Piccola appendice al POST di Gianpier Nicoletti: “Stati nazionali, UE e Coronavirus” (di MARIO FADDA)

   Quanto scritto da Gianpier:

(https://nuovoconfronto.wordpress.com/2020/03/14/stati-nazionali-ue-e-coronavirus/), mi aiuta a riflettere su un problema che da decenni ci affligge in Europa e su cui anche il federalismo si è arenato: sarà mai il momento di approfittare del disagio in corso per affrontarlo?

   La faccio breve, ma il tentativo di superare lo scoglio di quella che viene difesa come salvaguardia delle caratteristiche locali, diventa nazionalistica e protezionistica difesa delle rendite di sistemi parlamentari di cui tutti conosciamo difetti e limiti e che sono alla base del periodico degrado e declino di ogni sistema istituzionale sovranazionale.

   Quando l’Italia, con le regioni, obbligò l’Europa a fare un salto di qualità verso una valorizzazione delle caratteristiche locali, fu lei stessa ad autodistruggersi perché il PCI (con la Lega delle Coop) ne fece una battaglia partitica, giocando sul ruolo dell’agricoltura emiliana, mentre Coldirettti (e Veneto con “adeguati” ministri dell’agricoltura) seguirono sornionamente la manovra, ciascuno per ricavarsi un nicchia di poteri corporativi.

   Un po’ la medesima storia dell’agricoltura francese, che ha sempre fatto battaglie per sè stessa, fino alle giacchette gialle.

   La sanità non è “europea”: e potrebbe diventare un progetto (certamente di lungo periodo e qui bisogna che la politica la smetta di pensare solo in termini di ciclo elettorale), un progetto capace di riavviare nuovi percorsi unitari?

   Spero di poterne discutere. (MARIO FADDA)

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Vi mando un video della “Casaleggio associati” che ho avuto da Betta Corni, e che pone alcune questioni sul futuro del lavoro, tema che mi appassiona moltissimo (spero di avere occasioni non troppo lontane per rivederci e parlarne). Ciao a tutti (M.F.):

https://youtu.be/br0Ptwt2ZwI

IPOTESI DI CONTINUAZIONE dello sviluppo di riflessione iniziata in questi ultimi due anni (in proseguo del lavoro di Ernesto Baroni e Italo Martinazzi) di IDEE sul tema del LAVORO NEL NOSTRO TEMPO, e di come aprirsi a virtuoso CONFRONTO con chi segue analoghi percorsi (di MARIO FADDA)

   In questo momento, con l’attuale imprevedibile situazione di disagio sanitario e sociale, c’è certamente il problema di un progetto: manca la capacità di un’azione politica in grado di coniugare interventi programmabili (fare programmi significa riferirsi a cose realizzabili con riferimenti certi come quattrini e date: per esempio bilancio dello stato e ciclo elettorale) con disegni pianificabili sul lungo periodo, che – solo lui – stabilizza il cambiamento.

   Ricordo il libro bianco di Prodi come ultimo esperimento nel proporre un confronto elettorale fondato su un programma, pur con tutte le insufficienze che ne hanno causato o giustificato il declino: tuttavia l’attualità è ancora peggio.

   PROGRAMMAZIONE, PIANIFICAZIONE: so di usare termini antichi, perché erano il segno di un pensiero che aveva capito i processi evolutivi, ma che è stato divorato dalla incapacità degli stessi proponenti di liberarsi di altre dinamiche, di tipo dialettico, ben più deterministiche.   Lenin se l’era cavata dicendo che il comunismo era l’idea, ma nel frattempo si accontentava del socialismo e questo “accontentarsi” gli ha regalato – a lui e a noi – stalinismo e maoismo: non per colpa, ma per insufficienza del socialismo e di chi lo praticava.

   I nostri ancora peggio: comunisti che non hanno capito (ancora adesso!) che tutto era finito, eppure il messaggio era ben arrivato da Yalta! socialisti poi affogati nel craxismo (sennò come contare, essendo minoranza nel governo!), democristiani a scannarsi con le “correnti”.

   E poi ….generali, logge, terroristi, rapimenti e chi più ne ebbe!!

   Bene: PREAMBOLO di chi non sa essere sintetico, però ADESSO DICO DI OGGI.

   A me pare che si debba camminare avendo chiaro un OBIETTIVO e un ORIZZONTE.

   L’obiettivo è riuscire ad andare fuori dal gorgo: abbiamo visto come è andata in Emilia e Calabria, sapendo che, comunque, il giorno dopo si ricomincia con Liguria e quant’altro (a maggio? o ci pensa il coronavirus?)

