IL PREZZO DEL CONSENSO (potere e follower) – di Antonio Polito, da “il Corriere della Sera” del 24/12/2023

   Giorgia Meloni: 7,3 milioni di voti. Chiara Ferragni: 29,6 milioni di follower. Elon Musk: 225 milioni di utenti giornalieri su X. Questi tre personaggi si sono intrecciati nel dibattito pubblico italiano nell’ultima settimana, diventandone i protagonisti. Ma sono commensurabili tra di loro? E se non lo sono, secondo un’antica separazione delle sfere di influenza che sanciva il primato della politica, perché la premier di un grande Paese occidentale invita Musk alla festa di partito, e poi polemizza con il pandoro della Ferragni, e poi il marito della Ferragni le risponde attaccando la ministra Santanchè e il governatore Fontana, eccetera eccetera? Che cosa sta accadendo di nuovo in quella che Habermas chiamava la «Sfera pubblica», che non c’entra niente con «Sfera Ebbasta» ma è quell’ambito in cui nelle moderne democrazie si incontrano società civile e sistema politico?

   Sta succedendo che l’ormai antico processo di erosione e crisi della democrazia rappresentativa classica, in cui i parlamenti svolgevano la funzione del dibattito democratico informato e ponderato, è stato accelerato dall’esplosione del web e dei social. Questa ha moltiplicato i poteri per così dire «non responsabili» democraticamente. Che cioè non sono soggetti a scadenze fisse al giudizio dell’elettorato, ma ciò nonostante influiscono o addirittura condizionano la decisione pubblica.

   Gli influencer, lo dice la parola stessa, sono la punta dell’iceberg, quella che si vede di più. Talvolta implicitamente, creando una cultura. Come il rapper che si fa appropriatamente chiamare Baby Gang, e che di recente è stato condannato a 5 anni e due mesi di carcere. Talaltra esplicitamente, come nel caso di Fedez, tentando cioè di orientare il consenso politico, dal palco di un festival canoro o sindacale.

   Ma ci sono anche poteri per così dire più «nobili» che funzionano nello stesso modo. Per esempio le Ong, organizzazioni non governative che spesso usufruiscono di finanziamenti pubblici (come in Germania), oppure forniscono un servizio pubblico (come in Italia), e perciò si impongono all’ascolto del pubblico; è il caso della «Mediterranea» di Luca Casarini che, contestando la politica del governo italiano sui migranti ha ottenuto anche il sostegno pubblico del Pontefice.

   E poi naturalmente – per fortuna, aggiungerei – ci sono i media, anche quelli più tradizionali come i giornali. Si deve infatti a una giornalista della vituperata carta stampata (Selvaggia Lucarelli su il Fatto) se un cospicuo numero di follower digitali ha compreso l’ambiguità della beneficenza che sostiene il metodo-Ferragni, provocando un intervento con sanzione e multa dell’Antitrust.

   Però questo nuovo scambio di influenze funziona in entrambe le direzioni. Nel senso che anche i poteri «democraticamente responsabili», come i rappresentanti eletti che devono sottoporsi al giudizio quasi quotidiano dei sondaggi e a quello frequente delle urne, tendono sempre più a funzionare secondo le regole del web.

   Durante il dominio della televisione come mezzo di comunicazione di massa, la «democrazia del pubblico» si esplicava giudicando l’offerta politica in un’unica grande arena collettiva. Berlusconi andava in tv, e prometteva qualcosa. Gli elettori giudicavano se credergli o no, e si comportavano di conseguenza. Il potere di influenza del mezzo era grande, ma grande era anche il rischio che comportava (in fin dei conti il Cavaliere ha perso due volte le elezioni, e in entrambi i casi controllava sia la tv pubblica sia quella privata).

