In questo momento, con l’attuale imprevedibile situazione di disagio sanitario e sociale, c’è certamente il problema di un progetto: manca la capacità di un’azione politica in grado di coniugare interventi programmabili (fare programmi significa riferirsi a cose realizzabili con riferimenti certi come quattrini e date: per esempio bilancio dello stato e ciclo elettorale) con disegni pianificabili sul lungo periodo, che – solo lui – stabilizza il cambiamento.
Ricordo il libro bianco di Prodi come ultimo esperimento nel proporre un confronto elettorale fondato su un programma, pur con tutte le insufficienze che ne hanno causato o giustificato il declino: tuttavia l’attualità è ancora peggio.
PROGRAMMAZIONE, PIANIFICAZIONE: so di usare termini antichi, perché erano il segno di un pensiero che aveva capito i processi evolutivi, ma che è stato divorato dalla incapacità degli stessi proponenti di liberarsi di altre dinamiche, di tipo dialettico, ben più deterministiche. Lenin se l’era cavata dicendo che il comunismo era l’idea, ma nel frattempo si accontentava del socialismo e questo “accontentarsi” gli ha regalato – a lui e a noi – stalinismo e maoismo: non per colpa, ma per insufficienza del socialismo e di chi lo praticava.
I nostri ancora peggio: comunisti che non hanno capito (ancora adesso!) che tutto era finito, eppure il messaggio era ben arrivato da Yalta! socialisti poi affogati nel craxismo (sennò come contare, essendo minoranza nel governo!), democristiani a scannarsi con le “correnti”.
E poi ….generali, logge, terroristi, rapimenti e chi più ne ebbe!!
Bene: PREAMBOLO di chi non sa essere sintetico, però ADESSO DICO DI OGGI.
A me pare che si debba camminare avendo chiaro un OBIETTIVO e un ORIZZONTE.
L’obiettivo è riuscire ad andare fuori dal gorgo: abbiamo visto come è andata in Emilia e Calabria, sapendo che, comunque, il giorno dopo si ricomincia con Liguria e quant’altro (a maggio? o ci pensa il coronavirus?)
Sappiamo bene che se tutte queste premesse consentono verifiche della condizione del malato, lì non si trova certo la soluzione. Anzi, forse proprio quello che sta succedendo (totalmente imprevedibile) in questo inverno ammorbato dalla “MALARIA CINESE” come la chiama qualcuno (si, proprio LA MALA ARIA!) ci pone di fronte a stimoli nuovi, anche se il gregge non desiste dai comportamenti del tipo “si salvi chi può”: l’immagine dei giovani in corsa sulle scale della stazione centrale di Milano, borsone al traino, o delle file con carrello fuori dei supermercati, con l’ansia di fare la spesa in tempo, fanno da contraltare all’immagine dell’infermiera svenuta con la testa sul banco.
Che il governo regga o meno, obbligando a chiudere anzitempo la legislatura, fa poca differenza, rispetto alle dinamiche di lungo periodo, che comunque non sono alla portata dei nostri illustrissimi: perché dobbiamo trovare nuovi percorsi, da studiare su una carta geografica che non può che essere la mappa dell’Europa, con continue verifiche sul mappamondo. Sennò il gioco è solo di chi il mondo se lo spartisce con la guerra (SIRIA, KURDISTAN e quant’altro è in mano ai mercanti di armi) o lo divora causando il disastro ambientale (dalla SIERRA LEONE, all’AMAZZONIA, all’ANTARTIDE, ecc.ecc.)
Il futuro, che è già cominciato, si gioca su questioni che comunque ci consentono di pensare e agire, temi su cui calibrare interventi determinanti e in grado di sollecitare l’opinione pubblica, stimolare a proporre idee e nuove relazioni: LAVORO e AMBIENTE.
Giusto e diamoci dentro, magari cominciando nel far uscire, in casa nostra, i sindacati dal torpore (Landini, dopo che ha fatto carriera, è andato al mare? è emigrato? E con lui tutto il sindacato che non ha mai voluto diventare europeo!)
Io però mi preoccupo che si cominci (adesso non dopo!) anche una riflessione su quanto può cambiare/sta cambiando il modo di pensare e di agire: e qui il tema del lavoro resta, ma cambia fisionomia.