   Sappiamo bene che se tutte queste premesse consentono verifiche della condizione del malato, lì non si trova certo la soluzione.      Anzi, forse proprio quello che sta succedendo (totalmente imprevedibile) in questo inverno ammorbato dalla “MALARIA CINESE” come la chiama qualcuno (si, proprio LA MALA ARIA!) ci pone di fronte a stimoli nuovi, anche se il gregge non desiste dai comportamenti del tipo “si salvi chi può”: l’immagine dei giovani in corsa sulle scale della stazione centrale di Milano, borsone al traino, o delle file con carrello fuori dei supermercati, con l’ansia di fare la spesa in tempo, fanno da contraltare all’immagine dell’infermiera svenuta con la testa sul banco.

   Che il governo regga o meno, obbligando a chiudere anzitempo la legislatura, fa poca differenza, rispetto alle dinamiche di lungo periodo, che comunque non sono alla portata dei nostri illustrissimi: perché dobbiamo trovare nuovi percorsi, da studiare su una carta geografica che non può che essere la mappa dell’Europa, con continue verifiche sul mappamondo.   Sennò il gioco è solo di chi il mondo se lo spartisce con la guerra (SIRIA, KURDISTAN e quant’altro è in mano ai mercanti di armi) o lo divora causando il disastro ambientale (dalla SIERRA LEONE, all’AMAZZONIA, all’ANTARTIDE, ecc.ecc.)

   Il futuro, che è già cominciato, si gioca su questioni che comunque ci consentono di pensare e agire, temi su cui calibrare interventi determinanti e in grado di sollecitare l’opinione pubblica, stimolare a proporre idee e nuove relazioni: LAVORO e AMBIENTE.

   Giusto e diamoci dentro, magari cominciando nel far uscire, in casa nostra, i sindacati dal torpore (Landini, dopo che ha fatto carriera, è andato al mare? è emigrato?  E con lui tutto il sindacato che non ha mai voluto diventare europeo!)

   Io però mi preoccupo che si cominci (adesso non dopo!) anche una riflessione su quanto può cambiare/sta cambiando il modo di pensare e di agire: e qui il tema del lavoro resta, ma cambia fisionomia.

   Perché è cambiata la condizione mondiale, da quando si è affermato il pensiero del riconoscimento del valore della persona, prima proposta come ideale (quindi con l’equivoco di trasferire il valore massimo dalla persona all’idea: la persona fu valore anche per quelle epoche, ma era relativizzata in figure stranianti: il santo, l’eroe, il genio) poi faticosamente riaffermata: quel difficile passaggio da Kant ed Hegel (l’idea) a Renouvier, Mounier, e Guardini (con tutte le derive del secolo: Sarte, Marcuse e chi più ne ha…………) : la persona, senza attributi e qualità eccezionali, viste come ideali, ma colta nella sua “normalità” che pure la pone, nella dinamica evolutiva complessiva, al livello più alto, date le caratteristiche di cui è dotata.

   Voglio dire che aver riconosciuto il valore di quanto la persona è in grado di capire e, quindi, di decidere, ci libera dal salvarsi credendo, accettando e facendo gruppo, di volta in volta, intorno a ideale, partito, nazione, razza, ma ha lasciato una traccia deterministica, giocata sullo squilibrio tra tempi del dialogo e della comprensione e tempi della proposta e dell’attuazione, che toccando il nervo scoperto della sopravvivenza, determinano il corto circuito su cui le idee si bruciano, sicché prevale sistematicamente IL POTERE e quindi il primato di chi se ne impadronisce.

   E quest’ultimo passaggio lo chiamiamo “POLITICA”, con tutte le contraddizioni che derivano dal suo rapporto con la CULTURA.

   E tutti – vincitori e vinti – si salvano la coscienza dicendo che così è la natura umana.

L’UMANITÀ, PER FORTUNA, È UNA REALTÀ EVOLUTIVA.

   Teilhard de Chardin ce ne ha messo un bel po’, lui prete, a farlo digerire ai monsignori del Santo Uffizio, ma adesso più o meno tutti lo sanno (anche se c’è qualcuno che continua a pensare che la terra è piatta!)

   La prossima dinamica evolutiva può consentire alla persona – ormai riconosciuta come valore – di esprimere le proprie valenze in quanto sa e vuole produrre (il lavoro) senza ridurre questo a merce di scambio.

   E’ in atto un profondo rivolgimento che investe l’economia, il sistema produttivo e la principale risorsa umana che produce valore: il lavoro.

   E’ in atto un radicale processo di trasferimento dell’attività produttiva di beni e servizi (non di idee) dalle mani dell’uomo a mani (e cervelli) elettromeccanici.

