. (GRAZIA BARONI)

LA SINISTRA DI FRONTE ALL’AGGRESSIONE RUSSA ALL’UCRAINA: alcune convinzioni, molte incertezze, qualche domanda radicale (di LUIGI MANCONI, dalla rivista di Forlì “UNA CITTÀ”, gen/feb 2024, https://unacitta.it/)

   A quasi due anni dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, mi rendo conto che il mio personale bilancio di ciò che ho compreso e di ciò che non ho compreso è particolarmente tormentato e contraddittorio: una serie di convinzioni che si sono, nel corso dei mesi, irrobustite; e una serie ancora più nutrita di domande che tendono a incrinare qualsiasi certezza acquisita. Non credo che la mia sia una condizione isolata.
Quelli che chiamerò Uopl (Umani Orientati al Progresso e alla Libertà) rivelano sintomi e disturbi da stress post-traumatico. Mi riferisco a quei cittadini che si collocano, o comunque vogliono continuare a collocarsi,   nella parte sinistra dello schieramento politico; e che, dall’esperienza della guerra e dalla sua mancata elaborazione, ricavano uno stato di vero e proprio smarrimento, psicologico e ideologico.
Il 24 febbraio del 2022 si è consumata inesorabilmente l’era sovietica, fin nella sua ultima e miserabile metamorfosi: l’imperialismo russo si è mostrato, senza più infingimenti, esclusivamente come una macchina di distruzione e di morte. In quell’occasione, una quota degli Uopl portava a compimento la sua definitiva scissione e il suo estremo congedo da quanto era stato, per oltre un secolo, e attraverso notevoli rivolgimenti, il simbolo -meglio, il simulacro- della sinistra stessa: gli ultimi residui, cioè, della memoria della Rivoluzione d’Ottobre.
Si dirà: ma questo lavoro era stato già avviato, più di quarant’anni fa, dal Pci di Enrico Berlinguer, ed è perfettamente vero. Sopravviveva tuttavia un sentimento, un umore, uno stato d’animo che perpetuavano legami sottili, e spesso inconsci, con un deposito di emozioni e suggestioni capaci di influenzare le scelte politiche e intellettuali. Dai Soviet alla resistenza di Stalingrado, ai soldati russi che entrano nel lager di Auschwitz: tutto induceva a una sorta di tendenziale privilegiamento, a una opzione preferenziale, a una tentazione giustificatoria, ogni volta che la Cosa Russa si contrapponeva alla Cosa Americana.
Più che altro un sentimento, si diceva, ma assai forte. Con l’invasione dell’Ucraina si è consumato un ulteriore e profondo strappo: e una componente degli Uopl oggi riconosce che, tra Vladimir Putin e Joe Biden, può scegliere, finalmente -e serenamente- il secondo, senza che ciò faccia dimenticare, nemmeno per un istante, le grandi responsabilità, passate e presenti, dell’imperialismo americano. E Putin può diventare finalmente -e serenamente- il Nemico.
È così vero che la controversia più aspra all’interno degli Uopl verte proprio su questo punto: e, passati quasi due anni, sembra che la separazione dalla Cosa Russa, netta e inequivocabile per molti, non lo sia per tanti e, forse, per la maggioranza tra coloro che si vogliono di sinistra. Ma che cosa ha impedito e tuttora impedisce che la frattura con il “putinismo”, innanzitutto sul piano culturale e ideologico, sia totale e irreversibile?
In primo luogo, una radicata sottovalutazione del primato del sistema democratico rispetto a ogni altro sistema. Per considerare Putin il concentrato di tutto ciò che un democratico deve detestare potrebbe essere sufficiente il fatto che il suo potere assoluto duri da oltre vent’anni, consentendogli di fare strage di vite e di diritti.
Se tutto ciò non risulta sufficiente, è forse perché, come dice Massimo Recalcati, “l’inconscio di una certa sinistra detesta la democrazia”. Un’affermazione terribile ma, a mio avviso, non immotivata. Se, infatti, si approfondisce il discorso, si potrà scorgere una singolare presbiopia, che si fa relativismo etico e si esprime attraverso formule retoriche primitive. Come, a esempio, “anche in Occidente comandano sempre gli stessi”; “l’informazione è tutta in mano agli oligopoli”; “in Parlamento a decidere sono sempre le lobby”.
In altre parole, sembra sfuggire a molti che la democrazia più imperfetta (quella italiana, ma anche quella ucraina), in ragione della sua stessa natura, è preferibile a qualunque forma di autocrazia. Insomma, la guerra in Ucraina consente di andare al cuore della questione. Ovvero “sto con l’Ucraina perché sto con la democrazia”. Tantissimi (temo la maggioranza) tra gli Uopl non condividono questa impostazione “perché gli Usa…”, “Perché la Nato…”, “Perché l’Europa…”.
Hanno ragione nell’elencare le cause, le concause e i precedenti storici, ma hanno torto marcio nello sfuggire al tema centrale, che rappresenta la sostanza più vera della questione-guerra: il senso della democrazia, la sua qualità e la sua -come dire?- superiorità. Se si assumesse questo come discrimine, sarebbe almeno chiaro il tema della discussione: ciò che ci divide e ciò che ci unisce.
Una parte della sinistra si colloca su questa posizione, senza che ciò possa minimamente rassicurarla rispetto agli esiti della guerra, dal momento che lo scenario è decisamente confuso e le prospettive di arrivare anche solo a un cessate il fuoco appaiono assai esili. Dunque, come continuare a sostenere, anche militarmente, la resistenza senza che ciò determini la riproduzione all’infinito della spirale bellica? E come farsi protagonisti, insieme alla sinistra europea, di un percorso di tregua, negoziato, mediazione che produca colloqui bilaterali e multilaterali e conferenze internazionali e, finalmente, dia una chance alla pace?

