IL POPOLO AFGHANO, solo e in balìa dei talebani – L’EUROPA saprà esprimere solidarietà e sostegno all’opposizione civile afghana?

   Passate le tragiche immagini degli occidentali che se ne vanno dall’Afghanistan ora in mano ai talebani (con le apocalittiche scene dell’aeroporto di Kabul e delle madri che “lanciano”, letteralmente, i loro figli ai militari americani per salvarli da un “non futuro” talebano), è da capire cosa accadrà alla popolazione (alle donne in particolare, alle minoranze etniche…) in balìa di un potere afghano che basa la gestione dello Stato in un integralismo islamico tradizionalista, antimoderno e oppressivo.

   Se molto dipenderà dalla CINA e dai suoi interessati finanziamenti per sostenere il fragile bilancio dello stato afghano (ma anche dello sblocco dei finanziamenti USA); e se dipenderà anche da altre potenze che lì potrebbero trovare un loro spazio geopolitico (tra tutte l’IRAN e la TURCHIA, forse meno la RUSSIA, memore l’occupazione e la guerra dell’Unione Sovietica contro i mujaheddin tra il 1979 e il 1989 in quel territorio), la vera opposizione all’improbabile integralismo talebano (i tempi sono cambiati rispetto agli anni ’90!) non può che venire dall’interno del paese, dalla popolazione tutta e da organizzazioni di tipo islamico-militare, che adesso in occidente vengono identificate come l’Alleanza del nord.

   Quest’ultima opposizione al regime ora insediatosi, l’Alleanza del nord, ha anche in questa fase lanciato ai talebani una (saggia, a nostro avviso) sfida nonviolenta di compartecipazione al governo (a parere di molti conoscitori dei talebani impossibile a durare, ammesso che si realizzi). Si tratta del cosiddetto “Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan” un’organizzazione politico-militare fondata dallo Stato islamico dell’Afghanistan nel 1996. E che alle fine del 2001, grazie anche all’intervento statunitense, è riuscita a riconquistare gran parte dell’Afghanistan, sottraendolo ai talebani (e che poi decise di riconoscere il nuovo governo afghano, adesso ricaduto in mano ai talebani a causa dell’abbandono militare occidentale).

   Ora l’Alleanza del Nord sembra concretamente rappresentata nel PANJSHIR (provincia a nord-est di Kabul che, considerata una fortezza naturale per la conformazione del suo territorio, è stata in più occasioni il teatro della resistenza afghana) dalle forze guidate da AHMAD MASSOUD, figlio del famoso comandante AHMAD MASSOUD SHAH, oppositore prima ai sovietici negli anni Ottanta e poi agli stessi talebani (e ucciso da Al Qaeda nel 2001). Sono oltre tremila gli uomini pronti ad affrontare l’offensiva dei talebani. Pochi uomini e forse male armati, ma rappresentano l’inizio di una concreta opposizione militare interna al Paese (fatta dagli afghani), che andrebbe sostenuta.

   Ma in questi giorni ci sono state anche manifestazioni di civile protesta in alcune città dell’Afghanistan: nella festività dell’indipendenza dal controllo britannico (19 agosto 1919), in diverse città del Paese gruppi di persone hanno sfidato i talebani, protestando contro il loro ritorno al potere. Le manifestazioni sono state represse con violenza, causando vari morti. I gruppi hanno sfilato sventolando la bandiera nazionale, togliendo le bandiere dei talebani. Sono fenomeni, seppur ancora ridotti, di opposizione al nuovo regime integralista.

   E’ pertanto possibile (e auspicabile) che a vari livelli possano nascere forme di opposizione, militare, civile, di non collaborazione, nonviolenta, a un regime che, a nostro avviso farà più fatica rispetto a vent’anni fa ad imporre modi e metodi di vita di esclusione da ogni diritto delle donne, di massacro delle minoranze, di imposizione di leggi islamiche sopra ogni contesto di espressione dei diritti umani fondamentali.