   Credo si possa affermare, senza esitazioni, che è in atto il secondo salto evolutivo, dopo il primo che avvenne nel momento in cui il “sapiens” si rese conto che il frutto coltivato era più conveniente, perché più diffondibile, di quello colto in natura; momento contestuale con l’invenzione dell’uso degli attrezzi, utili protesi delle mani, entrambi guidati – mano e attrezzo – da un cervello ormai consapevole.

   Quella fu l’evoluzione che mise la persona in grado di lavorare.

   Siamo pronti per il nuovo passo evolutivo, prima che quanto noi stessi abbiamo prodotto ci conduca a rischio di sfuggirci di mano, causando l’autodistruzione della specie?

L’orizzonte ci propone tre questioni:

riconoscere il lavoro come libera espressione della creatività e della competenza della persona, di cui alimentare permanentemente lo sviluppo culturale e da cui, a sua volta, derivare;

individuare e continuamente rielaborare il confine tra il lavoro della persona e quanto può essere delegato alla macchina nel rispondere ai bisogni di beni e servizi di consumo;

sottrarre il lavoro al condizionamento che, avendolo ridotto a merce, lo ha reso derivata del “valore” prodotto, in quanto viene scelto in virtù di quanto può rendere e non in base alle caratteristiche di utilità e alle qualità del proponente.

   Sospendo per ora la riflessione sulla natura del lavoro, perché comunque è preliminare osservare la questione avendo chiaro quanto oggi pesa nel “mercato del lavoro” dell’economia globale il prodotto di attività svolte essenzialmente sotto la guida dell’obiettivo PROFITTO e quanto pesa il lavoro volto a fornire SERVIZIO (pagato o volontario, che sia).

   A prescindere dai dati, comunque, si può riflettere sulla dinamica che sta inducendo un progressivo trasferimento di molte attività dall’uomo alla macchina.  E’ una situazione che sta producendo una sempre più diffusa instabilità nel mondo del lavoro, dove si chiede in maniera sempre più ampia, una disponibilità della persona a rendersi intercambiabile per mansione e ruolo, situazione vista – con occhio difensivo – come condizione di sfruttamento, ma che invece sollecita – con sensibilità progressiva – a essere colta come richiesta di una professionalità capace di riqualificazione continua (e qui c’è l’ennesimo fallimento o miopia: l’occasione fu persa con il cattivo esercizio della formula della formazione permanente, o continua: la banalizzazione – o se vogliamo l’insufficienza – dell’esperienza delle 150 ore!).

   Qui si pone, assolutamente determinante, la questione di una radicale revisione del sistema scolastico, sul piano culturale e pedagogico, prima che didattico e organizzativo!

PROVO A FARE UN PUNTO.

   Nei prossimi 50 anni (due generazioni di ammessi al lavoro, più o meno dieci cicli elettorali, se la smettiamo di anticiparli con lo sbranamento continuo in parlamento) l’obiettivo è riproporre a scala mondiale le strategie del sindacalismo europeo ottocentesco: giusta remunerazione, rispetto delle condizioni del lavoratore, parità uomo/donna, ecc. ecc.

   CE LA FAREMO A ESTENDERE al globo quello che gli europei si sono dati, trasferendo sul “terzo mondo”, con colonialismo e multinazionalismo economico – equivalenti dal punto di vista dello sfruttamento – LA PARTE PIÙ ONEROSA DELLE CONQUISTE DEI LAVORATORI? Per ora la vedo dura, anzi vedo una prospettiva di livellamento mondiale su quote ben più basse di “difesa dei lavoratori”

(Torna, Landini, torna, ma mettiti a discutere con chi si sta mangiando il mondo!)

   Sapendo poi, che di anni ne abbiamo ancora per un paio di secoli (Mercalli assentendo!), per evolvere nella separazione tra lavoro e mercato, cioè per sottrarre il lavoro alla sudditanza dal denaro.

   Ma questo è un problema, come accennavo prima, di cambiamento di punto di vista e qui comincia un ragionamento più complicato.

   In questo inverno, ho già ricordato, si è superato l’esame con l’Emilia e Romagna (superato, sia fa per dire! perché la Calabria ha consentito anche agli altri di tirare il fiato) e adesso viaggiamo incoronati da virus.

CERCO DI ESSERE SERIO.

   Riassumo quanto mi è risultato dalle ultime chiacchiere che sono riuscito a fare in giro e riparto anche dall’idea di “usare” Ernesto e Italo (due anni di tempo) per aprire nuove piste da seguire, quindi vado per punti.

