UN’OCCIDENTE AL PLURALE (cosa sta succedendo? …in merito ad un libro di ANDREA GRAZIOSI: l’intervista all’autore da parte di UNA CITTÀ, rivista di Forlì)

da Una Città n° 293 / 2023, luglio 2023  (https://www.unacitta.it/ )
Intervista ad Andrea Graziosi
realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa

LE COSE AL PLURALE

Pensare all’Occidente al plurale, per capire il passato, ma soprattutto per “vedere” il mondo nuovo; l’istruttiva vicenda dei contadini francesi che smisero di fare figli; come “fare politica” in un contesto dove una parte importante della popolazione ha “tutto dietro e niente davanti”? La preoccupante ghettizzazione dei giovani maschi ignoranti; quale modello per riconoscere le differenze senza polarizzare la società? Intervista ad ANDREA GRAZIOSI.

Andrea Graziosi, professore di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, ha studiato e insegnato in università americane, russe ed europee. Il libro di cui si parla nell’intervista è Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo, il Mulino, 2023.

Partiamo dal titolo: perché “Occidenti” al plurale?
È la prima volta che batto il mio editore su un titolo. Quello che mi era stato proposto era “pensieri sulla fine di un’epoca”. Io però volevo insistere sulla necessità di “vedere” l’epoca in cui siamo. Per farlo mi ha aiutato moltissimo vedere le cose al plurale, che mi sembra ora una ovvietà. La storia è un processo in cui tutto cambia, per cui vedere il mondo al plurale vuol dire anche accettare la sfida di farne uno nuovo. Se quella di Occidente è una categoria intellettuale plurale, mi sembra di poter dire che la cosa che unifica i vari Occidenti sono i diversi modi in cui hanno cercato per lo meno di ragionare su libertà e dignità delle persone, certo anche in modo contraddittorio, ipocrita, però ci hanno provato…
L’Occidente in cui sono cresciuto io è apparso, di fatto, nel 1945, dall’unione fra Stati Uniti ed Europa occidentale, che erano sei paesi, di cui tre piccoli piccoli. Quell’Europa non c’è più: adesso nell’Unione europea siamo in 27 e forse l’Ucraina prenderà il posto dell’Inghilterra. Ma non basta: gli Stati Uniti che ho conosciuto io erano un paese fatto da europei, da hyphenated-americans, americani con il “trattino”, di origine europea. New York, la prima volta in cui ci ho vissuto, nel 1979, era piena di italo-americani, polacco-americani, ebreo-americani… non è più così, sono fatti naturali…
L’Occidente del cui tramonto Spengler parlava nel 1917 c’entra poco con quello del 1945. Allora, se voglio pensare a una categoria, non tanto geografica, ma globale, per cui l’Occidente è un posto dove si tende a difendere la libertà e la dignità, oggi me ne devo immaginare uno nuovo, perché l’America fatta di europei e l’Europa fatta di sei paesi non ci sono più e però ci sono altri paesi che bene o male sono interessati, come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, forse l’India e qualche paese africano.
Per concludere, pensare all’Occidente al plurale secondo me è interessante perché ti fa vedere che in fondo le cose semplicemente, naturalmente, si esauriscono, non c’è alcun complotto e, tuttavia, se ritieni che alcune delle cose che c’erano siano ancora valide, devi provare a preservarle o riconquistarle in un altro modo. È questa la scommessa.
A me è anche venuto naturale pensare a una pluralità delle modernità, forse perché studiavo l’Unione Sovietica. In fondo pure quella era una modernità: c’erano la scuola, l’urbanizzazione, le fabbriche, la luce elettrica; certo, era una realtà molto diversa dalla nostra, ma era indubbiamente una realtà moderna, quindi l’idea che ci potessero essere delle modernità diverse mi è sempre parsa evidente. Tanto più che anche la modernità occidentale era articolata, perché una cosa era quella europea continentale, un’altra era quella americana consumistica e un’altra ancora è quella di oggi. Quali sono i tratti della modernità nuova in cui viviamo oggi? È il boom dei consumi? Direi di no. Sono i giovani? No. Sono tante altre cose, probabilmente, tra cui anche il fatto che siamo vecchi.
Adesso si parla molto di crisi di natalità, com’è giusto. Però l’invecchiamento, secondo me, è altrettanto importante, anche per le sue conseguenze psicologiche, politiche. Cosa significa vivere in una società in cui i vecchi diventano così importanti?
Probabilmente stiamo attraversando una fase estrema. A parte il fatto che i figli sono pochi, non credo che a breve ci sarà un’altra fase storica in cui l’aspettativa di vita aumenta di venticinque anni in trentacinque anni… Se ci fermiamo a pensarci, è una cosa enorme, storicamente. Anche il crollo così alto delle nascite è legato a questo: noi ci siamo creduti tutti più o meno immortali, anche perché era abbastanza vero. Anche quei modi di dire “i sessanta sono i nuovi quaranta”, “i trenta sono i nuovi venti…”.