   Oggi invece il grande stadio virtuale in cui si radunavano gli elettori per assistere al duello elettorale (il primo caso del genere fu il dibattito Kennedy-Nixon del 1960) non c’è più. L’area pubblica si è frammentata in una miriade di bolle mediatiche sul web, insiemi e sottoinsiemi di follower che si intersecano tra di loro; facendo sì, per esempio, che un elettore di Giorgia Meloni sia anche un follower di Chiara Ferragni e magari segua anche un account no vax o no euro, e così via dicendo. I politici dunque sono soggetti alle stesse regole degli influencer. Anche loro possono essere chiamati a rispondere, se non penalmente di sicuro politicamente, all’accusa di «pubblicità ingannevole»; che, non a caso, è ormai la più frequente negli scambi polemici e negli appelli ai gran giurì. Si è chiamati a giustificare non la bontà di una scelta, ma la sua coerenza con la propaganda precedente. Un bel guaio in un Paese in cui più si sparano grosse dall’opposizione e più rapidamente si va al governo.

   A prima vista questa novità può apparire come un’espansione della «glasnost», della trasparenza democratica: anche chi gestisce la cosa pubblica deve render conto ogni giorno, anzi ogni ora, esposto com’è nella casa di vetro del web. Ma in realtà introduce un cambiamento dalle conseguenze oggi non calcolabili: a guidare il processo politico non è infatti più l’offerta, ma la domanda. Chi si candida a rappresentare gli elettori non offre più le sue soluzioni al loro giudizio, ma ne assume le richieste come prezzo del consenso. È qualcosa che si avvicina molto al «mandato imperativo» che i Cinquestelle volevano introdurre riscrivendo la Costituzione, la quale invece lo esclude considerandolo un pericolo per la democrazia, come del resto in tutti i sistemi liberal-democratici.

   Se il totalitarismo di un tempo puntava a mobilitare il popolo, a farlo marciare, un nuovo «autoritarismo democratico» può preferire invece che il popolo non partecipi, e dunque coltiva con cura il disinteresse crescente e collettivo per la politica, perfino il suo disprezzo. Naturalmente i confini di questa post-democrazia sono estremamente labili. «Demos» e «populus», radici etimologiche dei termini «democrazia» e «populismo», significano in fin dei conti la stessa cosa in greco e latino. Eppure mi sembra chiaro che alcune rilevanti decisioni pubbliche come il rifiuto di ratificare un Trattato europeo già firmato, che ha accomunato non a caso pezzi di maggioranza e di opposizione, non siano il frutto di quel dibattito informato e ponderato in cui consisteva la democrazia rappresentativa, ma piuttosto di un’ansia da «pubblicità ingannevole» che la politica ha fatto propria, pur rimproverandola alle star del web. (ANTONIO POLITO)

Osservazioni, Obiezioni, Condivisioni, Confronto in merito al post di GRAZIA BARONI: “VIOLENZA È IL NON SAPER VIVERE LA LIBERTÀ”

da Paola Tonellato:

   Ho letto l’articolo di Grazia e condivido molte sue considerazioni, ma questa frase, nelle prime 5 righe, credo possa generare incomprensione.

“Pertanto è l’effetto della visione antropologica di fatto ancora attuale e universale, che ha come modello la logica della supremazia evidenziata nel rapporto di forza che caratterizza il mondo animale”.

   Certamente non è facile essere aggiornati sui cambiamenti di paradigma, parziali o totali che hanno attraversato le varie scienze in questi ultimi anni, diciamo dagli anni 50 del 900 in poi. Non ci aiutano la scuola e i mezzi di informazione che ripropongono le vecchie visioni… ma in particolare la biologia o l’antropologia stessa o l’epigenetica, hanno fatto avanzamenti importanti, proprio nelle interazioni tra gli uomini con l’ambiente che abitano insieme ad animali e vegetali e soprattutto microorganismi.