1 – La prima idea usa come riferimento di base l’esperienza del “federalismo” che ha coinvolto entrambi i nostri antenati, anche se in forme diverse: federalismo vuol dire Europa.

   Credo utile discutere delle prospettive che si possono intravvedere, avendo alle spalle l’esperienza “europeista” a partire dalle idee dei padri fondatori fino all’attuale gestione, interloquendo con alcuni settori: ne indico alcuni, che a me sembrano molto importanti:

a– I livelli elevati di formazione e i loro esiti internazionali;

b– La generazione “erasmus” tanto per intenderci e gli sbocchi che questa esperienza consente: a me pare che si faccia un gran baccano sulla questione dei nostri laureati che non trovano lavoro e devono emigrare; non è questo il problema grave: ce ne fossero di ragazzi che fanno le loro prime esperienze di lavoro girando per il mondo, il problema è, invece, se riusciamo noi a far rimanere dopo la laurea qualcuno bravo a fare ricerca, delle migliaia di studenti stranieri che in questo momento stanno studiando in Italia;

c– La questione della formazione e dell’orientamento al lavoro; stando alle ultime statistiche, mentre soffriamo per l’alto numero di disoccupati, abbiamo ampie categorie che offrono occupazione e che non sono soddisfatte per insufficiente capacità del settore della “formazione e orientamento al lavoro” di dare un sostegno adeguato; insomma, la vecchia formazione professionale non funziona più? È fortemente differenziata regione per regione? Esiste una possibilità di confronto europeo?

   LA QUALITÀ DEL LAVORO E LE DIFESE SOCIALI sono un tema che non ebbe patria comune al momento in cui gli europei cominciarono a guardarsi in faccia; ricordo i tentativi di far decollare (fine anni ’60) un sindacalismo europeo subito dopo l’ “autunno caldo”: naufragarono miseramente per l’assoluta incapacità di una visione strategica in tal senso; per fare un esempio, ricordo che nella CGIL di allora molti comunisti erano ancora a guardare la colomba della pace, figuriamoci a lavorare con i tedeschi di Bonn!

   Per non parlare di Coldiretti che non aveva nessuna idea di collaborazione con i compagni francesi, peraltro completamente impregnati di visione localistica; pensate un po’ se Di Vittorio avesse ridotto la questione bracciantile alla sola difesa dei pugliesi: ma la sua capacità di rendere la questione un interesse dell’intera Italia, cinquant’anni dopo non la si ebbe nel traslare all’Europa dal locale al globale e oggi tanto meno, quando la questione del lavoro sta diventando mondiale: non penso certo a un sindacato a quella scala, ma bastano le sceneggiate come le conferenze ONU in materia?

2 – La seconda questione, che l’esperienza di Ernesto e Italo ha anticipato, riguarda la relazione tra cultura e politica.  Qui credo che il percorso che Luca e Giorgio hanno intrapreso nel mondo dei filosofi sia di guida.     Io aggiungo una sollecitazione a PENSARE L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL GRUPPO: non si tratta di “diventare importanti” o “di contare” nel mondo degli intellettuali, ma della necessità di porsi a livello di competenza e di confrontabilità, fondati su conoscenza diretta e scambio reciproci, con chi oggi ha perfettamente capito che i livelli di discussione, di decisione e di azione, che hanno importanza strategica, richiedono relazione diretta e scambio interpersonale a scala confrontabile.       Ma in fondo, non è sempre stato così?     E tuttavia, sembra così difficile SUPERARE BARRIERE LINGUISTICHE, DI ESTRANEITÀ TRA VICINI e quant’altro rende fuori scala e inconfrontabili con un mondo globalizzato e di cui Amazon è bandiera, mentre cultura soffre le barriere linguistiche e politica è solo difesa di interessi nazionali.

   QUI SI PONE UNA FRATTURA CHE VA SUPERATA.

   C’è un mondo vitale, fortunatamente attivo, capace di continuare a manifestarsi in percorsi individuali, che spesso si incrociano e confrontano, che costituiscono il tessuto vivo della cultura, in qualche modo capace di confrontarsi in uno scambio che supera limiti geografici e ideologici.

   Manca però un livello organizzato che renda stabile, estesamente noto e accessibile il patrimonio di idee che si accumulano nel tempo, spesso quindi riconosciute solo a posteriori (la tipica “riscoperta” di cui soffre buona parte del quante “fondazioni” e “istituti” nati per essere testimonianza attiva di vicende cariche di novità, diventano mausolei celebrativi di “eroi del passato” trasformati in mummie da museo!