Io mi sono anche intellettualmente molto divertito a scrivere queste pagine, a provare, a cercare di vedere. Poi non so se il messaggio è chiaro, e ovviamente non ho sicurezze. Semplicemente mi sembra che, guardando in questo modo pluralizzante, storicizzante, sia più facile anche vedere cose nuove, cose importanti.
Una delle considerazioni che proponi è che la modernità che abbiamo conosciuto non è più sostenibile.
È stato Michele Salvati a cogliere e sottolineare questo punto. L’ha detto con grande nettezza. Io non so se sono così netto perché ci sono anche dei fattori aggravanti che potrebbero venir meno. Volendo ragionare sul socialismo e ricordando quanto diceva Lisa Foa, la domanda è: il socialismo, quello reale, che è esistito, è una società capace di sopravvivere? Riguardo l’Unione Sovietica, sembrava di no già negli anni Settanta. Perché non è vero che nessuno se ne aspettava il crollo. Com’era possibile che un sistema così assurdo, dove la gente viveva così male, potesse durare? Ciò non toglie che era più vitale di quanto si pensasse, tant’è che è durato sessanta-settant’anni.
Il nostro sistema economico, la nostra modernità, quella che si diceva capitalistica, è molto più vitale da un punto di vista economico e sociale. Se pensi al successo delle riforme di Deng Xiao Ping in Cina, quando ha liberato i contadini… del resto già Lenin con la Nep aveva fatto la stessa cosa, aveva detto ai contadini: arricchitevi. Il modello della libertà economica quando ci sono capacità imprenditoriali funziona, soprattutto se ci sono i contadini. Non ha insomma un limite economico, ma forse demografico.
Per riprendere quello che diceva Michele, il problema è che a un certo punto, se uno sta bene, pensa a sé e non agli altri. Il risultato è che si smette di fare figli. Il demografo Dalla Zuanna l’altro giorno mi diceva che in Sardegna il 40% delle donne non ha figli, il 40%!
Chiaro che queste sono tutte donne che giustamente hanno delle ambizioni, sono pure più scolarizzate dei maschi e a scuola vanno meglio di loro…
Una cosa di cui sono convinto è che comunque noi umani siamo persone intelligenti. Questa del non fare figli in fondo è una cosa recente, quindi non sono troppo pessimista. Siamo a ridosso di un’epoca che ha permesso cose prima impossibili. Non è escluso che con il tempo il nostro atteggiamento cambi. Io almeno la vedo così.
Dedichi molte pagine alla fine delle società contadine e in particolare ai contadini francesi. Perché è così importante?
La vicenda dei contadini francesi è istruttiva perché sono i primi a stare un po’ meglio e quindi a smettere di fare figli. Però, attenzione, anche quando la natalità cala, i contadini non scendono sotto i due, ma perché hanno una azienda familiare!
L’altro dato che ha gravato e che nessuno segnala chiaramente è che noi nel giro di trenta-quarant’anni siamo diventati tutti più ricchi e, più che la proletarizzazione, c’è stata la “dipendentizzazione”. In Africa i contadini hanno un’azienda, anche i più poveri, non sono lavoratori dipendenti. Se tu passi da una società in cui il 70-80% è fatto da lavoratori indipendenti che devono pensare al loro futuro, a una in cui ti illudi che tanto la pensione è garantita, beh, anche questa è un’aggravante. Noi abbiamo vissuto trenta-quarant’anni in cui è sembrato che non fosse importante fare figli, perché eravamo lavoratori dipendenti, perché si stava meglio, perché non si moriva… magari ora questa mentalità cambia, perché c’è l’intelligenza, la riflessione umana, insomma, non siamo condannati.
Le politiche per la natalità sono terreno scivoloso, specie in paesi che hanno conosciuto regimi illiberali…
Però le politiche per la natalità sono indispensabili. Certo sono molto difficili, perché se non cambia la testa della gente l’incentivo economico può poco. Detto questo, non c’è dubbio che i francesi, che sono stati i primi a farle, riescono a avere un tasso di fecondità intorno all’1,8 per donna fertile. 1,8 non è 2,2 (la soglia di riproduzione naturale) ma è molto meglio del nostro 1,3 ed è più del doppio dello 0,8 della Corea del Sud. Io penso quindi che bisogna fare queste politiche, sapendo che è molto difficile. Perché oggi lo sappiamo, se tu dai l’incentivo monetario, fanno i figli quelli che li volevano comunque fare nei tre anni successivi, quindi vai su e poi torni giù… In realtà dovresti fare una grande opera per stabilizzare, per aiutare, per dare dignità alla procreazione, per renderla importante…
Se però poi le donne, in assenza di servizi, continuano a dover scegliere tra figli e lavoro…
Devi fare i servizi… Devi togliere soldi ai vecchi e metterli su questo. È così, c’è poco da fare.
