DAL LIBANO AL CILE. GEOPOLITICA DELLE RIVOLTE di MARIO GIRO, da https://formiche.net/ del 27/10/2019

– C’è tra i giovani una forte sensazione di “tradimento degli adulti” a cui anche fenomeni come Greta non sono estranei: sentono che la generazione precedente sta lasciando loro un mondo ben peggiore di quello che aveva ereditato –

   L’intervento televisivo di Nasrallah, il leader degli Hezbollah sciiti libanesi (il partito di Dio), non ha calmato la piazza libanese. Senza guida, il movimento prosegue pur non sapendo bene dove andare. Si chiedono le dimissioni del governo Hariri ma poi? La paventata tassa su WhatsApp è stata ritirata ma ciò non acquieta i libanesi che si mescolano per strada tra sunniti, cristiani, sciiti, drusi, eccetera.

   Qualcosa di simile accade a Sadr City, l’ex quartiere sunnita di Saddam City a Baghdad. Giovani – sì perché in questi Paesi i giovani sono la maggioranza – stufi di essere etichettati con le etnie, confessioni o altro, occupano le strade (talvolta in modo violento) e protestano in stile “rivolta del pane”. Dall’altra parte del globo a Santiago del Cile sono bastati 4 centesimi di aumento delle tariffe dei trasporti urbani (ma vi ricordate le proteste di piazza brasiliane per l’aumento del biglietto dell’autobus che contribuirono alla caduta di Dilma Rousseff?) per innescare una vera e propria sommossa che ha costretto il governo a far uscire i militari dalle caserme. Sorprende che questi ultimi non abbiano perso i riflessi automatici dell’epoca di Pinochet: torture, violenze, brutalità di ogni tipo, anche se non si possono più nascondere. Poi ci sono sommosse della povertà ad Haiti, la disperazione dei venezuelani alla fame, proteste contro la corruzione e gli imbrogli elettorali in Bolivia e Perù, le recenti proteste contro al-Sisi al Cairo, il movimento sudanese e quello algerino che proseguono.

   È LA RIVOLTA DEI MOLTI CONTRO I POCHI, del 99% contro l’1%, della gente ordinaria contro la corruzione delle élite. A noi ricorda OCCUPY WALL STREET, gli INDIGNADOS spagnoli, la CRISI DELLE BANLIEUE FRANCESI, la PRIMAVERA DELL’ACERO CANADESE, i GILET GIALLI, le PRIME FASI DELLE PRIMAVERE ARABE, e altro ancora. Tutte vicende di fine millennio ed inizio secolo; tutte sollevazioni senza leader e immancabilmente soffocate o recuperate. Alcune portano un segno più politicizzato, come ad Hong Kong (dove si ripete la stagione di Occupy central, la rivolta degli ombrelli), o a Barcellona.

   In filigrana si intravede una nuova GEOPOLITICA: quella DELLE RIVOLTE. Si tratta di una “GEOPOLITICA DEBOLE”, non disegnata da rapporti di forza politico-militari, né fatta di economia, frontiere o risorse. Tuttavia è un fenomeno ricorrente che sarà sempre più difficile arginare, a meno di ritornare a regimi davvero repressivi. Se la globalizzazione diviene sempre più fonte di ansia per tutti, molto di più lo è per i giovani. Spesso per loro si tratta di una doppia paura: quella dell’esclusione ma anche quella di un “inclusione forzata”. Se gli adulti, reagiscono con il ripiegamento, i giovani -laddove è possibile- lo fanno con la rabbia.

   L’antropologo francese Alain Bertho ha descritto il fenomeno come una “mondializzazione delle sommosse”, nuovo segno dei tempi. L’età delle rivolte è un’epoca di ribellismo spontaneo che prende il posto delle precedenti forme organizzate ed inquadrate. Dagli esperti vengono trattate a torto come una sorta di nuove “jacquerie” giovanili destinate al fallimento. L’esasperazione è senza frontiere e torna un’antica pratica che sembrava scomparsa: il saccheggio. Al massimo si ragiona di diritti (come a Hong Kong) o di economia. Ma non si tratta solo di questo.