   Riducendo la riflessione a una formula, dirò che la cultura ignora quanto potrebbe esprimersi politicamente per rendersi successivamente utile, cioè per esprimere anche una valenza economica, senza cadere nell’equivoco patrimonio culturale, che diventa risorsa d’archivio, perdendo la potenzialità di essere lievito attivo in vita):

– di ritenere che il primo passaggio significhi entrare nell’area dove le idee sono strumentalizzate nei rapporti di forza e utilizzate solo se vendibili come bene consumabile.

3 – La terza e ultima questione che mi sollecita si pone là dove un pensiero che, già alcuni anni orsono, Ernesto e Italo ponevano a livello mondiale, per essere in grado di agire quotidianamente nell’ambito locale, conduce alla questione della relazione che ciascuno deve essere in grado di stabilire tra le proprie finalità e il proprio agire, attraverso la considerazione e la giusta valutazione delle condizioni storiche in cui si vive.

   Questo passaggio pone DUE QUESTIONI su cui sarà utile riflettere e lavorare: la considerazione e la valutazione di quello che da tempo abbiamo definito “IL NODO STORICO” e l’UTILITÀ/NECESSITÀ/CAPACITÀ di ciascuno e di tutti DI DISPORRE DI UN PROPRIO PROGETTO (o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare) di come vediamo e vorremmo migliorare quanto ci sta intorno (per non apparire megalomane non uso la parola “mondo”, ma quella è la dimensione in cui viviamo) e avviare il lavoro di comunicazione, scambio e integrazione.

Vogliamo provarci? (MARIO FADDA)

Stati nazionali, UE e Coronavirus

L’epidemia di Coronavirus che sta colpendo l’Italia e l’Europa ha creato un contesto che il giurista e filosofo Carl Schmitt definiva stato d’eccezione, ovvero una situazione estrema per cui vengono allo scoperto le istituzioni e le strutture politiche che realmente hanno potere di agire e, di converso, quelle che non sono in grado di operare efficacemente appaiono nella loro inanità.

L’azione del governo italiano c’è stata. Certo alcune misure potevano essere prese prima, potevano essere più drastiche ed incisive… ma l’effettiva pregnanza delle decisioni si misura sempre dopo, quando le cose sono già avvenute. E se l’Italia, almeno nel contesto europeo, ha iniziato questa battaglia per prima, dovendo affrontare delle situazioni del tutto nuove, gli altri stati europei, nei quali il contagio virulento sta arrivando solo ora, non sembrano aver tratto del tutto la lezione necessaria, o meglio, per far digerire all’opinione pubblica misure draconiane occorre che la situazione sia drammatica in tutta la sua evidenza. E’ il problema peculiare delle istituzioni democratiche: hanno vitale bisogno del consenso ed è difficile proporre un programma di lacrime e sangue senza perdere il consenso (diversamente dall’esempio cinese che, prima ha nascosto il problema – impossibile se ci fosse una stampa e un’informazione libera – e poi, compreso il pericolo, ha risposto manu militari).
A guardare le cose da un (minimo) lato positivo il fatto che il problema sia planetario e quindi anche europeo potrebbe spingere a scelte europee condivise (occorre sempre essere ottimisti!).

Cosa ci insegna l’epidemia di Coronavirus?
Ci sta dicendo che:
Una struttura statale che funziona è indispensabile
a) In questo contesto in modo particolare la sanità e tutti i servizi necessari per gestire le situazioni di emergenza (amministrazioni locali, polizia, protezione civile…) sono strategici.
b) E’ importante che la sanità sia prevalentemente pubblica e universale (ovvero prestazioni gratuite al meglio delle possibilità per tutti  (sarà interessante vedere cosa accadrà in realtà – penso agli USA – dove una parte consistente della popolazione non è tutelata da punto di vista sanitario), per cui si possa affrontare al meglio la gestione della malattia avendo l’obiettivo di salvare tutte le vite possibili e ad ogni costo (anche economico).
c) E ciò è conseguenza della mission degli organismi statali e amministrativi: preservare e migliorare, se possibile, le condizioni di vita (il benessere) dei propri cittadini.

L’epidemia è ora diventata una pandemia e il virus, a dispetto delle frontiere, mi muove con grande velocità. Nel ‘300, quando scoppiò la peste nera il primo approdo in Europa fu a fine 1347 sulle coste della Sicilia, nel 1348 aveva colpito l’intera penisola italiana e negli anni successivi salì verso nord. Tra 1349 e 1350 stava uccidendo gli abitanti della penisola scandivava. Oggi tutto questo sta accadendo in tempi molto più ridotti.