Perché è cambiata la condizione mondiale, da quando si è affermato il pensiero del riconoscimento del valore della persona, prima proposta come ideale (quindi con l’equivoco di trasferire il valore massimo dalla persona all’idea: la persona fu valore anche per quelle epoche, ma era relativizzata in figure stranianti: il santo, l’eroe, il genio) poi faticosamente riaffermata: quel difficile passaggio da Kant ed Hegel (l’idea) a Renouvier, Mounier, e Guardini (con tutte le derive del secolo: Sarte, Marcuse e chi più ne ha…………) : la persona, senza attributi e qualità eccezionali, viste come ideali, ma colta nella sua “normalità” che pure la pone, nella dinamica evolutiva complessiva, al livello più alto, date le caratteristiche di cui è dotata.
Voglio dire che aver riconosciuto il valore di quanto la persona è in grado di capire e, quindi, di decidere, ci libera dal salvarsi credendo, accettando e facendo gruppo, di volta in volta, intorno a ideale, partito, nazione, razza, ma ha lasciato una traccia deterministica, giocata sullo squilibrio tra tempi del dialogo e della comprensione e tempi della proposta e dell’attuazione, che toccando il nervo scoperto della sopravvivenza, determinano il corto circuito su cui le idee si bruciano, sicché prevale sistematicamente IL POTERE e quindi il primato di chi se ne impadronisce.
E quest’ultimo passaggio lo chiamiamo “POLITICA”, con tutte le contraddizioni che derivano dal suo rapporto con la CULTURA.
E tutti – vincitori e vinti – si salvano la coscienza dicendo che così è la natura umana.
…
L’UMANITÀ, PER FORTUNA, È UNA REALTÀ EVOLUTIVA.
Teilhard de Chardin ce ne ha messo un bel po’, lui prete, a farlo digerire ai monsignori del Santo Uffizio, ma adesso più o meno tutti lo sanno (anche se c’è qualcuno che continua a pensare che la terra è piatta!)
La prossima dinamica evolutiva può consentire alla persona – ormai riconosciuta come valore – di esprimere le proprie valenze in quanto sa e vuole produrre (il lavoro) senza ridurre questo a merce di scambio.
E’ in atto un profondo rivolgimento che investe l’economia, il sistema produttivo e la principale risorsa umana che produce valore: il lavoro.
E’ in atto un radicale processo di trasferimento dell’attività produttiva di beni e servizi (non di idee) dalle mani dell’uomo a mani (e cervelli) elettromeccanici.
Credo si possa affermare, senza esitazioni, che è in atto il secondo salto evolutivo, dopo il primo che avvenne nel momento in cui il “sapiens” si rese conto che il frutto coltivato era più conveniente, perché più diffondibile, di quello colto in natura; momento contestuale con l’invenzione dell’uso degli attrezzi, utili protesi delle mani, entrambi guidati – mano e attrezzo – da un cervello ormai consapevole.
Quella fu l’evoluzione che mise la persona in grado di lavorare.
Siamo pronti per il nuovo passo evolutivo, prima che quanto noi stessi abbiamo prodotto ci conduca a rischio di sfuggirci di mano, causando l’autodistruzione della specie?
…
L’orizzonte ci propone tre questioni:
– riconoscere il lavoro come libera espressione della creatività e della competenza della persona, di cui alimentare permanentemente lo sviluppo culturale e da cui, a sua volta, derivare;
– individuare e continuamente rielaborare il confine tra il lavoro della persona e quanto può essere delegato alla macchina nel rispondere ai bisogni di beni e servizi di consumo;
– sottrarre il lavoro al condizionamento che, avendolo ridotto a merce, lo ha reso derivata del “valore” prodotto, in quanto viene scelto in virtù di quanto può rendere e non in base alle caratteristiche di utilità e alle qualità del proponente.
…
Sospendo per ora la riflessione sulla natura del lavoro, perché comunque è preliminare osservare la questione avendo chiaro quanto oggi pesa nel “mercato del lavoro” dell’economia globale il prodotto di attività svolte essenzialmente sotto la guida dell’obiettivo PROFITTO e quanto pesa il lavoro volto a fornire SERVIZIO (pagato o volontario, che sia).