   Un’altra quota della sinistra, pur ribadendo stancamente che la Russia è l’invasore, si è ritagliata uno spazio di equidistanza (negata a parole, ma accettata nei fatti), una volta che la priorità è sempre e comunque la cessazione immediata delle ostilità. Le due sinistre si sono reciprocamente interdette e oggi è come se osservassero, azzittite e preoccupate, il proprio esaurimento nervoso.
A sua volta, anche il pacifismo politico rivela una disperante afasia. Esso conserva una sua vitalità nell’azione quotidiana, sotterranea e preziosa, ostinata e solidale, interreligiosa e interculturale, anche nei territori dell’Ucraina, ma resta incapace di farsi soggetto pubblico. In altre parole, l’esperienza della guerra continua a incidere in profondità nell’inconscio individuale e collettivo dell’Occidente, riproducendo la condizione di stress.
Come si diceva, la mancata elaborazione dell’immenso lutto che si consuma nei massacri in Ucraina produce, tra l’altro, due false rappresentazioni: che tutto stia accadendo per la prima volta (la prima dopo il 1945) e che si viva, ormai, nel dopoguerra. Queste due costruzioni mentali sono tragicamente fallaci: perché è già successo (Sarajevo, Srebrenica, Kosovo) e perché la guerra continua e il dopoguerra non è alle viste.
È questa inconsapevolezza che rende ancora più drammatico lo smarrimento della sinistra tutta e le impedisce di immaginare una strategia di pace fondata sulla resistenza dell’Ucraina e sulla sua capacità di indipendenza, anche militare. Un tempo era la guerra a “far maturare” (si diceva così) gli adolescenti -quelli che non vi perivano- e a renderli adulti. Oggi la guerra sembra rendere ancora più immatura la sinistra, riducendola irreparabilmente a puer aeternus. (LUIGI MANCONI)

(di Luigi Manconi | Una Città (unacitta.it) )