In uno stato d’eccezione occorre dare risposte eccezionali da chi queste risposte le può dare, altrimenti, se ciò non è possibile, occorre inventare strumenti nuovi. Diciamo che le risposte dello stato nazionale le abbiamo sotto gli occhi e le stiamo vivendo, chi chiusi nelle nostre case, chi a operare nei settori indispensabili. Sorge quindi la domanda – tutte le prime pagine dei giornali di questi giorni lo fanno – cosa fa e farà la UE?
Ovviamente, per non fare i soliti discorsi semplicistici, occorre anche chiederci preventivamente: che competenze ha oggi la UE?
In campo sanitario poche credo. Si tratta di materia propria ed esclusiva degli stati nazionali (ma non sono esperto sulla questione). Certo qualcosa si potrebbe inventare, anche utilizzando esperienze di un altrettanto drammatico passato. Per evitare la concorrenza e le chiusure sulla produzione e il commercio dei presidi medico sanitari (non solo mascherine, ma tutto quello che serve alla sanità per rispondere all’emergenza) servirezze un “alto commissario” che provvedesse alla programmazione di produzione e gestione e commercializzazione di questi strumenti necessari. E’ stato fatto da Jean Monet durante la Prima e Seconda guerra mondiale con la produzione degli armamenti; è stato fatto negli anni ’50 con la gestione del carbone e dell’acciaio con la CECA. In tutti e tre i casi hanno avuto successo. Si tratta, insomma, di creare una competenza nuova, che magari poi divenga stabile e che possa rispondere anche ad altre emergenze, non necessariamente ed esclusivamente sanitarie.

C’è poi la questione della spesa pubblica, su cui si è incentrato il dibattito pubblico in questi giorni. Dopo qualche incertezza – vien da pensare che i burocrati abbiano ragionato così: inutile fare qualcosa, tanto è un problema limitato e italiano – e qualche uscita improvvida – ovviamente frutto anche questo di un atteggiamento tipicamente miope e burocratico -, sta passando l’idea che le regole di austerità sui deficit statali saranno sospese. E’ già qualcosa, ma non è molto. Siamo ancora nell’ambito della gestione dell’esistente, di strumenti vecchi, le botti vecchie che non possono reggere il vino nuovo.
Ma la presidente Von der Leyen ha promesso anche interventi concreti. Tuttavia, visti i limiti oggettivi di bilancio della UE, si potrebbe trattare di qualche spostamento di somme da una voce di bilancio ad un’altra. Anche i 120 miliardi promessi rischiano di essere insufficienti per affrontare il problema sanitario ed economico. Considerato che l’ipotesi di rafforzare il bilancio europeo attraverso l’aumento delle contribuzioni nazionali è impraticabile (lo era prima del contagio e lo sarà ancor di più durante e dopo gli effetti del contagio con gli stati nazionali intenti a leccarsi le ferite), occorre riproporre alcune soluzioni già prospettate nel passato:
– Aumentare il bilancio europeo attraverso una tassazione virtuosa europea (carbon tax, tassazione sulle intermediazioni finanziarie ad es.).
– Pensare di costituire un debito europeo col quale finanziare l’emergenza, ma poi, superata questa fase, mantenerlo per finanziare lo sviluppo (ovviamente equo e sostenibile). Come tutti i favorevoli sarebbe un debito a bassissimo costo finanziario.
Il vantaggio di una spesa “europea” ha anche l’effetto positivo, rispetto alle pratiche nazionali, essere coordinata e condivisa. Abbiamo visto tutti come gli interventi degli stati per rispondere alla crisi del 2007-2008 siano stati spesso inutili e inefficaci proprio perché non coordinati e spesso in contraddizione tra di loro.
L’ipotesi di creare un debito europeo ha una duplice valenza. La prima, subito evidente, avere fondi da investire a livello europeo. Tuttavia, se ragioniamo da europeisti, un debito europeo può essere un ulteriore elemento di coesione. Infatti, potrebbe:

– Ridare fiato ad un’idea di mission della UE, da tempo perduta o, per lo meno, fortemente appannata a causa di una gestione burocratica e miope del presente. Far intendere cioè ai cittadini che la UE serve e funziona, risolvendo problemi concreti. 

– Inoltre, più cose mettiamo in comune (ma che poi devono funzionare al meglio) e più può rafforzarsi l’idea che la UE è utile e necessaria anche in ambiti diversi. Per l’uomo della strada (espressione brutta ma efficace) è qui che si gioca il ruolo delle istituzioni: a cosa servono? Cosa producono?