   Questo è quello che speriamo; ma ci si rende conto che tutte queste forme di opposizione interna dovranno avere una pressione internazionale a loro favorevoli; che a sua volta bisognerà convincere il mondo ad isolare il potere talebano, ma non scordarsi di trovare modi e forme di appoggio alla popolazione oppressa. Che non è credibile e possibile che Cina, Iran, Turchia, Russia, anche se proveranno a tenere un corridoio aperto in Afghanistan, possano assecondare ed accettare il regime feudale talebano.

   E’ qui che nasce il possibile e indispensabile ruolo dell’Europa. In un indimenticabile slogan della metà degli anni ’90 di Alex Langer sulla allora martoriata città di Sarajevo (“l’Europa muore o rinasce a Sarajevo”), viene da auspicare l’impegno concreto, attivo e visibile dell’Europa in favore della popolazione afghana, con una frase di intento che potrebbe essere “L’EUROPA VIVE ed ESISTE se sarà al fianco del POPOLO AFGHANO”. (s.m.)  

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COMUNICATO MFE (Movimento Federalista Europeo) del 23/8/2021

LA TRAGEDIA DELL’AFGHANISTAN

– L’Europa deve usare l’occasione della Conferenza sul futuro dell’Europa per cambiare e potersi assumere le proprie responsabilità –
   Le notizie e le immagini scioccanti che arrivano dall’Afghanistan costituiscono un vulnus nella nostra coscienza di cittadini dei Paesi occidentali che non possiamo pensare di archiviare dopo averle ammantate di parole di orrore e di dichiarazioni di sostegno. Deve esserci chiaro che se non sapremo farci carico di questa tragedia organizzando una solidarietà effettiva sarà la nostra stessa dignità a morirne.

   Politicamente la ritirata dall’Afghanistan si è trasformata in una débacle da cui è difficile capire come riprendersi. L’elenco degli effetti di questa vittoria strepitosa dei Talebani – a cui Trump ha svenduto il Paese, senza che Biden rimettesse minimamente in dubbio la scelta e mentre gli Europei stavano a guardare – è lunghissimo, e i giornali di tutto il mondo ne stanno parlando diffusamente. Ne esce a brandelli la credibilità innanzitutto degli USA, ma in più ci sono il ritorno trionfale del radicalismo islamico e persino la possibilità che il terrorismo riconquisti gli spazi che aveva dovuto abbandonare, la perdita di influenza, innanzitutto per gli Americani, in tutta l’area mediorientale e asiatica, i vantaggi enormi di cui potranno godere Cina, Russia, e persino Turchia.

   Si tratta di un disastro totale, di fronte al quale suona offensivamente ridicolo l’affannarsi a discutere se bisogna parlare o no con i Talebani che intanto uccidono, picchiano, ricercano e catturano chiunque rappresenti un’alternativa al loro Medioevo. Ovviamene servirà l’amaro realismo degli sconfitti per tentare di capire come muoversi in questo scenario; ma forse sarebbe il caso di interrogarsi e valutare che prospettive ci si vuole dare, invece di farsi travolgere dal panico dell’impotenza e di puntare solo a tenere il più lontano possibile nel breve periodo le conseguenze dei propri errori.

   Non spetta a noi Europei farci carico del processo attraverso cui dovranno passare gli Stati Uniti per affrontare questo disastro. Come sottolinea Fukuyama, la loro drammatica divisione interna si riflette nella loro politica estera priva di vera bussola; ma a noi Europei spetta capire dove abbiamo mancato e cosa dobbiamo fare, ora, per non continuare ad essere testimoni delle stesse disumanità, incapaci di assumerci responsabilità all’altezza delle nostre possibilità.

   Per questo, se in questo momento è doveroso impegnarci per tamponare la situazione, prodigandoci per costruire un’alleanza internazionale che contenga il dilagare della violenza, che faccia tutto il possibile per salvaguardare le donne e un minimo della loro autonomia riacquisita, che cerchi di mettere in salvo le vite delle cittadine e dei cittadini afghani che hanno creduto nella democrazia e nella libertà e che ora rischiano di venire uccisi o schiacciati; al tempo stesso è indispensabile tracciare già la rotta per cambiare la situazione che mantiene l’UE in questo stato, colpevole, di debolezza che la rende spettatrice impotente di tragedie e orrori.

