Movimento Federalista Europeo: I RISCHI CHE MINACCIANO IL FUTURO EUROPEO E LE RESPONSABILITÀ DEI GOVERNI NAZIONALI

L’UNIONE EUROPEA DEI 27 e il possibile allargamento – Al momento (2024) ci sono nove paesi ufficialmente candidati all’adesione: Turchia (candidata dal 1999), Macedonia del Nord (candidata dal 2004), Montenegro (candidato dal 2010), Serbia (candidata dal 2012), Albania (candidata dal 2014), Ucraina, Moldavia e Bosnia ed Erzegovina (tutte e tre candidate dal 2022) e Georgia (candidata dal 2023). Il Kosovo, ultimo stato della penisola balcanica occidentale, ha firmato l’ “accordo di stabilizzazione e associazione” necessario prima che possa candidarsi per l’adesione ed è considerato “potenziale candidato” (mappa da Wikipedia)

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Comunicato del Movimento Federalista Europeo del 27/3/2024:

   L’Europa deve affrontare un profondo cambio di paradigma in questa fase. Anche il Consiglio europeo che si è tenuto il 21-22 marzo scorsi ha evidenziato la preoccupazione per il rischio di trovarci in tempi non troppo lontani sotto attacco della Russia. Analogamente è forte anche il pericolo segnalato da Mario Draghi di diventare completamente marginali sul piano economico e commerciale se non mettiamo in campo investimenti massicci per sostenere le transizioni green e digitale; e a questo si aggiunge la necessità urgente di garantire anche la sostenibilità sociale di queste transizioni.

   Affrontare questo passaggio epocale per le nostre società, per le nostre opinioni pubbliche, per la nostra democrazia richiede strumenti europei che l’Unione europea non ha. È un fatto evidente, che la stessa Commissione europea ha evidenziato con chiarezza nella sua comunicazione sulle riforme e la revisione delle politiche necessarie in vista dell’allargamento resa pubblica il 20 marzo, alla vigilia del Consiglio europeo.

   In questo quadro è particolarmente grave che il Consiglio europeo continui a rimandare la discussione sulla richiesta avanzata dal Parlamento europeo con il voto del 22 Novembre scorso di avviare una Convenzione per la riforma dei Trattati. Si tratta dell’unica proposta concreta in grado di sbloccare l’impasse in cui è attanagliata l’Unione europea, sia sul piano giuridico – perché le altre procedure semplificate contenute nei Trattati non possono essere utilizzate nei settori in cui è più necessaria una profonda riforma: la politica estera e di sicurezza e la difesa, il finanziamento dell’Unione, la nomina dei membri della Commissione europea, il rafforzamento dello Stato di diritto-; sia perché è l’unica procedura che permette una partecipazione democratica.

   La Convenzione, con la presenza del Parlamento europeo e dei rappresentanti delle istituzioni nazionali ed europee, è il solo quadro in cui può emergere la consapevolezza che l’Unione europea ha bisogno non di singole riforme, ma di una riforma globale che faccia emergere una nuova forma di governo a livello europeo, effettivamente dotata degli strumenti (competenze, risorse, poteri) per agire negli ambiti in cui gli Stati membri non hanno più la capacità di agire efficacemente.

   Anche il nostro Governo, pur dichiarando la necessità di costruire una difesa comune e di finanziarla con appositi eurobond, non coglie la dimensione della sfida. Lo dimostra il fatto che non ha voluto recepire, né discutere, la proposta avanzata dall’opposizione con una delle risoluzioni presentate in occasione del confronto parlamentare sulle comunicazioni in Aula della Presidente del Consiglio in vista della riunione del Consiglio europeo; questa risoluzione chiedeva, in uno dei punti che non sono stati recepiti dal Governo, proprio di favorire la riforma istituzionale dell’UE con l’avvio di una Convenzione, nel cui quadro la proposta degli eurobond – e di una riforma generale del bilancio, come pure evocato dalla Commissione europea – diventerebbe realistica e forte.

Pavia-Firenze, 27 marzo 2024

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NEL MONDO CHE BRUCIA L’EUROPA DEVE TORNARE BUSSOLA

di GIANFRANCO PASQUINO, dal quotidiano “Domani” del 27/3/2024

   Quello che è particolarmente preoccupante in questa fase della storia del mondo è che vediamo l’accumularsi di problemi molto diversi fra loro, prodotti da condizioni diverse in luoghi diversi per i quali molte parti indicano una pluralità di responsabili. Intravediamo qualche complicato emergere di soluzioni che rimangono conflittuali e non trovano l’approvazione delle parti in causa.