   C’è tra i giovani una forte sensazione di “TRADIMENTO DEGLI ADULTI” a cui anche fenomeni come Greta non sono estranei. I giovani sentono che la generazione precedente sta lasciando loro un mondo ben peggiore di quello che aveva ereditato. Il neo-capitalismo ha prodotto enormi fratture sociali anche nei Paesi in crescita e non solo nelle economie mature. La diseguaglianza sembra essere divenuta la cifra del nostro tempo e, cosa più grave, tollerata dai decisori. La natura stessa si ribella al suo sfruttamento: dobbiamo tener conto del fatto che l’allarme sul futuro del pianeta colpisce i giovani in maniera molto più forte che le altre classi di età. Poi c’è il sentimento che il diritto a scegliere – continuamente propagandato dalla cultura della globalizzazione – sia sostanzialmente impedito. Tale aspetto è particolarmente chiaro per i giovani africani che reagiscono decidendo di muoversi comunque: è l’avventura delle migrazioni che tanto spaventa l’Europa.

   La forma oligarchica presa dall’aumento della ricchezza nei paesi emergenti è un’altra ragione di forte malcontento. Il neo-liberismo ha promesso opportunità per tutti ma non la può mantenere: al contrario la prosperità si concentra nelle mani di pochi. Lo stesso può dirsi delle tasse in Occidente, che non creano vera ridistribuzione della ricchezza come sarebbe nella loro natura. Il problema del ceto medio impoverito o della classe C (come si dice in Brasile) che non riesce a uscire dalla precarietà, si legano all’età media che è bassa nella maggioranza dei paesi, salvo Europa e Russia. Demograficamente siamo al picco: non ci sono mai stati tanti giovani nel mondo quanto oggi.

   Questi giovani sono spaventati dal futuro e scontenti del presente. L’istruzione di qualità resta un privilegio di pochi, per non parlare dell’accesso alle cure. Di conseguenza ogni sforzo viene fatto per potersi avvicinare alle terre dove ancora ci si può curare e si può studiare gratuitamente. La retorica degli adulti al potere (sia ideologica, nazionalista o estremista di vario tipo) non convince più la massa dei giovani che cercano la loro parte della globalizzazione. Le sinistre mondiali (comuniste, socialdemocratiche o altro) sono ingessate nell’aver accettato senza riforme il neo-capitalismo dominante e l’erosione del welfare. Ma tutti i vantaggi della nuova economia globale sono precari e concentrati: anche la stessa guerra dei dazi, pur utilizzata dai leader per promuovere se stessi, coinvolge pochissimi soggetti mentre ne ferisce a morte moltissimi. Prevale ormai una concezione del lavoro come bene non durevole o a perdere tipo “usa e getta”. Ciò creerà sempre più reazioni anche violente.

   I mali dell’economia predatrice vengono denunciati de facto soltanto da Papa Francesco e dalla parte della chiesa cattolica che in lui si riconosce. Il sinodo sull’AMAZZONIA contiene un preciso segnale in questo senso: partire da una periferia delle periferie –la regione amazzonica- per parlare a tutti del fallimento dell’attuale modello di sviluppo. Tutti i padri sinodali si sono espressi contro “lo sfruttamento dell’economia predatrice delle risorse naturali”, al di là delle divergenze teologiche su specifici temi ecclesiastici. La destra ecclesiale anti-Francesco cerca di spostare il dibattito pubblico esclusivamente sui temi di natura canonica, come i viri probati (preti sposati) o cose simili. Si tratta certamente di questioni importanti ma che acquistano valore solo se letti dentro il quadro complessivo in cui il papa sta conducendo la chiesa: uscire dall’attuale modello di sviluppo che crea solo diseguaglianza. Sia l’Evangelii Gaudium, che la Laudato Si’ vanno in tale direzione: combattere la diseguaglianza togliendo centralità al mercato e mettendovi al posto la persona e il creato. Francesco non crede alla crescita come soluzione, ed è questo che realmente temono i suoi oppositori, principalmente nord-americani. La riunione degli economisti del prossimo marzo convocata dal papa ad Assisi sarà un ulteriore passo in tale direzione. L’attacco all’idolatria del denaro non è più un’espressione moralista ma diviene una necessità politica: o si cambia il sistema oppure sarà guerra, violenza e distruzione. Francesco intravvede così la “guerra mondiale a pezzi” di cui parlò: una guerra contro i poveri e contro gli ultimi a cui si aggiungono ora i penultimi del ceto medio impoverito e le vittime della crisi ambientale. Le sinistre mondiali davanti a ciò restano in silenzio, intrappolate nell’ideologia liberale contemporanea. Parlano solo i populisti che presentano un’unica ricetta: non si devono fare sacrifici ma pretenderli da altri. Tale giochetto allo scaricabarile è a somma zero: saremo tutti perdenti alla fine. Chi, come Piketty, osa richiamare Keynes e il welfare viene considerato come un nostalgico freelance. Tutte le politiche economiche si concentrano ancora sull’illusoria speranza di crescita all’infinito che la crisi ambientale si è già incaricata di smentire.