Tu enfatizzi una sostanziale “unità” della specie umana e dei suoi comportamenti, anche dal punto di vista demografico…
Il calo della natalità e l’aumento della speranza di vita è un fenomeno che interessa ormai tutto il mondo, che viene da lontano e su cui sono state date varie interpretazioni. Il primo paese a prendere coscienza del fenomeno e a intuirne le cause è stato la Francia, già a fine XIX secolo. Gli americani, gli anglosassoni l’hanno capito trenta-quarant’anni dopo. Pensavano che fosse un problema di poveri e di popoli -come lasciavano apertamente intendere- inferiori. L’Africa oggi è l’ultimo grande posto di sviluppo. Ogni politica che non guarda all’Africa è assurda, specie per l’Europa. Parlo dell’Africa nera; i paesi arabi sono anch’essi attraversati da una crisi, diversa ma altrettanto grave: dalla Libia fino al Libano, alla Siria all’Iraq, all’Afghanistan, non hanno lo Stato. C’è una crisi spaventosa della struttura statale.
Il punto è che in Africa si stanno manifestando le stesse nostre tendenze. Noi però abbiamo avuto il vantaggio del primo venuto. All’epoca del nostro boom, l’emigrazione bianca è potuta andare dove voleva. Gli ultimi venuti dovunque provino ad andare trovano le porte chiuse. Ma questa è una storia cominciata tanto tempo fa; in America avevano varato politiche contro i cinesi e i giapponesi e in Australia e anche in Canada c’erano le “white only policies”. Tanti muri erano poi crollati dopo la Seconda guerra mondiale, quindi per un po’ è stato possibile spostarsi. Oggi il boom africano è messo a confronto con un mondo che si è statizzato e tutti gli stati controllano le frontiere.
Gli africani pagano dunque il fatto di essere venuti per ultimi. D’altro canto sono loro il futuro, quindi da questo punto di vista hanno una posizione, se non privilegiata, comunque importante.
L’altra questione abbastanza trasversale è quella delle aspettative, che riguarda non solo i vecchi ma anche i giovani, con nuove emarginazioni e discriminazioni di fatto.
Ripeto, noi viviamo a ridosso di un periodo straordinario. I famosi Trenta gloriosi sono stati decenni di boom economico, di benessere crescente. Si può ben capire che pensassimo durasse per sempre e però dobbiamo renderci conto che è abbastanza una follia scegliere come standard di riferimento un miracolo, vi pare? Quella congiuntura eccezionale a un certo punto si è esaurita, io direi negli anni Settanta. I Trenta gloriosi finiscono con la fine di Bretton Woods, con la crisi del petrolio, con la fine dell’ultimo impero coloniale, l’indipendenza di Mozambico, Angola, con le riforme di Deng in Cina…
Ora, se c’è stato un miracolo, ci sono stati anche i miracolati, quelli della mia generazione sicuramente: più scarpe, più carne, più vacanze, più gite in macchina… è così.
Si capisce perché per un po’ molti hanno voluto credere a chi prometteva un nuovo miracolo. Berlusconi scende in campo promettendo il nuovo miracolo italiano; Veltroni, che a me è molto simpatico, ha fatto la campagna elettorale del 2008 (anno della crisi mondiale della finanza) all’insegna dell’ottimismo.
Il fatto è che, malgrado queste speranze e la tendenza a credere a queste promesse, a un certo punto ti rendi conto che non è più così. Lì però qualcuno ha comprensibilmente iniziato a pensare: quelli hanno vissuto con le aspettative crescenti e a me toccano quelle decrescenti.
Da questo punto di vista, l’Italia, più che un’aberrazione, mi sembra sempre più una specie di anticipazione del mondo. Gli anni Novanta italiani, con la crisi del sistema politico, la fine del miracolo, Berlusconi che ne promette uno nuovo, il suo “make Italy great again” e dall’altra parte i due milioni che vanno alla manifestazione di Cofferati dicendo: vogliamo rimanere alla pensione a 58 anni, ma se -grazie al miracolo- vivi fino a 84, come fai?! È un po’ una battuta però c’è del vero: Mitterrand ebbe successo perché definì il socialismo come l’andare in pensione a 58 anni e vivere relativamente in buona salute fino a 84, cioè 26 anni di vacanza retribuita. Ma questo non è possibile. Era tutto già finito. Lui l’ha detto perché era ciò che la gente voleva sentirsi dire. Questo per dire che tu a un certo punto ti trovi non solo con dei vecchi che sanno che quei tempi non torneranno, ma anche con dei giovani ancora più arrabbiati. Credo che la prima spaccatura ci sia con la riforma Dini del 1996, che sancisce che se tu hai iniziato a lavorare prima di un certo anno sei ancora un miracolato, sennò no. E questa non è una misura temporanea in cui si presagisce che “un domani…”. No, il messaggio è che la pacchia è finita. Dopodiché arriva la Fornero che giustamente lo generalizza a tutti.