– Far intendere ai cittadini europei che per vivere bene (e difenderci da) in un mondo globalizzato e tendenzialmente neoliberista occorre strutturare le società secondo appartenenze a comunità concentriche, da quella più piccola (locale) a quella più ampia (europea, passando per quella nazionale). Le prime ci difendono dalla prospettiva individualistica di una società senza legami, senza effettiva condivisione, in cui l’individuo è atomo che al più diventa indifferenziata e inconsapevole massa. Le seconde fanno fronte alle grandi forze internazionali: la finanza speculativa, gli stati imperiali, i terrorismi internazionali, le emergenze climatiche, ecc. (problemi a cui le comunità piccole non hanno alcun strumento efficace di risposta).

Vedremo cosa ci dirà il prossimo futuro (non anni ma settimane, al massimo mesi).
Annotazione: un problema planetario rimette in moto la storia come altre volte è accaduto. Ciò che sembrava immobile – e lo è stato per decenni – potrebbe riprendere a correre improvvisamente. Per questo bisogna essere pronti, con le scarpe giuste ai piedi. E le scarpe giuste sono anche costituite da una certa dose di ottimismo: muoviamoci nella prospettiva che il futuro – passata la buriana – ci offra il meglio, ben conoscendo la regola delle profezie autoavveranti, ovvero che se in tanti crediamo (e agiamo) in una certa prospettiva, questa si realizzerà con maggior probabilità.
Come spesso accade ci sono due prospettive di fondo in gioco:
1. Ritenere che le capacità (la forza, l’intelligenza, l’inventiva, la fantasia, meglio se si mettono assieme) delle persone possano, se non mutare, almeno indirizzare il corso degli eventi nella direzione di scelte efficaci e positive in un contesto dove libertà, diritti e giustizia (anche sociale) siano rafforzati e tutelati. Vorrei definirla una prospettiva comunitaria.
2. Ritenere che occorra gestire l’esistente nella prospettiva di una cittadella assediata, attendendo che i nemici, prima o dopo, tolgano gli attendamenti e si ritorni allo status quo precedente alla crisi e tutti torneranno ad essere felici. E’ la prospettiva liberista.
Ma purtroppo nessuna crisi passa invano. Anche se apparentemente salvi e vittoriosi gli assediati dovranno fare i conti con le fosse di difesa colmate, con le mura sbrecciate, con le torri rovinate, con le riserve di cibo esaurite, con i morti e i feriti.

Fuor di metafora: se realmente l’amministrazione britannica terrà fede alla prospettiva esplicitata in questi giorni, ovvero quella di lasciar contagiare i propri cittadini, con l’idea darwiniana che ciò migliorerà la specie (probabilmente vero in termini puramente biologici), forse poi più di qualcuno, se i costi umani saranno molto alti, chiederà conto di ciò, ponendo la questione fondamentale: perché vivere e accettare una struttura politica e amministrativa che non ha fatto il possibile per difendermi. Purtroppo Johnson sembra aver dimenticato l’antica lezione hobbesiana che certo non era un “democratico” ma intendeva bene la natura del potere: lo stato si giustifica unicamente dal fatto che serve a difendere – nei limiti del possibile – la vita dei propri cittadini. Se viene meno ciò le istituzioni vedono scomparire la loro qualità politica (ovvero di inerire alla polis come spazio sociale, culturale, giuridico, valoriale) e si trasformano in un semplice organo di gestione, utile finché serve, ma incapace di creare una vera comunità di destino.

14 marzo 2020
Gianpier Nicoletti

Il LAVORO come rinascita da un declino culturale, economico, politico – Il lavoro non basato sulle risorse da sfruttare, ma come capacità di valorizzare qualità personali e comuni: di come toglierlo dalle mani di chi vuol continuare a farlo merce. (di MARIO FADDA)

   Partiamo dalla consapevolezza che noi italiani siamo depositari di una ricchezza straordinaria e unica.

   Potremmo essere superbi ed esibirla come vanto, ma sarebbe da cretini (ahimè, questi non mancano, ma lavoriamo anche per questo!) se pensassimo di usarla solo per “sfruttarla”.

   Mi pare che si cominci a intravvedere un percorso diverso, che è invece di valorizzazione interculturale e sovranazionale; non sono così addentro alle vicende dei nostri “beni culturali” ma alcuni segnali (l’internazionalizzazione del circuito dei direttori di musei, gli scambi – faticosi ma ormai avviati – tra musei di tanti paesi: vedi Robinson di questa settimana che parla dell’esposizione di Raffaello a Roma) sembrano avere avviato una rete di relazioni mondiale che potrebbe agire profeticamente rispetto ad altri aspetti più   generali: culturali, politici ed economici.

   Una bella strada in salita, ma – come tutte le strade di quel tipo – premiata in vetta dalla vastità dell’orizzonte.