   Siamo obbligati a conoscere gli sviluppi della tecnologia, in tutti i suoi aspetti, perché immediatamente impattano e condizionano il nostro vivere quotidiano…

   Per esempio, nel gruppo di Crespano, domenica scorsa, è emersa la necessità di conoscere il punto di vista dell’antropologia in alcuni suoi settori, come quella medica, che recentemente Andrea Mattarollo ha approfondito, perché ci aiuterebbe nelle nostre riflessioni e nelle parole che utilizziamo. Se Grazia intende l’antropologia “vecchia” quella legata al termine competizione, che ancora ammorba il nostro presente, allora capisco la sua frase, altrimenti non so.

   Invio due contributi per cercare di farmi capire un po’.

Paola

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(Prometeo porta il fuoco all’umanità, di Heinrich Friedrich Füger (1817) Prometeo è stato talvolta citato dagli antropologi in quanto simbolo mitico della coscienza e del pensiero dell’uomo sul mondo e su di sé – da Wikipedia)

Antropologia – Wikipedia

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da Andrea Mattarollo:

   Ciao Paola! Credo che Grazia intenda con “visione antropologica” la visione dell’uomo della nostra società, quella della sopraffazione e della superiorità dell’occidente. Come non condividere! Però credo anch’io con te Paola che dal mondo della “natura” arrivino invece messaggi diversi, di cooperazione… tra virgolette natura, perché l’ipotesi antropologica avanzata qui, e ben strutturata anche da continue esperienze (anche secolari, dei fondatori dell’antropologia) nel campo, è che non esista la natura, come fenomeno oggettivo indipendente dall’osservatore, ma semmai …le nature… proprie di ogni cultura, comunità, gruppo umano… ma è solo una mia sintesi questa: perché appunto il percorso fatto con il corso avanzato di Antropologia Medica (in podcast, tutti possono accedere, sono 60 ore) a me ha permesso di trasformare il mio sguardo. Questo corso è un percorso, non pillole predigerite da prendere all’occasione, anche se accessibilissimo a chiunque. Posso dire che mi sta aiutando a riposizionare anche il mio vissuto la mia visione del mondo in un momento in cui il mondo non mi pare più comprensibile e accattabile. Quindi un corso che è stato anche …una cura.

Andrea

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da Gianni Ferronato:

   Mi sento invitato a intervenire in questo scambio tra Grazia e Paola e tutti noi. Non mi sento d’accordo con le affermazioni di Grazia che la libertà è la natura dell’essere umano… o che ciascuno di noi esseri umani è libero.  Mi sembra una lettura del mondo figlia del modello illuministico-patriarcale, liberté, fraternité, egalité, dove la libertà è l’affermazione dell’io maschio-bianco-occidentale, la fraternità è l’esclusione delle donne, l’uguaglianza è la cancellazione delle differenze.  Io credo che la libertà sia possibile solo nel riconoscimento dei legami che ci tengono al mondo. In questo senso la libertà è una possibilità, è il processo dell’amore. Chi non arriva a questo riconoscimento è condannato a distruggere e a distruggersi. Forse è ciò che è successo a quel primo essere unicellulare che 2-3 miliardi di anni fa ha inghiottito un altro diverso e più piccolo essere unicellulare. Digerirlo? O conservarlo dentro di sé con le sue differenze perché vantaggioso per entrambi?

Gianni

VIOLENZA È IL NON SAPER VIVERE LA LIBERTÀ (di GRAZIA BARONI, 11/12/23)

   Parlare di femminicidi come effetto della visione maschilista nel rapporto uomo-donna non va alla radice del problema, è insufficiente e perpetua il modello di contrapposizione tra soggetti diversi.

   L’educazione, infatti, passa attraverso la donna, l’uomo, la scuola e la società, gli esseri umani, insomma. Pertanto, è l’effetto della visione antropologica, di fatto ancora attuale e universale, che ha come modello la logica della supremazia evidenziata nel rapporto di forze che caratterizza il mondo animale.