   Rincorriamo qualche novità, qualche volta esagerandola, che nel migliore dei casi apre spiragli che non lasciano intravedere una strategia abbozzata almeno nelle sue linee generali. Non si può e non si deve chiedere agli ucraini di alzare bandiera bianca, ma nessuno, tranne forse la Cina, è in grado di chiedere a Putin di porre fine al conflitto. La Cina è seduta lungo il corso di un fiume dove pensa, forse spera, magari progetta di vedere “passare” Taiwan, mentre la sua economia non cresce più, ma aumenta la repressione a Hong Kong.

   Appena riconsacrato, Putin che, come tutti gli autocrati, fonda il suo potere anche sulla promessa di ordine e sicurezza (più una rilanciata grandezza) vede la sua capitale ferita da un attacco terroristico con gravissime conseguenze. La sua ricerca di un capro espiatorio nell’Ucraina come mandante non sembra funzionare, ma probabilmente ha finora impedito che gli venga chiesto conto, da un circolo ristretto che mantiene un po’ di potere intorno a lui, dell’avere ignorato la tempestiva segnalazione dell’intelligence Usa di un attacco terroristico.

   La reazione israeliana all’aggressione di Hamas del 7 ottobre continua mirando a ripulire dalla presenza di terroristi i cunicoli di Gaza la cui lunghezza è stata stimata fra le 300 e le 500 miglia. Repressione e oppressione senza soluzione hanno conseguenze imprevedibili, ma non risolutive.

   L’aumento dell’antisemitismo è tanto inquietante quanto accertato, ma rimane deprecabile. Il presidente Biden, giustamente e comprensibilmente, teme che una parte non trascurabile dell’elettorato islamico Usa, finora orientato a favore dei Democratici, lo possa abbandonare decretandone la sconfitta in due/tre stati chiave in bilico e riportando alla Casa Bianca Donald Trump, certamente non un negoziatore né un pacificatore.

   L’astensione Usa sul voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu a favore del cessate il fuoco è un messaggio sia a quell’elettorato sia a Israele, ma il suo impatto non va oltre il breve termine se non sarà accompagnato da veri e propri negoziati per i quali nessuno finora ha indicato le modalità iniziali e una prospettiva plausibile.

   Israele sembra opporsi alla soluzione dei due stati, comunque difficilissima da tradurre in pratica senza la totale smilitarizzazione di Hamas. Nel variegato mondo dei paesi arabi peraltro non si vede grande entusiasmo per la formazione di uno stato palestinese.

   In questo panorama complesso caratterizzato da opzioni diverse 400 e più milioni di cittadini dell’Unione europea andranno a votare per l’istituzione democratica, l’Europarlamento che ne rappresenterà e esprimerà per cinque anni le preferenze, le aspettative, anche gli interessi.

   Senza compiacermi di nessuna critica moralista/buonista, ritengo che sia non soltanto logico, ma assolutamente opportuno che le grandi famiglie politiche europee, preso atto dello stato del mondo, dei due gravi conflitti ai suoi confini, della persistenza del terrorismo di matrice islamica, procedano a una diagnosi approfondita e suggeriscano soluzioni alle quali saranno gli europei stessi a contribuire. Sicurezza reciproca, ricostruzione materiale, ma anche di rapporti, visione di un futuro di autonomia ma anche di cooperazione: per tutto questo vale la pena di impegnarsi, sempre. Se non ora, quando?

(GIANFRANCO PASQUINO, dal quotidiano “Domani” del 27/3/2024)

LA LINGUA PER INFORMARE O PER IMBONIRE? (di GRAZIA BARONI)

Grazia Baroni, Torino 13/3/2024

Statuto delle Nazioni Unite

emanato a San Francisco il 26 giugno 1945:

Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti,(…..)

Capitolo V: Consiglio di sicurezza

Art. 23

Composizione (1) Il Consiglio di Sicurezza si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite di cui la Repubblica di Cina, la Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. (…..)

Art. 24 Funzioni e Poteri

  • Al fine di assicurare un’azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome. (……)

   Leggendo gli articoli di questi trattati emerge chiaramente che c’è un serio problema di conoscenza e di uso della lingua, sia a livello nazionale che internazionale. Urge una riflessione comune per ridare il significato proprio a tutte quelle parole che in questi anni, ne sono state private dal comportamento dei responsabili delle varie istituzioni di governo, nazionali e internazionali, e dalla loro mancata divulgazione all’intera popolazione attraverso la scuola.