…
A prescindere dai dati, comunque, si può riflettere sulla dinamica che sta inducendo un progressivo trasferimento di molte attività dall’uomo alla macchina. E’ una situazione che sta producendo una sempre più diffusa instabilità nel mondo del lavoro, dove si chiede in maniera sempre più ampia, una disponibilità della persona a rendersi intercambiabile per mansione e ruolo, situazione vista – con occhio difensivo – come condizione di sfruttamento, ma che invece sollecita – con sensibilità progressiva – a essere colta come richiesta di una professionalità capace di riqualificazione continua (e qui c’è l’ennesimo fallimento o miopia: l’occasione fu persa con il cattivo esercizio della formula della formazione permanente, o continua: la banalizzazione – o se vogliamo l’insufficienza – dell’esperienza delle 150 ore!).
Qui si pone, assolutamente determinante, la questione di una radicale revisione del sistema scolastico, sul piano culturale e pedagogico, prima che didattico e organizzativo!
PROVO A FARE UN PUNTO.
Nei prossimi 50 anni (due generazioni di ammessi al lavoro, più o meno dieci cicli elettorali, se la smettiamo di anticiparli con lo sbranamento continuo in parlamento) l’obiettivo è riproporre a scala mondiale le strategie del sindacalismo europeo ottocentesco: giusta remunerazione, rispetto delle condizioni del lavoratore, parità uomo/donna, ecc. ecc.
CE LA FAREMO A ESTENDERE al globo quello che gli europei si sono dati, trasferendo sul “terzo mondo”, con colonialismo e multinazionalismo economico – equivalenti dal punto di vista dello sfruttamento – LA PARTE PIÙ ONEROSA DELLE CONQUISTE DEI LAVORATORI? Per ora la vedo dura, anzi vedo una prospettiva di livellamento mondiale su quote ben più basse di “difesa dei lavoratori”
(Torna, Landini, torna, ma mettiti a discutere con chi si sta mangiando il mondo!)
Sapendo poi, che di anni ne abbiamo ancora per un paio di secoli (Mercalli assentendo!), per evolvere nella separazione tra lavoro e mercato, cioè per sottrarre il lavoro alla sudditanza dal denaro.
Ma questo è un problema, come accennavo prima, di cambiamento di punto di vista e qui comincia un ragionamento più complicato.
In questo inverno, ho già ricordato, si è superato l’esame con l’Emilia e Romagna (superato, sia fa per dire! perché la Calabria ha consentito anche agli altri di tirare il fiato) e adesso viaggiamo incoronati da virus.
CERCO DI ESSERE SERIO.
Riassumo quanto mi è risultato dalle ultime chiacchiere che sono riuscito a fare in giro e riparto anche dall’idea di “usare” Ernesto e Italo (due anni di tempo) per aprire nuove piste da seguire, quindi vado per punti.
1 – La prima idea usa come riferimento di base l’esperienza del “federalismo” che ha coinvolto entrambi i nostri antenati, anche se in forme diverse: federalismo vuol dire Europa.
Credo utile discutere delle prospettive che si possono intravvedere, avendo alle spalle l’esperienza “europeista” a partire dalle idee dei padri fondatori fino all’attuale gestione, interloquendo con alcuni settori: ne indico alcuni, che a me sembrano molto importanti:
a– I livelli elevati di formazione e i loro esiti internazionali;
b– La generazione “erasmus” tanto per intenderci e gli sbocchi che questa esperienza consente: a me pare che si faccia un gran baccano sulla questione dei nostri laureati che non trovano lavoro e devono emigrare; non è questo il problema grave: ce ne fossero di ragazzi che fanno le loro prime esperienze di lavoro girando per il mondo, il problema è, invece, se riusciamo noi a far rimanere dopo la laurea qualcuno bravo a fare ricerca, delle migliaia di studenti stranieri che in questo momento stanno studiando in Italia;
c– La questione della formazione e dell’orientamento al lavoro; stando alle ultime statistiche, mentre soffriamo per l’alto numero di disoccupati, abbiamo ampie categorie che offrono occupazione e che non sono soddisfatte per insufficiente capacità del settore della “formazione e orientamento al lavoro” di dare un sostegno adeguato; insomma, la vecchia formazione professionale non funziona più? È fortemente differenziata regione per regione? Esiste una possibilità di confronto europeo?