Noi viviamo in una società di aspettative decrescenti e qual è la prima reazione psicologica quando le cose vanno male? Che è colpa di qualcuno. Uno dei tratti di una società che passa rapidamente dal miracolo dei Trenta gloriosi ad aspettative decrescenti è un forte impulso a vedere complotti, a cercare un colpevole…
Arlie Russel Hochschild in Strangers in their own land [“Stranieri a casa loro”], un’indagine sui membri del Tea Party della Louisiana, e in particolare sul perché la classe operaia avesse iniziato a votare Trump, usa la metafora del posto usurpato, cioè, erano tutti ordinatamente in fila in attesa del loro turno per il sogno americano e a un certo punto hanno iniziato a infilarsi gli ispanici e poi altri immigrati e poi…
Qui è un po’ diverso. Il fatto è che l’America ha smesso di essere una società bianca, o comunque lo è diventata sempre meno. La riforma dell’immigrazione del ’65 elimina le quote introdotte nel ’24 ispirate a quell’ideologia razzista anglosassone che ricordavo prima e che apriva alle razze nordiche, cioè gli svedesi, gli inglesi, ma non agli italiani, ai greci, agli ebrei.
Questa è una storia abbastanza interessante: su pressione delle comunità italo-americane, ebraiche polacco-americane ecc., integratesi anche grazie a quella chiusura, al New Deal e alla guerra, viene abrogata questa legge discriminante. Nel libro cito il rassicurante discorso del senatore Edward Kennedy: “[…] le nostre città non saranno invase […]. Con la nuova legge, il livello attuale di immigrazione resterà essenzialmente invariato […]”. Ebbene, eliminate le quote, sono arrivati milioni, anzi decine di milioni di immigrati da tutto il mondo: indiani, cinesi, africani, venezuelani, ecuadoregni, russi, e la popolazione americana ha iniziato a cambiare, anche perché nel frattempo gli europei stavano meglio, era iniziata la caduta demografica e quindi non avevano più bisogno di emigrare. L’America è diventata meno europea a partire da lì.
Il discorso dell’usurpazione è molto forte a livello ideologico, non so quanto lo sia rispetto alla realtà, però le narrazioni contano. Prendiamo i neri: in quello stesso 1965 sono state introdotte a loro favore le politiche di Affirmative action, con l’idea che essendo tutti discendenti degli schiavi era una misura moralmente accettabile. Quando però tu apri, arrivano gli indiani o gli africani dalla Nigeria che non sono mai stati schiavi. Allora perché un nigeriano, casomai neanche povero, dovrebbe godere delle azioni positive e un povero bianco del Tennessee no? Perché lui è nero e io sono bianco? È in questo contesto che le comunità operaie si spostano verso Reagan già a fine anni Settanta; comunità popolari che erano tradizionalmente state con i democratici.
C’è anche il fatto che oggi le classi popolari, operaie, si sentono disprezzate dalla sinistra.
Questa è una delle nuove marginalizzazioni. Prima abbiamo parlato di quella dei giovani, che sicuramente è avvenuta. Il ’68 è stato l’anno in cui l’umanità è stata più giovane nella storia del mondo. Chiaro che se sei giovane in quel frangente, già i trentenni ti fanno schifo. Se invece nasci in un mondo in cui comandano gli ultra sessantenni, sei inevitabilmente un ghettizzato.
Ma un’altra ghettizzazione è quella dei giovani maschi ignoranti, che è una cosa enorme. In America è molto studiata, in Europa ancora no. Le stime dicono che la massa dei voti per la nuova destra sociale in America, così come per Brexit, ma anche per Meloni, sia costituita da maschi spesso poco istruiti…
Pare di capire che le donne sarebbero più adatte a questa società moderna degli uomini. Si dice sempre:  “Eh, ma se prendete i gradi alti comandano gli uomini”, ma i gradi alti sono lo specchio della società di cinquant’anni fa! Da tempo a prendere il diploma e i voti migliori sono soprattutto donne, poi sono soprattutto donne le laureate, oggi anche quelle col dottorato di ricerca. Prima o poi le donne saranno in maggioranza in quasi tutte le discipline, tranne alcune che restano quasi naturalmente maschili. Se vedi i dati sui drop out c’è una quota di uomini a cui non piace studiare. Un tempo, se non volevano studiare facevano gli operai e guadagnavano pure abbastanza bene, erano contenti o magari non erano contenti ma lo facevano per i figli.