   L’innovazione tecnologica spacciata per cura di ogni male, al di là dei problemi etici che potrà sollevare, già dimostra i suoi pessimi effetti: distruzione senza creazione di lavoro. Per evitare un nuovo luddismo che ci riporti indietro, le parole del Papa vanno prese sul serio mettendo al centro dell’interesse generale la tenuta della società e la diminuzione delle diseguaglianze. Altrimenti dopo le rivolte sarà la guerra dei sovranismi contrapposti. (MARIO GIRO, da https://formiche.net/ del 27/10/2019(Mario Giro è esponente della Comunità di Sant’Egidio ed ex vice ministro agli esteri nei governi precedenti Renzi e Gentiloni) 

LA METAMORFOSI DEL LAVORO NEI CONTESTI SOCIALI (di ALDO BIANCHIN)

   Nel parlare di lavoro come prodotto sociale ci incontriamo nei fatti con i tentativi politico sociali di iniziative volte al cambiamento delle condizioni in cui siamo immersi. Le incertezze della situazione e le paure del futuro ci spingono a ripensare i contesti in cui siamo inseriti per trovare o cercar di trovare vie nuove, diverse.  Non emergono ancora proposte solutive ma si cerca comunque di misurarci col nuovo. Di trovare o tentar di trovare percorsi nuovi, persuasi che la situazione com’è non reggerà a lungo. Ha bisogno di innovazione e di cambiamento. Da una parte del mondo.

   Per dire, è ormai da qualche anno che anche in ambito “capitalista” ci si muove con attenzione e si riconosce, per evitare il peggio, la necessità di mutamenti significativi.

   La Business Round-Table (Organizzazione di imprenditori di alto livello USA) impegna i suoi aderenti a “operare a favore di tutti gli interessati”: dipendenti, clienti, abitanti dei luoghi in cui si è presenti.

   MARC BENIOFF, uno dei partecipanti, leader di una grande impresa nel campo informatico, si è sentito in dovere di formulare proposte per dar vita ad un “necessario nuovo capitalismo”.

   Inizia con quella di:

1) pareggiate le retribuzioni di uomini e donne per analoghe funzioni;

2) parità d’accesso al sistema scolastico senza differenze di reddito, di razza, di provenienza;

3) destinare almeno l’1 per cento della produzione del capitale e del tempo retribuito dall’azienda da parte dei lavoratori, scegliendo le iniziative più adatte al tipo di impresa ed all’ambiente nel quale la stessa opera;

4) introduzione di una incisiva imposta sulla ricchezza.

   Sulla stessa linea si trova un noto economista, JEFFREY SACHS, che propone di finanziare alcuni servizi necessari per ridurre: a) le diseguaglianze, b) l’accesso per tutti alla sanità, c) l’accesso all’educazione per tutti, d) abitazioni per i poveri, d) il tutto da finanziare con imposte sul patrimonio.

   E’ vero che esistono numerosi operatori economici, imprenditori o manager che non hanno la ricchezza personale come obiettivo principale del loro lavoro. Ma rimangono molti dubbi sul sistema in sè, sulla capacità dei mercati finanziari mondiali di finanziare le continue innovazioni necessarie per continuare a progredire. E non solo, lo stato e le comunità locali dovranno avere ruoli imprenditoriali molto superiori a quelli che hanno avuto nelle crisi del passato.

Saranno sufficienti le misure indicate per affrontare i problemi delle disuguaglianze e quelli ambientali?

Il sistema “dato” ha la possibilità di persistere nelle sue forme attuali?

E l’altra parte del mondo che cosa dice in merito?