   Qui si pone una scelta che potrebbe sembrare (solo) politica, intendendo la politica in maniera vecchia, cioè solo come esercizio dei rapporti di forza; invece è una scelta etica e culturale: solo così potrà essere anche correttamente nuovamente politica.

   Etica: noi dobbiamo sempre ricordare che il nostro patrimonio artistico monumentale, unico e da primato mondiale, affonda radici in una gigantesca rapina operata nei tre secoli imperiali romani in quello che per mille anni fu considerato “il mondo”: l’Eurasia, dalla Scozia, dal Sahara, all’Himalaya con il Mediterraneo come baricentro; qui non si tratta di battersi il petto da pentiti, perché sappiamo anche che su quel patrimonio abbiamo saputo sviluppare un pensiero creativo che ha fatto “Rinascere” la speranza di un mondo e una cultura che è stata lievito per un salto di qualità di tutta l’umanità.

   Consapevolezza etica, invece, che ci può guidare nell’assumere ruolo non di comando, ma di iniziativa continua capace di orientare nuove prospettive culturali globali.

   Spero che le statistiche di conferma che siamo sulla strada giusta non si limitino a indicare il numero di soggiorni registrati negli alberghi (sacrosanti, ma non basta!) e invece ci dicano quanti studenti, studiosi, scienziati vengano a lavorare in Italia, trovandosi mezzi e strategie integrate di permanenza e di scambio.

   In questo panorama riequilibrato, che rifugge le solite corse al primato (prima l’economia! no, prima la politica! con i filosofi che si defilano e intanto si fanno i loro piccoli ricoveri con rendite ben difese!) il lavoro si ricolloca non sulla base dell’individuazione di un nuovo filone di risorse da sfruttare, ma come capacità di valorizzare qualità personali e comuni.

   Questo comporta una revisione radicale della concezione illuminista, laburista, tradeunionista del lavoro, che san Benedetto aveva proposto come espressione di libertà per l’uomo, sottraendolo all’arcaica visione di attività da schiavi, ma che il successivo mercantilismo (eccoci di nuovo alla guida, noi italiani dei liberi comuni medievali, questa volta guida verso l’involuzione etica e culturale, abbagliati dai successi economici) ha reso merce: utile per contrattare forme di sopravvivenza o benessere – a seconda della capacità personale di autovalorizzazione – ma riducendolo da espressione di cultura e creatività a “obbligo” da castigo divino: “ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte!”

   Ma qui bisogna ragionare su quanto i cristiani hanno mollato, accettando nel “Genesi” la visione “creazionista” della Torà, con serpenti, frutta proibita, donna cretina e tentatrice e uomo babbeo e ben felice di essere tentato.

   Il lavoro, espressione creativa e libera della persona.

   Il lavoro che usa e produce risorse in un processo continuo di riutilizzo globale.

   Il lavoro che produce la trasformazione, cioè la “ricostruzione continua” dell’habitat umano nel rispetto degli equilibri complessivi. Sul lavoro, però, mi fermo, perché bisogna lavorarci molto.

   Aggiungo solo una cosa, riguardo le “industrie portanti”.

   Io sono genovese e ho vissuto la distruzione dell’industria di stato come demolizione di un impianto globale: altro che Italisder (peraltro sopravvissuta per due decenni nel tira e molla pubblico/privato).

   L’idea portante (l’economia affidata alla creatività e al coraggio dell’imprenditore, i settori pubblici a sostegno dei settori più rischiosi, o più nuovi, o meno valutati….in mano pubblica) è stata distrutta.

   Chi si perde dietro a Brexit, non ricorda che quel Paese ha già compiuto il primo scivolone liquidando un suo grande figlio, che emigrò in America per trovare ascolto: e comunque lo trovo solo parziale, fin che al potere politico servì per guadagnare consensi; ma qui non sto a riprendere la tiritera su Keynes, dal primo al secondo Roosevelt, dalla Tennessee Valley a Bretton Woods.

   Dico solo che il passaggio dalle Partecipazioni Statali (idea keynesiana) a uno Stato che si garantisce la cassa con alcune aziende floride e strategiche (Eni, Enel e poche altre, ben legate alla Cassa depositi e prestiti appunto!) ha prospettiva limitata.

   Peraltro, la storia dell’IRI ce la ricordiamo tutti, malridotta a luogo di carrieristi e tangentisti: non mi sono mai piaciute le generalizzazioni, ma l’incapacità – per dire disonestà – con cui l’ambiente delle Partecipazioni diventò luogo di azzuffacarriere è noto a tutti.

   La questione di fondo resta comunque strutturale: come togliere il lavoro dalle mani di chi vuol continuare a farlo merce. (MARIO FADDA)