LA QUALITÀ DEL LAVORO E LE DIFESE SOCIALI sono un tema che non ebbe patria comune al momento in cui gli europei cominciarono a guardarsi in faccia; ricordo i tentativi di far decollare (fine anni ’60) un sindacalismo europeo subito dopo l’ “autunno caldo”: naufragarono miseramente per l’assoluta incapacità di una visione strategica in tal senso; per fare un esempio, ricordo che nella CGIL di allora molti comunisti erano ancora a guardare la colomba della pace, figuriamoci a lavorare con i tedeschi di Bonn!
Per non parlare di Coldiretti che non aveva nessuna idea di collaborazione con i compagni francesi, peraltro completamente impregnati di visione localistica; pensate un po’ se Di Vittorio avesse ridotto la questione bracciantile alla sola difesa dei pugliesi: ma la sua capacità di rendere la questione un interesse dell’intera Italia, cinquant’anni dopo non la si ebbe nel traslare all’Europa dal locale al globale e oggi tanto meno, quando la questione del lavoro sta diventando mondiale: non penso certo a un sindacato a quella scala, ma bastano le sceneggiate come le conferenze ONU in materia?
2 – La seconda questione, che l’esperienza di Ernesto e Italo ha anticipato, riguarda la relazione tra cultura e politica. Qui credo che il percorso che Luca e Giorgio hanno intrapreso nel mondo dei filosofi sia di guida. Io aggiungo una sollecitazione a PENSARE L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL GRUPPO: non si tratta di “diventare importanti” o “di contare” nel mondo degli intellettuali, ma della necessità di porsi a livello di competenza e di confrontabilità, fondati su conoscenza diretta e scambio reciproci, con chi oggi ha perfettamente capito che i livelli di discussione, di decisione e di azione, che hanno importanza strategica, richiedono relazione diretta e scambio interpersonale a scala confrontabile. Ma in fondo, non è sempre stato così? E tuttavia, sembra così difficile SUPERARE BARRIERE LINGUISTICHE, DI ESTRANEITÀ TRA VICINI e quant’altro rende fuori scala e inconfrontabili con un mondo globalizzato e di cui Amazon è bandiera, mentre cultura soffre le barriere linguistiche e politica è solo difesa di interessi nazionali.
QUI SI PONE UNA FRATTURA CHE VA SUPERATA.
C’è un mondo vitale, fortunatamente attivo, capace di continuare a manifestarsi in percorsi individuali, che spesso si incrociano e confrontano, che costituiscono il tessuto vivo della cultura, in qualche modo capace di confrontarsi in uno scambio che supera limiti geografici e ideologici.
Manca però un livello organizzato che renda stabile, estesamente noto e accessibile il patrimonio di idee che si accumulano nel tempo, spesso quindi riconosciute solo a posteriori (la tipica “riscoperta” di cui soffre buona parte del quante “fondazioni” e “istituti” nati per essere testimonianza attiva di vicende cariche di novità, diventano mausolei celebrativi di “eroi del passato” trasformati in mummie da museo!
Riducendo la riflessione a una formula, dirò che la cultura ignora quanto potrebbe esprimersi politicamente per rendersi successivamente utile, cioè per esprimere anche una valenza economica, senza cadere nell’equivoco patrimonio culturale, che diventa risorsa d’archivio, perdendo la potenzialità di essere lievito attivo in vita):
– di ritenere che il primo passaggio significhi entrare nell’area dove le idee sono strumentalizzate nei rapporti di forza e utilizzate solo se vendibili come bene consumabile.
3 – La terza e ultima questione che mi sollecita si pone là dove un pensiero che, già alcuni anni orsono, Ernesto e Italo ponevano a livello mondiale, per essere in grado di agire quotidianamente nell’ambito locale, conduce alla questione della relazione che ciascuno deve essere in grado di stabilire tra le proprie finalità e il proprio agire, attraverso la considerazione e la giusta valutazione delle condizioni storiche in cui si vive.
Questo passaggio pone DUE QUESTIONI su cui sarà utile riflettere e lavorare: la considerazione e la valutazione di quello che da tempo abbiamo definito “IL NODO STORICO” e l’UTILITÀ/NECESSITÀ/CAPACITÀ di ciascuno e di tutti DI DISPORRE DI UN PROPRIO PROGETTO (o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare) di come vediamo e vorremmo migliorare quanto ci sta intorno (per non apparire megalomane non uso la parola “mondo”, ma quella è la dimensione in cui viviamo) e avviare il lavoro di comunicazione, scambio e integrazione.
Vogliamo provarci? (MARIO FADDA)