   Il monito giusto è giunto sabato all’apertura del Meeting di Rimini dal nostro Presidente della Repubblica: “C’è un io, un tu e un noi anche per l’Europa e per le sue responsabilità, contro ogni grettezza, contro mortificanti ottusità miste a ipocrisia – che si manifestano anche in questi giorni – che sono frutto di arroccamenti antistorici e, in realtà, autolesionisti. … Anche da qui nasce l’esigenza di potenziare la sovranità comunitaria che sola può integrare e rendere non illusorie le sovranità nazionali. La sovranità comunitaria è un atto di responsabilità verso i cittadini e di fronte a un mondo globale che ha bisogno della civiltà dell’Europa e del suo ruolo di cooperazione e di pace. … Lo consente la riflessione in atto sul futuro dell’Europa. La Conferenza in corso deve essere occasione di ampia visione storica e non di scialba ordinaria gestione del contingente”.

   Costruire una sovranità comunitaria è l’unico modo per diventare capaci di agire come Europei e smettere di lasciare il destino del mondo – e il nostro – nelle mani altrui. Ci sono cambiamenti precisi e puntuali che l’UE deve fare a questo proposito: attribuire nuove competenze e poteri reali alla Commissione europea, sotto il controllo del Parlamento europeo e del Consiglio, e modificare di conseguenza i meccanismi decisionali (abolendo il diritto di veto) e le modalità di elezione degli organi europei, perché abbiano maggiore legittimità democratica. Tra i poteri effettivi quello prioritario è quello fiscale, per potere contare su risorse proprie, totalmente indipendenti dagli Stati, con cui attuare le proprie politiche; e quello di agire direttamente almeno a livello macro nei campi di propria competenza.

   Tra le competenze serve immediatamente, oltre a quella macro-economica, quella sulla politica migratoria. Di fronte alla tragedia dell’Afghanistan stiamo parlando di dare asilo – peraltro si spera temporaneo – ad una classe borghese istruita, e di gestire, non nell’immediato, in modo coerente e degno di paesi civili, flussi di disperati in fuga da uno dei peggiori regimi possibili. Sentire rievocare i fantasmi del 2015, pensare di attrezzarsi con gli stessi stratagemmi, frutto della divisione e, a questo punto, dell’ignavia, è imboccare la strada della nostra perdizione morale. Questa volta c’è l’occasione e ci sono le condizioni per fare un salto politico a livello europeo, ed è solo una nostra responsabilità. 

   Le fughe di lato, come, spiace dirlo, è quella di Armin Laschet (che recentemente in un’intervista ha invocato un’“avanguardia” sulla politica estera e di sicurezza, intergovernativa, con la Polonia e i Paesi Baltici) suonano gravemente fuorvianti. Certo, in Europa si deve muovere un’avanguardia; e in politica estera e di sicurezza inizialmente sarà intergovernativa; ma dovrà essere il prodotto di un progetto politico condiviso dal gruppo di Paesi che vogliono costruire un’unione federale e che in questo quadro fissano i termini di uno stretto coordinamento in politica estera, in attesa di attribuire anche questa competenza alle istituzioni europee.

   L’Afghanistan ci costringe, come Europei, a fare un salto politico per assumerci le nostre responsabilità innanzitutto morali. Se falliremo, noi per primi non avremo un vero futuro.

Pavia, 23 agosto 2021

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IL MODELLO OLIVETTI nella CITTÀ PRODUTTIVA della post-pandemia: quali regole per modi non inquinanti, che curano la bellezza paesaggistica? e integrati a un nuovo modello di sviluppo umano?

   Mai come adesso si parla di rilancio, di ripresa delle attività produttive, anche in modo nuovo: con il Piano di ripresa e resilienza europeo e i suoi finanziamenti; ma non solo, anche il resto (predominante) delle attività produttive che non godranno di finanziamenti dovrà avere una spinta diversa.