(Aldo Bianchin, continua)

LA SITUAZIONE IN CUI VIVIAMO: IN CHE “CONTESTO” VOGLIAMO METTERE LA DIMENSIONE “LAVORO”? (di ALDO BIANCHIN, 4/10/2019)

   Abbiamo cominciato il nostro percorso sul lavoro definendolo un prodotto sociale e riconoscendolo come un ambito che coinvolge ciascuno ben oltre le dimensioni delle “competenze”. Queste, diciamo, sono il risultato di ben altri fattori che costituiscono il contesto in cui viviamo e da cui anch’esse dipendono.

   QUANDO SI È FINITO DI PARLARE DEL LAVORO (nella sua strutturazione, nelle sue dimensioni tecnologiche, nei suoi luoghi, nei suoi cambiamenti, nei suoi soggetti di promozione, nei suoi ruoli), insomma quando abbiamo finito il percorso della rilevazione del dato non possiamo procrastinare oltre la riflessione.

   DOBBIAMO PARLARE DEL SUO “SENSO” per la condizione di ciascuno. Questo ci costringe a fare i conti con il SOCIALE in cui siamo immersi nei suoi due aspetti portanti: IL PERSONALE ED IL COMUNE.

   Siamo oggi in una situazione di incertezza, i contenitori di riferimento si sono sciolti e non sono più in grado di costituire “paradigma” di riferimento comune. A fronte di ciò non abbiamo o fatichiamo ad avere indicazioni di contesto, non c’è un nuovo “paradigma” o almeno non c’è ancora.

   LA CRISI, dice qualcuno può essere una OPPORTUNITÀ unica che ci pone in una posizione speciale e in condizione di liberare le nostre potenzialità creative. Possiamo provare il nuovo, possiamo tentare il diverso.   IL CONTESTO DA CUI VENIAMO NON È PIÙ. Lo cogliamo più come legame ed impedimento, come costrizione impropria, come limite non più come risorsa, ma IL NUOVO NON C’È ANCORA, dobbiamo COSTRUIRLO sia SUL PIANO DEL “PERSONALE” CHE SU QUELLO DEL “COMUNE”.

   Sul piano del “COMUNE” la situazione in cui viviamo mi sembra abbia una indicazione in questa riflessione:

  «La politica del nostro tempo deve affrontare una straordinaria sfida che è forse la più profonda rispetto ai cambiamenti in atto. E’ la sfida culturale, la capacità di costruire paradigmi per rispondere alla nuova domanda di riconoscimento che sale dalle comunità di tutto il pianeta, trovando il modo di governare l’interdipendenza senza ignorare la profonda esigenza di definire una propria identità riconosciuta e rispettata che i gruppi umani, a diversi livelli e in diversi contesti, stanno esprimendo in tutto il mondo.

   Insieme, vi è la necessità di una cultura politica capace di ripensare il ruolo dello Stato nell’era tecnologica e globale, per rimettere “il capitalismo” al servizio della società, senza negare profitto e libero mercato, ma riportando al centro il bene pubblico e ponendo fine alle storture che stanno minando in tanti cittadini la fiducia nel progresso e nel ruolo della politica nelle nostre società; e vi è l’urgenza di fissare i parametri lungo i quali incanalare lo sviluppo tecnologico, per impedire che prenda indirizzi contrari ai valori della nostra civiltà, magari diventando strumento di nuove sopraffazioni.

   Il dibattito sul problema dell’identità individuale e collettiva, e sul ruolo che esso gioca nei processi politici, sta avendo recentemente uno sviluppo molto ampio. Offre elementi di riflessione e spunti che già permettono di individuare alcuni dei nodi che dobbiamo sciogliere, e forse anche di intravedere i tratti del nuovo pensiero, del nuovo umanesimo, che dobbiamo saper sviluppare per costruire un indispensabile orizzonte morale stabile e condiviso.

   Le società di oggi devono infatti riuscire a sostituire la comunanza sviluppata e garantita fino al recente passato dalla religione con una nuova visione culturale che permetta di coniugare l’autonomia degli individui con quella condivisione di valori e cultura che il buon funzionamento di una società richiede e di cui gli stessi individui hanno bisogno per definire la propria identità.