   Il recente caso di Giulia, ennesimo femminicidio che ha risvegliato le coscienze della stragrande maggioranza dei cittadini italiani, ha suscitando riflessioni sul rapporto uomo-donna, come se la sopraffazione dell’uno sull’altra fosse l’unico ostacolo da superare. Perché mai, allora, la recente sentenza che ha strappato un bambino dalle braccia degli unici genitori che avesse mai conosciuto per consegnarlo a quelle della madre biologica non ha suscitato altrettanta indignazione e incredulità? La violenza di questo atto non è forse altrettanto devastante? Non lascia anch’esso tracce indelebili?

   Questo discorso vale anche per i reati di pedofilia e di pornografia che suscitano al massimo una riprovazione morale, ma non l’indignazione adeguata a un comportamento che degrada l’essere umano alla dimensione bestiale, a spregio della sua dignità. Questi sono atti che mettono in luce l’assurda incongruenza che c’è fra la coscienza di sé, come sembra essere stata raggiunta dalla società tanto da essere espressa nella normativa dei Diritti Umani, e il linguaggio e i comportamenti che persistono e si rifanno a concezioni arcaiche legate a un concetto di dipendenza e di sopraffazione.

   La pedofilia, il femminicidio e il considerare un figlio come un diritto, funzionale al legittimare l’essere donna di una persona, hanno in comune un equivoco di fondo: quello di poter concepire l’altro come oggetto riducibile a proprietà. Tale equivoco è la conseguenza del non aver ancora riconosciuto ciò che distingue l’essere umano da qualsiasi altro essere vivente: il fatto che la libertà sia la sua natura.

   Cosa significa essere liberi? Gli esseri umani si sono evoluti nella ricerca di liberarsi da tutti i vincoli esterni: dai bisogni primari per la sopravvivenza, ai rapporti di forze, tanto che abbiamo inventato la democrazia, che è l’unica forma di organizzazione sociale che garantisce la pace, cioè lo spazio che permette di sperimentare la personale libertà.

   Considerando l’umanità, è solo una sparuta minoranza quella che ha raggiunto questo metodo organizzativo e questa qualità relazionale non ancora consolidata pienamente, tanto è vero che è sempre a rischio. La democrazia è un concetto che non si può conservare o difendere senza snaturarlo, perché come la libertà non accetta limiti ed è solo nella condivisione che può essere esercitata. Chi riduce la struttura democratica ad un semplice conteggio di maggioranza e minoranza riporta indietro il cammino evolutivo ritornando alla dimensione tribale, e si dimostra non adeguato all’evoluzione della civiltà. Chi non trova gli strumenti per condividere la democrazia la perde.

   Però adesso che non abbiamo più vincoli esterni, o che comunque sappiamo come potremmo superarli grazie alla conoscenza, alla democrazia e alla tecnologia, abbiamo comunque ancora la concezione della libertà come idea di indipendenza da qualcosa, non come qualità peculiare della natura umana. Soltanto se cominciamo a riflettere sul fatto che ciascuno di noi esseri umani è libero, riconosciamo che l’altro è come noi e quindi la relazione che dobbiamo costruire è di riconoscimento, di accoglienza e di rispetto della reciproca libertà. Per fare questo è necessario accogliere l’altro: se non lo si accoglie, l’altro diventa il proprio limite e, automaticamente, l’antagonista: infatti, la libertà non accetta limiti.

   Noi abbiamo chiamato amore l’unica forza, l’unica condizione o qualità relazionale che permette di esercitare la personale libertà nella libertà comune. Perché l’amore è quella qualità, quella scelta che consente di vedere l’altro per quello che è e che vuole essere. Perciò esercitare la violenza nei confronti di coloro che dovremmo amare non dipende da concetti sociali come il patriarcato, né da condizioni storiche, ma è ancora legato alla concezione ancestrale e arcaica della natura umana come violenta.