   E allora ci si chiede in quale luogo produttivo, CITTA’ DELLO SVILUPPO DEL LAVORO, potrà avvenire tutto questo. Resterà tutto come prima? Magari fabbriche inquinanti in ambiente inquinato e brutto da vedere (un paesaggio sgradevole…)? Con “manodopera” solo strumento di produzione? (peraltro sempre più in misura ridotta, sostituita dai robot…)

   E’ su questa idea che anche nelle produzioni “nulla dev’essere come prima” (o “nulla dovrebbe essere” come prima…): pensando ad attività produttive non inquinanti; alla estrema sicurezza e tutela dei lavoratori;  a luoghi ameni e “meritevoli” dove vengano realizzati i prodotti; a territori agricoli con colture (i vigneti, l’ortofrutta…) solo biologici, e alla fine degli allevamenti intensivi; a imprese produttive anche “difficili” per l’ambiente (come le acciaierie, per esempio) che scommettano su un “inquinamento zero”.

   E’ così che si cercano modelli di CITTA’ INDUSTRIALE, produttiva, degni di essere ripresi, riconsiderati, magari con tecnologie e materiali ben diversi. Nasce allora un guardare ad alcuni esempi interessanti di “passato industriale” che si sono rivelati innovativi ed originali; e che si suppone essi esempi abbiano rappresentato una civiltà industriale più connotata e sicura di quella di adesso.

   E ci si accorge subito che non si può fare a meno del prioritario rapportarsi con il “fattore umano”: cioè che gli esempi più interessanti del mondo produttivo di cinquant’anni fa, di cento e più anni fa (ma anche che si ritrova per fortuna in qualche caso anche adesso) è in alcuni pur rari esempi di un rapporto il più “felice” possibile con chi lavora nell’azienda, nell’ “impresa”: considerando importante la famiglia del dipendente, i servizi che ci potevano essere (i quartieri operai, i servizi alla maternità, ai figli…come asili, scuole, colonie estive etc.). Esempi limitati, minoritari, nel passato, come peraltro ci sono anche adesso in alcune aziende; ma rilevanti nel loro significato di un lavoro che non sia solo “prestazione occupazionale”, con il lavoratore paragonato a un robot.

   Molti di questi esempi di capitalismo comunitario sono stati visti (a volte a ragione) come un metodo di controllo dei lavoratori, paternalista, per evitare tensioni sociali su pratiche di sfruttamento produttivo, e nulla di più….

   Ma cercando con fiducia gli aspetti positivi del rapporto del datore di lavoro con il dipendente, e volendo mettere insieme esperienze interessanti del più o meno recente passato, con il presente “post-pandemia” sul tema della nuova città produttiva e del rapporto tra capitale e lavoro, sull’onda e speranza che “nulla dev’essere come prima”, osserviamo con interesse l’esperienza del secolo scorso della FABBRICA OLIVETTI, in primis realizzata nella città di IVREA (ma con stabilimenti e una ridotta replica a Pozzuoli), esperienza che non a caso ha avuto il riconoscimento internazionale dell’UNESCO come sistema integrato di architettura industriale, sociale, umanitaria, in un tutt’uno armonioso e nuovo, appunto per la città industriale di Ivrea.

   L’esperienza della FABBRICA APERTA di Adriano Olivetti viene ora da più parti riproposta come esperienza riproducibile nella grande crisi di adesso: per creare un nuovo patto sociale (tra tutti i soggetti in campo, istituzioni, imprenditori, lavoratori, politici…), almeno all’interno dell’Unione Europea, che permetta davvero la nascita di un mondo nuovo costruito attorno a nuovi principi.

   L’originale progetto economico, sociale e culturale di Adriano Olivetti è la visione di un imprenditore illuminato, che ha dimostrato come “un’altra economia” sia possibile soprattutto per la dimensione umana, nella partecipazione alle attività di impresa.

   Un’esperienza, quella della città industriale Olivetti di Ivrea, che mostra tutto il suo fascino portandola al di fuori dell’archeologia industriale, per farne un patrimonio immateriale condiviso, l’enzima necessario di un possibile rinnovamento: la fabbrica che si contorna di biblioteche, centri sociali, che si interessa alla formazione dei dipendenti; che cerca di creare anche nella produzione un sistema integrato nella realizzazione del prodotto che non sia ripetitivo ma che comprenda tutte le fasi, provando ad assegnare compiti maggiormente qualificati a ciascun operaio …. Insomma non lasciando nulla a un rapporto deteriorato nell’attività lavorativa.