Oggi tutti dicono che la scuola non funziona e c’è la nostalgia del vecchio liceo classico, senza considerare che lo frequentava il 10% delle persone. Il punto è che noi, con la modernizzazione, abbiamo messo dentro la società una macchina, la scuola, che ti stratifica in base al fatto se sei ben educato e rispondi bene. Intendiamoci, io sono molto a favore della scuola media dell’obbligo. La situazione precedente era ingiusta.  Ma ciò non toglie che hai messo una macchina che seleziona la gente in base a quello che sa e sa fare.   Oggi il livello del reddito è legato a quello. Lasciamo perdere i ricchi ricchi, che hanno l’eredità, se tu prendi il 10-20% più ricco di qualunque società benestante, la stragrande maggioranza è gente che guadagna bene perché fa l’avvocato, il medico, il manager, il dirigente di banca, il chirurgo, il professore all’università, cioè tutta gente che deve questa cosa al titolo di studio, non al fatto che ha ereditato.
Ebbene, se tu fai una società che stratifica, come si dice, in base al merito, crei dei marginali che sono molto diversi da quelli di prima e che non accettano di essere discriminati perché a loro non piace studiare.
Aggiungi che se oggi una ragazza che vuole fare la commessa sa l’inglese, guadagna di più. Quando eravamo giovani noi, la stratificazione era tra dialetto e lingua. Chi ha fatto per primo la scuola media dell’obbligo come me si è trovato con quelli che parlavano in dialetto e che prima andavano all’avviamento professionale. Teniamo presente che all’avviamento professionale ci andava l’80% degli italiani. Anche quella era una stratificazione ingiusta, poi con il tempo abbiamo cominciato a parlare tutti italiano. Tu pensi: bene, abbiamo raggiunto una comunanza. E invece arriva (e anche questa è cosa naturale) l’inglese e a questo punto la diglossia si sposta da dialetto-italiano a italiano-inglese.
Ripeto, non è che io sappia come affrontare questi fenomeni, però se non inizi a vedere queste cose, a ragionarci… perché se la gente si stratifica in base al fatto se sa o meno l’inglese, c’è un problema; se i giovani sono discriminati rispetto ai vecchi, c’è un problema; se aumentano i giovani maschi che non reggono la scuola, c’è un problema; se mancano i servizi… Lo sforzo vuole essere quello di ragionare sulle nuove stratificazioni, di cui ovviamente la principale è quella fra nativi e non nativi, un termine che preferisco perché per fortuna ci sono tantissimi cittadini italiani non nativi.
Rispetto alla nostra illusione di poter essere tutti dipendenti, gli immigrati portano però un certo spirito imprenditoriale…
È così e questo però rende la reazione degli emarginati nativi ancora più forte, perché di fatto l’immigrato danneggia loro. L’immigrato giovane, volenteroso, intelligente (consideriamo che a muoversi è l’élite naturale perché non sono certo i malati, i depressi o i più poveri ad affrontare il trauma dello spostamento), beh, la prima concorrenza la fa al muratore, alla cameriera, al garagista.
Pure questo è un problema enorme, gigantesco. Sennò non capisci il successo che ha la destra tra i ceti popolari. Se tu metti assieme i maschi, quelli che non vanno avanti a scuola, i vecchi soli e depressi che pensano al passato, ti ritrovi alla fine con delle società che -siccome le novità tendenzialmente sono peggiorative- non vuole alcuna novità, e spesso la identifica coi non nativi. Questo spiega anche perché le riforme sono diventate una brutta parola.
Giuliano Amato è odiato perché ha fatto le prime riforme “non riforme”, in cui invece di darti un po’ di più ti toglieva. Ma nel 1992 eravamo di fronte a un deficit mostruoso. Per questo dico che l’Italia, con il senno di poi, non era un’aberrazione, ma una finestra sul futuro.
Ora, io non ho una risposta. Posto che non puoi vendere bugie, se vuoi intervenire seriamente per garantire il garantibile (che vuol dire che se viviamo fino a 85 anni, mi dispiace, ma non puoi andare in pensione prima dei 65-70) probabilmente le riforme le devi vendere con i valori e non con l’economia. Gli esseri umani sono intelligenti, capaci di ragionare; bisogna adottare un atteggiamento valoriale, non semplicemente di logica. Almeno questa è la mia impressione.
Per concludere sulla questione delle nuove stratificazioni, non c’è dubbio che in un contesto di aspettative decrescenti, di futuro minaccioso, di vecchi che guardano al passato, la destra è talmente avvantaggiata che non c’è paragone.
Infatti la sinistra balbetta…
Mi ricordo che Vittorio Foa, parlando del fascismo mi raccontava: “Sai, Andrea, il fascismo ha vinto perché era l’unico nel ’22 ad aver elaborato un discorso per l’Italia”. Era un discorso che faceva schifo, però Mussolini proponeva un’idea di paese; i socialisti non parlavano di Italia, i popolari non parlavano di Italia, i liberali parlavano di un’Italia che non c’era più… e ha vinto quel discorso, anche perché era l’unico che c’era.