   Senza questa base comune si crea quella cacofonia di sistemi di valori in competizione cui oggi assistiamo e che, nelle parole di Francis Fukuyama, spinge molti individui disorientati a ricercare “un’identità comune che torni a legare l’individuo ad un gruppo sociale e ristabilisca un chiaro orizzonte morale”. Questo dato psicologico pone le basi del nazionalismo, perché per molti individui “il proprio autentico io interiore è in realtà costituito dalle relazioni che hanno con gli altri, e dalle norme e aspettative che dagli altri provengono”; si tratta quindi di un’identità che resta legata alla dimensione collettiva, e le due identità collettive più forti oggi sono ancora quelle basate sul nazionalismo e sulla religione, spesso due facce della stessa medaglia.

   Il federalismo europeo si è posto questo tipo di problematiche, legando il progetto di un’Europa federale anche alla necessità di rispondere alle esigenze di una nuova società che doveva imparare a coniugare il rispetto per la libertà degli individui, diventato un principio inderogabile, con il mantenimento di una identità collettiva positiva. Il federalismo individua nel comunitarismo, che si accompagna strutturalmente nel progetto del federalismo europeo alla dimensione sovranazionale, la possibilità di creare una nuova forma di identità forte, perché affonda le radici nella vita quotidiana e nella storia della propria comunità, ma al tempo stesso è libera e scevra da quelle chiusure che portano con sé inevitabili degenerazioni.

   Non è solo la partecipazione diretta alla vita anche dei livelli istituzionali superiori a connotare con il segno dell’apertura questo tipo di identità, che nella dimensione politica si caratterizza come multilivello; lo è anche, e forse persino in misura maggiore, la garanzia della possibilità dell’autogoverno che ogni comunità vede riconosciuta istituzionalmente in un sistema fondato su una molteplicità di livelli di governo indipendenti e coordinati.

   Il sistema federale garantisce così istituzionalmente la dignità e il riconoscimento di tutte le realtà comunitarie, e le cementa, abolendo una delle principali cause della ossessione identitaria che oggi dilaga a causa della difficoltà di coniugare condivisione e pluralismo, e che arriva fino a rimettere in discussione persino il principio della libertà e della possibilità di autodeterminazione di ciascun individuo.

   Questa garanzia si realizza rendendo centrale la vita comunitaria, ma facendola evolvere al tempo stesso come parte integrante di una realtà universale. Ciò si realizza anche separando il concetto di autodeterminazione applicato alle comunità – o alle nazionalità spontanee – dalla pretesa della sovranità esclusiva e dall’apparato ideologico che ancora oggi vi si accompagna, e trasformandolo in diritto all’autogoverno.

   La differenza radicale è che la pretesa della sovranità esclusiva non corrisponde mai alla possibilità dell’esercizio effettivo di una volontà politica autonoma incondizionata in tutte le materie; l’autogoverno in un sistema multilivello invece sì. Infatti, laddove si è in presenza di materie che hanno una dimensione che supera i confini e che toccano gli interessi di più comunità, in un sistema di sovranità esclusive il governo di tali materie si risolve con l’imposizione del proprio volere da parte del più forte; in un sistema federale multilivello, invece, la questione si gestisce attraverso il libero esercizio democratico.

   Libertà, democrazia, quadro comune di valori, riconoscimento collettivo pertanto si armonizzano, senza più dare adito a contraddizioni laceranti. Tutto questo si accompagna al fatto che in una dimensione federale potrebbero trovare pieno sviluppo la cultura e la tradizione politica europee in cui è centrale il concetto dello Stato sociale, e con esso il ruolo delle istituzioni statali per regolamentare ai fini del bene pubblico il sistema economico e gli sviluppi della scienza e della tecnologia, e il loro sfruttamento in termini economici e commerciali.

   Un’Europa federale creerebbe pertanto un sistema capace di rispondere con le buone istituzioni e la buona politica alle sfide che globalizzazione e rivoluzione tecnologica stanno ponendo, e rispetto alle quali sinora la politica democratica è stata così inadeguata; questo permetterebbe anche di rinsaldare il patto sociale tra lo Stato (un nuovo Stato, sovranazionale) e i suoi cittadini, oggi così fragile. La forza del suo modello e il suo peso politico potrebbe poi anche imporre standard per condizionare in questo senso lo sviluppo globale, indirizzando in senso virtuoso la politica mondiale». (continua) ALDO BIANCHIN