   Il modello Olivetti ha profondamente innovato l’idea stessa della fabbrica, dell’organizzazione aziendale e del modo di rapportarsi alla competizione globale: proponendo una continua ricerca del prodotto, dei prodotti (nell’elettronica in particolare); arrivando anche a progettare il primo computer “domestico” (il “Programma 101”, negli anni ’60 del secolo scorso, nel “post” periodo di Adriano) (superando le mega installazioni dei calcolatori elettronici governata da camici bianchi)….. e se l’Olivetti fosse stata adeguatamente supportata, attorno ad essa, nel distretto di Ivrea, avrebbe potuto svilupparsi come qualcosa di simile ad una Silicon Valley italiana (un’occasione perduta).

   Per dire che una fabbrica, un luogo di produzione, che vuole aprirsi anche alla cultura umanistica (le biblioteche…) al “sociale” delle famiglie dei lavoratori, non inficia la produttività: anzi, può benissimo essere motivo di ulteriore innovazione, creatività industriale… Il valore dei prodotti della Olivetti era strettamente legato all’innovazione apportata dagli stessi, innovazione derivante da un contesto di ricerca e di formazione di altissimo livello. Il team Olivetti era estremamente compatto, curioso, efficiente e si sentiva parte dell’azienda per cui lavorava.

   E su tutta la ricerca tecnologica, vi è appunto una attenzione decisamente maggiore alle condizioni di lavoro degli operai, sempre considerati esseri umani prima che fattori di produzione (la ricerca di sistemi alternativi alla catena di montaggio), con una corretta organizzazione del tempo di lavoro.

   La città industriale di Ivrea è stata riconosciuta Patrimonio dell’umanità e iscritta nella lista Unesco. Questo riconoscimento internazionale fa comprendere il valore simbolico dell’esperienza olivettiana, esperienza buona anche adesso che si parla tanto di SVILUPPO SOSTENIBILE. Quello che l’Unesco ha riconosciuto attraverso le architetture è, infatti, il modello sociale, politico e culturale espresso dall’azione imprenditoriale di Adriano Olivetti, di cui gli edifici industriali sono oggi una testimonianza tangibile.

   L’esperienza sorta nel secolo scorso a Ivrea, della fabbrica Olivetti (e il suo ideatore e propugnatore Adriano), in questa fase in cui si va a ripetere che anche nei nuovi modi di vivere e svolgere le attività economiche “nulla dev’essere come prima”, mostra come ci dev’essere un nuovo patto tra cittadini, imprese e governi per compiere quel necessario grande sforzo globale che riequilibri il rapporto dell’uomo con gli spazi che abita e che lo vede artefice del vissuto quotidiano, così da riconciliare i tempi di vita e di lavoro con quelli della natura. (s.m.)

La CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA in corso vuole rilanciare un continente unito e federalista, e la Next Generation Eu ha dato fiducia per riforme necessarie per una Ue vicina ai cittadini e capace di agire: come la difesa e il fisco europei, e la fine del diritto di veto

  La CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA (che è iniziata il 9 maggio 2021, giornata dell’Europa e anniversario della Dichiarazione Schuman, e si concluderà nella primavera del 2022) rappresenta l’occasione concreta per proseguire nel percorso già intrapreso con il piano NEXT GENERATION EU e rinsaldare nei cittadini europei il sentimento di appartenenza alla stessa comunità di destino. Questo almeno è l’obiettivo dichiarato.

   Parlando di cose assai concrete (i cambiamenti climatici, le questioni economiche e sociali e la trasformazione digitale, anche alla luce della pandemia che stiamo ancora vivendo) si vuole (ri)lanciare il ruolo politico dell’Europa, dell’Unione Europea, cercando di coinvolgere quella che viene chiamata la società civile: nel caso europeo in particolare associazioni culturali, sociali, sportive etc. ma anche amministrazioni locali, e il più possibile singoli cittadini.