Qual è un discorso di sinistra per l’Italia che vogliamo? Ovviamente non è facile perché le condizioni oggettive sono più favorevoli a un discorso passatista. Quindi forse bisogna prima smontare. Guardate, io questo lo dico sempre: il passato è l’utopia più utopica che c’è. Voglio dire, in futuro non si può escludere che diventiamo tutti ricchissimi e che saremo tutti liberi, tutto può succedere e tuttavia è sicuro che io non torno a quando avevo 19 anni!
Ho l’impressione che questo discorso valga molto per Italia; in Belgio e in Francia si respira un’aria diversa.
Eh, ma la Francia è oggi il paese più vitale d’Europa. Qui però si torna al tema della natalità. In Francia i giovani ci sono ancora. Noi all’università abbiamo preso alcuni post-doc tra cui delle  giovani francesi: hanno tutte due-tre figli e fanno il post-dottorato. Però la Grecia, la Spagna, l’Inghilterra sono come noi; anche la Germania non scherza; la Polonia e l’Ungheria sono come e peggio di noi…
Come si sarà capito, io questo libro l’ho scritto per parlare di politica, quindi sono molto contento se suscita delle discussioni. Ora, se tu devi fare politica di sinistra nel nostro paese, devi partire dal presupposto che questa è una situazione in cui la tendenza ti è contraria e quindi devi essere molto intelligente. Dopodiché ci sono tutti i problemi e le domande che dicevamo. Ma bisogna partire da uno sguardo onesto: la famiglia tipo italiana è il vecchio o la vecchia sola, tendenzialmente senza figli, perché se è vero che ancora in media l’Italia è il paese dove i vecchi soli hanno il figlio più vicino, in futuro molti dei vecchi nati dopo il 1980 non potranno contare sui figli che non hanno fatto. Torniamo al 40% delle donne sarde.
Allora che fai? Stai solo senza figli. Bobbio diceva: io sono un vecchio, so benissimo cosa vuol dire avere tutta la vita dietro e niente davanti. Bene come parli a quei sei-sette milioni di persone che sanno di avere “tutto dietro e niente davanti”? Come parli con chi ha paura dei non nativi che arrivano? Come parli con i giovani che non vogliono studiare? Che gli dici? Gli vendi il passato pure tu? A parte che gli altri sono più bravi, ma comunque non puoi farlo. Serve uno sforzo inventivo molto forte se vuoi fare una politica di sinistra.
Scusate se vado un po’ a ruota libera però aggiungo un’altra cosa secondo me molto importante.
In Italia il disprezzo per la politica dal 1992 a oggi è andato crescendo; anche Berlusconi disprezzava la politica, ma pensiamo ai Cinque Stelle o al Renzi della rottamazione. Da dove viene questo disprezzo?  Secondo me è molto interessante ragionarci. Intanto c’è la questione dei diritti: una volta che li hai conquistati, magari proprio con la politica e con le manifestazioni, beh, a quel punto tu vai al Tar, non fai politica. Non so come dire: c’è una giuridificazione. Non solo: ma se la politica poi diventa la cosa che invece i diritti te li toglie…
C’è poi la grande delusione della sinistra… bisognerebbe andarsi a rivedere i funerali di Berlinguer, c’erano milioni di persone che piangevano. È verosimile che passati pochi anni, nel 1991, abbiano tutti pensato che fosse stata tutta una fesseria? Il fallimento della speranza nel comunismo c’entra molto con la politica come cosa sporca…
Poi c’è l’antipolitica di destra che ha radici ben conosciute. Il Movimento sociale italiano era antipolitico perché veniva da una sconfitta; prima del 1943 il fascismo era l’esaltazione della politica.
La sconfitta di un sogno politico porta all’antipolitica. Il risultato è un’Italia che non ha un discorso sul futuro perché questo chi lo può fare se non la politica? Mica lo fanno gli economisti o i sociologi. Il discorso sul futuro possibile lo fanno i politici.
C’è un certo ritorno a Keynes…
Keynes era un malthusiano estremo. Quando scrive le sue teorie pensa alla crisi del ’29, al crollo delle nascite. Pensa a una società che ha bisogno di spesa pubblica perché non ce la fa più a generare energia da sola. All’origine c’è dunque un ragionamento pessimista. Solo dopo la Seconda guerra mondiale diventa una teoria per lo sviluppo. Ma anche qui: una volta che hai raggiunto certi livelli di spesa pubblica come lo porti avanti il keynesismo? In Italia, la realizzazione che il keynesismo non era più praticabile risale agli anni Ottanta, quando Andreatta stabilisce che la Banca d’Italia non è più obbligata a comprare i titoli di stato.