   Com’è possibile che uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si permetta di invadere uno Stato sovrano? E oltretutto lo fa in nome delle nazioni firmatarie del trattato. Questo vuol dire che le parole che descrivono le finalità di questi patti sono solo simboli che non hanno più alcun significato, perché nel tempo si è data priorità ad altri valori, come quelli economici e commerciali, anziché mantenere la priorità dei diritti umani e dei valori democratici degli Stati.

   Non ci si è preoccupati di rinnovare i membri del consiglio di sicurezza alla caduta dell’URSS né di ricomporlo quando, all’interno degli Stati, non si rispettano i diritti umani come per esempio accade in Cina.

   Questa immobilità del Consiglio poteva essere tollerata durante la Guerra fredda per mantenere un equilibrio e non dare adito a un nuovo conflitto. Ma dal novembre dell’89, dopo la caduta del muro, questo immobilismo non è più giustificato; è stato questo comportamento che ha tolto il significato e il valore alle parole del Trattato Internazionale.

   Altrettanto grave è la passività del mondo culturale che non ha svolto il compito sociale e democratico di aprire un dibattito pubblico per chiarire e definire che cosa significhino le parole: democrazia, repubblica, politica, burocrazia e che funzione abbiano per lo stato italiano la Costituzione, i Partiti, e le elezioni. Non si è nemmeno ribellato alla cancellazione della disciplina dell’educazione civica dalla scuola media e superiore, come al solito per questioni economiche e per assecondare chi denigrava la scuola italiana come arretrata.

   Lo stesso mondo culturale non ha definito quali siano le prerogative irrinunciabili per uno Stato democratico affinché possa agire come tale, cioè la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo mancato dibattito mostra ora le sue conseguenze con le proposte di riforma costituzionale detta del premierato e dell’autonomia differenziata delle Regioni che vengono avanzate dall’attuale governo di destra e che mettono a rischio la nostra repubblica parlamentare, le istituzioni democratiche e l’Italia come stato unitario.

   È stato possibile presentare questa proposta di riforma perché c’è ignoranza sulle caratteristiche e prerogative delle nostre Istituzioni Statali. Molti ignorano cosa significhi “democrazia parlamentare”. Roberto Benigni aveva visto l’inizio di questo fenomeno, perciò aveva organizzato il suo progetto di spettacolo sulla Costituzione, suggerendo in questo modo alla RAI come fare vero servizio pubblico. Suggerimento che si sono guardati bene dal raccogliere, anche, forse, per non offuscare il concorrente Fininvest di proprietà di un Primo Ministro.

   Come si fa a parlare di democrazia definendola, come ha fatto il Primo Ministro di uno stato europeo, come “illiberale”? Come definire democrazia quella dell’India, la cui società è ancora divisa in caste o quella degli Stati Uniti dove, per esempio, la qualità dell’istruzione non è garantita a tutti in egual misura, così come la salute? È urgente definire cos’è la democrazia e cosa è irrinunciabile perché sia un fondamento riconosciuto e riconoscibile.

   La democrazia non si esaurisce nel rapporto tra maggioranza e minoranza e nella dialettica tra governo e opposizione. La democrazia è un sistema di istituzioni e servizi che permettono a ogni singolo cittadino di avere uguali diritti e opportunità perché possa esercitare la personale libertà in una società altrettanto libera. Questo sistema è definito nella prima parte della nostra Costituzione.

   Alcuni Stati della presunta Unione Europea stanno iniziando a sviluppare questa realtà, ma sono appena agli inizi, perché la libertà è la cosa più difficile da vivere e da condividere. È difficile perché, essendo un valore assoluto, non può avere limiti e quindi l’unico elemento che garantisce la possibilità della sua realizzazione è che ciascuno si riconosca membro insostituibile di una comune umanità. È difficile perché è necessaria la piena consapevolezza di far parte di un comune progetto di convivenza a cui tutti partecipano. Quindi lo strumento principe per la democrazia è l’educazione alla libertà.

   È necessario fornire gli strumenti di conoscenza per dare consapevolezza al cittadino riguardo alle scelte che compie, a partire dal voto. Da qui il ruolo fondamentale della scuola pubblica che deve essere garantita uguale per tutti. Non è un caso che il primo intervento per cambiare la costituzione italiana è stato proprio quello di svalutare la scuola pubblica a favore di quella privata contravvenendo all’indicazione specifica della costituzione che all’articolo 33 diceva che le scuole private non devono costituire un onere per lo stato. Il fatto che questa azione sia stata propagandata proprio come misura democratica dimostra come, spesso, le parole siano usate per influenzare o, meglio, manipolare, l’opinione pubblica.