   Riuscirà a far questo (la Conferenza)? È molto difficile, perché l’Europa ancora manca di un’unità culturale che però nei fatti esiste (dai progetti Erasmus degli studenti, ad adesso il NextGenerationEu, un piano di aiuti finanziari colossale a beneficio dei paesi più colpiti dalla pandemia come l’Italia, alla politica unitaria svolta in questi mesi sui vaccini….). Ma ancora esistono difficoltà assai evidenti per condividere informazioni e notizie rilevanti che ci sono “nell’Europa” (ad esempio le notizie dei telegiornali sono assai poco “europee” e molto “nazionali”…); e può capitare che un genitore che ha un figlio che studia o lavora a Berlino o Parigi, possa dire che ha il figlio che è “all’estero” (l’Europa è “Estero”?).

   Insomma la difficoltà a sentirsi sempre più europei e meno legati a fatti nazionalistici è ancora evidente. Ciò non toglie che geograficamente si possa (si debba) vivere con equilibrio, serenamente e coinvolti, le varie dimensioni territoriali della nostra vita quotidiana: e il sentirsi della propria città o paese di provenienza, della regione, della nazione, va al pari passo con il sentirsi “cittadini europei”.

   Su questo ci soccorre, ci aiuta, lo spirito federalista, dell’idea che ogni contesto e decisione va vissuta nella sua giusta dimensione, ed è positivo vivere certi episodi locali appartenenti al proprio luogo, e così a scalare e allargare la propria dimensione (regionale, nazionale, appunto europea…), fino ad arrivare a fatti globali che ci fanno sentire “cittadini del mondo”.

   Sul contesto di conquista sempre più sicura di una “cittadinanza europea” ci sono possibilità ed esempi che si possono realizzare nelle emergenze (come adesso è accaduto con la pandemia, i vaccini, l’aiuto finanziario ai paesi più colpiti…); ma potrebbe realizzarsi anche per episodi di altro tipo. Come, in politica, è stato proposto dal Movimento Federalista Europeo (MFE) la creazione di veri partiti e movimenti politici europei, e con vere campagne elettorali europee che prevedano una circoscrizione elettorale pan europea con liste transnazionali guidate dai candidati alla presidenza della Commissione europea.

   Ma, altro esempio riferito al momento storico attuale, pensiamo alle OLIMPIADI, e alla reale possibilità che si realizzasse la creazione di una SQUADRA SPORTIVA EUROPEA in tutte le discipline, che si confrontasse con altre potenze mondiali, o con aggregazioni di paesi che in questa occasione potrebbero anche loro accelerare un percorso di unità (pensiamo all’Unione Africana, un continente di 1 miliardo di persone che dovrebbe forse di più perseguire la propria autonomia dalle dipendenze esterne e sviluppare un benessere generale).

   Pertanto, tornando a “noi europei”, la Conferenza sul futuro dell’Europa che è in corso e che si concluderà con delle decisioni nella primavera del 2022, forse deve trovare nelle prossime settimane e mesi la “spinta giusta” per coinvolgere più soggetti possibili.

   La Conferenza è posta sotto l’egida del Parlamento europeo, del Consiglio e della presidente della Commissione europea, che svolgono le funzioni di presidenza congiunta. La presidenza è coadiuvata nei suoi lavori da un comitato esecutivo. Il successo della conferenza sarà misurato in funzione dell’ampiezza della partecipazione civica: vengono organizzati e promossi dibattiti locali, nazionali e transnazionali per garantire il massimo coinvolgimento. Ma effettivamente, finora, la stragrande maggioranza dei cittadini europei ignora che esista una iniziativa di questo tipo.

   Se riuscirà (la Conferenza) nel coinvolgimento (non solo di attenzione dei cittadini, di singole persone, ma con associazioni che partecipano, istituzioni di vario genere, scuole, comuni, regioni, gli stessi stati nazionali…), potrà portare fattivamente a chiedere una riforma dei trattati europei (come ad esempio le decisioni nel Consiglio d’Europa non più prese all’unanimità ma a maggioranza qualificata; unanimità che adesso blocca molte iniziative…), e potrà creare le istituzioni che i federalisti chiedono da tempo per combattere con efficacia le crisi e ridare all’Europa il posto (di pace e sviluppo) che le compete nel mondo. (s.m.)