D’altro canto Draghi, all’Mit qualche giorno fa, ha fatto un discorso da Keynes ante Seconda guerra mondiale, cioè ha detto: la crisi della società occidentale è tale che la presenza statale sarà ancora più forte che in passato. L’ha detto chiaramente. Il fatto è che se poi si esagera con questa presenza dello Stato, sappiamo come va a finire…
Torniamo alla questione delle società plurali e delle politiche identitarie…
In America nel censimento ti chiedono di che razza sei. È una delle categorie previste ed è sostenuta dai neri, ovviamente, perché è diventata una categoria identitaria dal basso. Nelle principali università americane, da Harvard a Yale, ci sono i “Center for Studies in Race and Ethnicity” o formule analoghe e nessuno si scandalizza. Da questo punto di vista forse quella del Brasile è la soluzione più interessante, loro parlano semplicemente di colore. Nel censimento ti chiedono di che colore sei (dopodiché amici mi dicono sia una società comunque molto razzista).
Personalmente a lungo ho pensato che il modello repubblicano francese non reggesse, che fosse molto ipocrita e anche controproducente, perché in una società che si pluralizza, per accogliere il diverso e farlo integrare è abbastanza logico che tu gli riconosca la sua diversità.
Pensiamo ai canadesi, il multiculturalismo l’hanno inventato loro e gli australiani: per far diventare canadesi i pachistani li accogli a pieno titolo, incorporando anche le loro festività e quindi alla fine la società canadese si pachistanizza un poco. Questa mi sembrava una soluzione ragionevole.
Devo dire che pensando all’Europa, dove sotto sotto siamo tutti stati etno-nazionali, forse la soluzione francese, che all’inizio sembra la più ipocrita, è meno urticante. Magari sul breve periodo è ipocrita, rende quelli che arrivano sicuramente più discriminati, come hanno dimostrato i moti di questi giorni, però guardando alla pluralizzazione in corso negli Stati Uniti, beh, sorge il dubbio che quel modello, anziché accettazione, produca una realtà ancora più polarizzata.
Ai tempi delle rivolte delle banlieue qualche sociologo commentò dicendo che in realtà era il successo del modello francese: gli immigrati si erano convinti di essere francesi come gli altri, ma poi al contatto con il mercato del lavoro o degli affitti si erano accorti che chiamarsi Mustafa anziché Charles cambiava le cose…
Quello repubblicano è un modello esigente. All’inizio è anche più ingiusto. L’altro grande pericolo che spiega lo spostamento di molti voti è che se tu crei una categoria favorita, chiaramente quella tende a conservarsi.  La base che rendeva gli Stati Uniti diversi dal Brasile è che in Brasile venivi riconosciuto bianco man mano che ti “bianchizzavi”, negli Stati Uniti invece vigeva la “One Drop Rule”: se avevi un antenato nero eri nero, ma per i razzisti. Bene, oggi la One drop rule, che era il simbolo del razzismo, delle Jim Crow laws, è stata adottata dai neri, perché siccome hanno interesse a che il loro gruppo sia forte, se tu hai un antenato nero, quelli dicono: “Tu sei nero e devi stare nel nostro gruppo”. Quindi tendi a produrre delle categorie che alla fine non favoriscono l’integrazione.
Nei termini della convivenza vien da chiedersi come giochi questa crescente enfasi sulla differenza: per stare assieme dobbiamo sentirci più uguali o più diversi?
Un po’ tutte e due. Uno deve dire che siamo tutti uguali come diritti, come dignità. La verità è che non siamo tutti uguali, le donne non sono uguali agli uomini, i cristiani non sono uguali ai musulmani, gli atei sono ancora diversi, eccetera. Come specie umana siamo assolutamente convergenti, però all’interno di questo non puoi pretendere che ci sia un’uguaglianza reale. L’uguaglianza è il principio generale di trattamento e di dignità riconosciuta, però, a livello individuale, la differenza va riconosciuta e valorizzata. Certo è molto complicato…
A furia di enfatizzare l’essere diversi anche nelle politiche non rischiamo di ritrovarci sempre più soli?
Infatti alla fine mi sono convinto dell’idea che forse i francesi non hanno tutti i torti a dire: guardate che c’è un valore della uguaglianza repubblicana che va tutelato.
Tornando a fare lo storico: noi siamo partiti dall’idea che la legge è uguale per tutti, che è un bel principio, poi è venuto Marx, e non solo lui, che ha detto: è un imbroglio perché come fa a essere uguale per tutti? Se tu sei ricco, maschio e possidente non è vero che è uguale per tutti, e quindi per fare una legge uguale per tutti a livello individuale devi garantire l’uguaglianza reale a livello individuale. Così però hai riportato al centro lo status da cui eravamo partiti. Se tu sei un diverso, se hai un handicap, ti devo trattare uguale, cioè ti devo dare uno status che mi permette di farlo. Però questo vuol dire che la legge non è più uguale per tutti.  È questa la cosa su cui non sono più d’accordo: la legge non può avere per fine l’uguaglianza reale, deve fermarsi sul fatto che siamo tutti uguali, riconoscere gli svantaggi, però non può rimettere al centro lo status, come di fatto fanno gli Stati Uniti, ma anche in parte facciamo in Italia.