   Certo, vivere la personale libertà è difficile: richiede di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e così facendo si deve uscire dal presente e considerare il tempo dell’intera vita. Quindi responsabilità vuol dire avere coscienza del fatto che la tua vita, le tue azioni, non si esauriscono nell’attimo, ma durano e che le scelte esercitate perdurano nei loro effetti durante il corso dell’esistenza.

   Non è semplice perché abbiamo da superare tanti modelli ben radicati nel passato, ma è necessario per uscire dalla logica del nemico, del conflitto, dalla condizione di “minorità” sia come singoli individui che come umanità. La difficoltà dell’esercizio della libertà la società l’ha intuita, tanto è vero che pone limiti alla responsabilità delle persone in base all’età: ci vuole un minimo di 18 anni per prendersi la responsabilità su sé stessi e sugli altri.

   Ma è urgente andare oltre: lo dimostra il fatto che le cronache sono piene di azioni irresponsabili nonostante il raggiungimento della maggiore età. Poiché esercitare la libertà è così difficile è necessario l’impegno congiunto di tutta la società: ci vuole l’educazione da parte di tutti. Bisogna crescere insieme su questo, in un apprendimento che è personale e comune. Il risolvere i rapporti interpersonali riguarda tutti; affrontare nella sua complessità questa nostra potenzialità è necessario per poter continuare la nostra civiltà e la nostra storia fino a vivere pienamente il valore dell’umanità che ci distingue. (GRAZIA BARONI)

LA MICCIA CHE BRUCIA IL MONDO, al voto in 76 Paesi (di Walter Veltroni, da “il Corriere della Sera” del 4/12/2023)

   Un ciclo di consultazioni elettorali può sconvolgere, nei prossimi dodici mesi, gli equilibri globali. Durante il 2024 andrà alle urne il 51% della popolazione globale, in Paesi che producono più della metà del Pil globale. Si terranno consultazioni in tutto il vecchio Continente per il Parlamento europeo e negli Usa per scegliere il nuovo presidente. Voteranno 76 Paesi, tra i quali India, Iran, Indonesia, Pakistan, Bangladesh, Messico e Russia. In poco più della metà di essi, secondo l’ Economist , si andrà a votare in un clima pienamente democratico, libero, pluralista. Altro che le speranze di un mondo finalmente libero del dopo 1989! Forse vale la pena di soffermarsi a guardare, senza presunzione di capacità predittoria, le macro tendenze che attraversano gli elettorati in questo crocevia degli anni venti.

   Prendiamo due situazioni apparentemente lontane e diverse. In Francia un gruppo di ragazzi, immigrati e francesi, assalta in un piccolo comune un luogo di ritrovo di ragazzi e uccide – a colpi di accetta, gridando «siamo qui per uccidere i bianchi» – Thomas, sedici anni. Per reazione, come racconta il nostro corrispondente dalla Francia Stefano Montefiori, ci sono manifestazioni e spedizioni punitive dell’estrema destra contro arabi e musulmani. Sabato sera, a Parigi, si registra un attacco di un islamico al grido di Allah Akbar, per uccidere, come al solito, un innocente cittadino: un tedesco nato nelle Filippine, quasi un simbolo del mondo globale.

   Il rischio, evidente, è di importare nel mondo globalizzato e interdipendente, nell’Europa multiculturale, la drammaticità del conflitto israelo-palestinese e le sue logiche di conflitto di civiltà.

   Negli Usa Donald Trump, incurante, come il suo elettorato, delle evasioni fiscali e degli attacchi violenti al Congresso, si presenta alle elezioni con un programma sul quale sarebbe sbagliato, di nuovo, alzare il sopracciglio in segno di scherno: militari nelle strade per garantire l’ordine e la sicurezza dei cittadini, richiesta di professione di ideali patriottici come condizione per l’insegnamento, e poi «la più grande opera di deportazione interna degli immigrati dai tempi di Eisenhower», divieto ai medici di prestare assistenza ai giovani transgender. «Ci ha detto cosa farà. È molto facile vedere i passi che farà… Una delle cose che vediamo accadere oggi è una sorta di sonnambulismo verso la dittatura negli Stati Uniti».

   Non sono parole di un liberal democratico, ma quelle alla Cbs di una repubblicana, Liz Cheney, espressione della tradizione repubblicana incarnata dai Bush e da suo padre, non propriamente degli estremisti di sinistra.

   Mi ha colpito, oltre al riferimento alla dittatura, inquietante per uno dei pochi Paesi che non l’ha mai conosciuta, quella espressione, usata da una parlamentare americana: «sonnambulismo». È la stessa, come ha ricordato ieri Antonio Polito, del rapporto del Censis il cui testo recita: «La società italiana sembra affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali dagli esiti funesti… Ma il sonnambulismo non è imputabile solo alle classi dirigenti: è un fenomeno diffuso nella maggioranza silenziosa degli italiani… Nell’ipertrofia emotiva in cui la società italiana si è inabissata, le argomentazioni ragionevoli possono essere capovolte da continue scosse emozionali. Tutto è emergenza: quindi, nessuna lo è veramente. Così trovano terreno fertile paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici, l’improbabile e il verosimile».

   A questo sonnambulismo si sono ribellate le donne del 25 novembre e i giovani dei movimenti che hanno suonato la sveglia sull’emergenza ambientale. Ma non basta.

   L’ipertrofia emotiva e il sonnambulismo sono infatti un mix che può generare effetti diabolici. Tutto è ridotto a semplificazioni paradossali, a dietrologie infernali, a radicalizzazioni estreme. Il «Senza se e senza ma» è diventata la formula perfetta dei nuovi integralismi e ha divorato la complessità e il dubbio, anime della libertà. È tutto veloce, unidimensionale, estremo e tende ad espellere l’idea dell’altro da sé – identità, religione, comportamento sessuale, idee politiche – concepito come minaccia, fastidio. La frenesia della società digitale non è salutare per la democrazia, finisce col reclamare forme e sedi di decisione veloci e semplificate. La paura genera comportamenti e preferenze che si esaltano nell’ascoltare oggi fantasiosi e irrealizzabili proclami demagogici e populisti, di destra e non solo.

  Lo abbiamo visto in Argentina, in Brasile e in tanti Paesi del Nord Europa o dell’Asia. Lo abbiamo conosciuto anche in Italia. Se queste pulsioni nazionaliste, integraliste, populiste dovessero segnare le decine di elezioni annunciate in metà del mondo sarebbe davvero una vittoria per chi, non nascostamente, ha in questi anni pianificato un mondo fatto di tecnologie e dominio. Ha scritto un filosofo: «Quando i cittadini interagiscono con bot che producono opinione e vengono manipolati, quando nei dibattiti politici intervengono attori la cui provenienza e le cui motivazioni restano del tutto oscure, la democrazia è in pericolo».

   E se la paura e l’ansia, sentimenti di questo tempo, agiranno in una prateria sprovvista di razionali speranze, di capacità di far valere la bellezza e l’utilità della democrazia come strumento per la sicurezza personale e sociale, per l’affermazione di un’idea alta di comunità come luogo di possibilità individuali e di vita armonica, l’esito rischia di avvalorare le previsioni più cupe sul destino della conquista più grande del Novecento, quella ottenuta vincendo, a caro prezzo, la Shoah e i Gulag. Sarà il nostro tempo quello di inedite forme, non novecentesche, di dominio assoluto, di dittatura, di nuova riduzione dei cittadini a sudditi sprovvisti di libertà reale?

   È un tema sul quale destra e sinistra, quelle democratiche, farebbero bene a interrogarsi. Prima che sia tardi. (WALTER VELTRONI)