Da noi tutto è partito con i figli degli orfani di guerra, che erano avvantaggiati nei concorsi; dalle vedove di guerra che avevano una pensione più alta… Uno inizia così, con le categorie agevolate, e finisce con una moltiplicazione… Un discorso su tutto questo andrebbe fatto. La legge non può diventare uno strumento per combattere contro la differenza, perché sennò veramente finiamo tutti in un letto di Procuste. Dopodiché bisogna anche essere ragionevoli. Ecco, è probabile che, per come è fatta l’Europa, per evitare reazioni anche molto forti, si debba adottare un modello francese ma con degli accomodamenti.
Come vedi il destino e il ruolo dell’Unione europea?
L’Unione europea ha davanti una grande sfida. Il mondo è cambiato, adesso siamo di nuovo tutti insieme contro l’invasione della Russia, però vi ricordo che Macron aveva detto che la Nato era finita. Insomma, non è che questa condizione durerà per sempre.
Comunque in questi anni difficili l’Unione si è rivelata una costruzione economico-giuridica molto forte, e per fortuna. Il problema è che oggi ci troviamo in una situazione assurda: avendo perso la Russia e l’Inghilterra, siamo tornati all’Europa del blocco continentale napoleonico, prima dell’invasione della Russia. Non abbiamo una lingua comune, il che fa sì che la burocrazia europea viva in una bolla perché nessuno la controlla. I ministri nazionali sono tra i pochi a leggere ancora i giornali… Ma in Europa cosa leggono?
Non c’è un quotidiano europeo, non c’è una rivista europea, quindi non c’è un’opinione pubblica europea, insomma ci sono dei problemi veri. L’altra cosa vera è che questa Europa ha un discorso legittimante molto debole. Qual è l’esperienza di massa dell’Europa del XX secolo? Non c’è capitale europea che non sia stata occupata almeno da due eserciti. Non c’è un passato glorioso.
Tu polemizzavi un po’ con questa idea di costruire una memoria comune europea.
È impossibile. Se quelli sono stati occupati prima dai nazisti e poi dai sovietici, io sono stato prima fascista, poi sono stato occupato dai nazisti, poi mi hanno liberato (o occupato a seconda dei punti di vista) gli americani… è molto diverso. Anche la Prima guerra mondiale è stata una catastrofe. Inoltre nel XX secolo c’è stata la decolonizzazione. E per fortuna! Però per l’Europa che dominava il mondo è stata una sconfitta.  Puoi fare un discorso legittimante vantandoti di essere stato cacciato?
C’è pertanto un problema vero di discorso legittimante europeo secondo me. Come c’è un problema di opinione pubblica europea, di politica europea, di un esercito europeo. Tutte queste sono grandi sfide. Non è facile, però se uno non comincia…
L’altra considerazione è che mi sembra che il sogno dei federalisti europei non regga, cioè l’Europa nazione non c’è. De Gaulle a suo modo non aveva torto. Quindi devi partire dall’idea che tu stai costruendo uno Stato confederale fatto da stati etno-nazionali complicati dall’immigrazione, che vengono da esperienze storiche diverse, che sono accomunati nell’Europa continentale da un’esperienza di sconfitte nel XX secolo.   Allora, se tu vuoi fare uno Stato, ancorché solo confederale, plurietnico, hai bisogno di un discorso che tenga conto di tutte queste cose e che sia vendibile anche fuori. Io sono andato a rileggermi il progetto di Costituzione del 2005. Ma come fai ad andare in Africa a dire: “Noi siamo la grande Europa che ha dato la libertà a tutto il mondo”?
Insomma, non è un discorso banale, perché poi i discorsi legittimanti sono quelli della vittimizzazione o quelli del trionfo. Questa è un’altra delle questioni su cui la politica dovrebbe discutere.
(intervista ad ANDREA GRAZIOSI, a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa, da https://www.unacitta.it/, luglio 2023)

Un pensiero su “UN’OCCIDENTE AL PLURALE (cosa sta succedendo? …in merito ad un libro di ANDREA GRAZIOSI: l’intervista all’autore da parte di UNA CITTÀ, rivista di Forlì)

  1. Molto interessante. So poco dell’autore, ma dall’intervista emerge uno sguardo lucido e pragmatico sul mondo attuale. Ho apprezzato molto, oltre al discorso sulla natalità, le considerazioni sul modello “repubblicano” francese, e anche i dubbi riguardo all’Europa, che tenendo conto dei prossimi nuovi ingressi (l’autore cita solo l’Ucraina, ma in realtà sono 9 i paesi in “lista d’attesa”, il che vuol dire che passeremo presto da 27 a 36) non potrà che seguire un modello “confederale”, se vorrà evitare forti problemi di legittimazione. Un salutare “pessimismo della ragione”, insomma, che non esclude ovviamente l’ottimismo della volontà. Enrico Lupano

    Il giorno lun 14 ago 2023 alle ore 15:16 I soggetti e le dinamiche del

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