   E qui emerge il secondo grande responsabile in ambito culturale: il mondo dell’informazione che sia per interessi commerciali sia per pigrizia e forse anche per ignoranza e malafede, per descrivere alcuni concetti, fenomeni e avvenimenti usa termini di diverso significato come se fossero sinonimi; per esempio chiama consumatori i cittadini, clienti invece che passeggeri gli utenti delle ferrovie preparando il cambiamento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato senza dirlo esplicitamente, con una campagna pubblicitaria che non ha mai parlato di privatizzazione. Così la scuola ha chiamato Dirigente scolastico il Preside, facendo intendere che la scuola non sia un servizio ma un’azienda, e ha definito quello che dovrebbe essere il piano pedagogico ed educativo il POF: Piano di Offerta Formativa, come se la cultura fosse un prodotto da vendere. Così i professori non sono stati più inquadrati a ruolo ma secondo il contratto di pagamento a tempo indeterminato come impiegati aziendali; tutto questo non è stato mai detto in maniera esplicita ma presentato come dato di fatto, col silenzio dei sindacati e confidando nell’ignoranza della popolazione assuefatta a una costante informazione superficiale e approssimativa.

   E adesso la proposta di riforma costituzionale spacciata come occasione per dare agli italiani la possibilità di scegliere direttamente da chi vogliono essere governati come i cittadini statunitensi, quando questo non è vero perché negli USA i candidati che saranno oggetto di votazione per diventare Premier sono il risultato di quattro livelli di selezione a partire dalle votazioni per eleggere i governatori di ciascuno Stato.

   Chiamare Premier il Presidente del Consiglio o Governatore il Presidente delle Regione, allude a forme di governo che non hanno niente a che fare con la nostra forma istituzionale di repubblica parlamentare. Il premier appartiene alla realtà del governo federale degli Stati Uniti d’America, che è una repubblica presidenziale, come quella francese. Il Presidente del Consiglio italiano, invece, è indicato dal Presidente della Repubblica che lo sceglie tra i parlamentari eletti durante le votazioni e che lo presenta al Parlamento, vero rappresentante del popolo, il quale con un voto lo accetta o lo respinge. Si chiama Presidente del Consiglio dei Ministri perché sceglierà poi i ministri che comporranno il governo e questo lo fa consultando il Parlamento, il quale alla fine potrà confermarli. Per questo la nostra è una Repubblica Parlamentare proprio perché il Parlamento rappresenta il potere legislativo, sceglie il governo e può anche farlo decadere.

   Purtroppo, in questi ultimi anni i governi hanno abusato dei Decreti-legge, che sono previsti solo come strumento di emergenza, trasformando l’eccezione in una normalità, cosa molto grave perché esclude il ruolo legislativo del parlamento.

   Significativo e indicativo dell’ignoranza della qualità della nostra Repubblica Parlamentare è stato il successo del Referendum che ha dimezzato i membri del Parlamento, diretti rappresentanti della volontà popolare, argomentando questa scelta come soluzione per non sprecare i soldi dei cittadini, come se il lavoro di chi cerca di trasformare in leggi le istanze della popolazione, fosse inutile spreco di tempo e denaro.

   Altra cosa negativa che indica la piaggeria dei mezzi di informazione verso la cultura anglosassone, più pragmatica e mirata maggiormente alla funzionalità dell’agire quotidiano e poco adatta all’astrazione, è il cessato uso del congiuntivo che è il modo verbale che permette di descrivere un futuro immaginabile, funzione propria della nostra lingua e delle sue strutture sintattiche.

   Tutte queste superficialità, ambiguità e approssimazioni predispongono e abituano la mente di chi ascolta a cambiare il significato delle parole e i concetti senza averne piena coscienza, oltre a mostrare la scarsa conoscenza, rispetto e valutazione che i protagonisti dell’informazione hanno dello strumento principe che devono usare: la lingua italiana. Questo tipo di modalità dei mezzi di informazione ha fatto accumulare così tante insufficienze storiche che oggi risulta quasi impossibile trovare il bandolo di questa matassa per permetterci di uscire da questa confusione comunicativa che riguarda direttamente la possibilità di progettare un futuro.

   Alcuni professionisti dell’informazione sembrano considerare il popolo circuibile con giochetti linguistici, come se non facessero parte anche loro della stessa nazione italiana, come se il mondo dell’informazione fosse una realtà separata dal resto della popolazione, come se non appartenessero all’Italia, all’Europa, all’Occidente Democratico e al Mondo.

   Un capitolo a parte merita, poi, l’uso dilagante di termini ed espressioni stranieri per definire cose e concetti che sono più che definibili con la nostra lingua. Questo atteggiamento servile e rinunciatario è un pretestuoso e offensivo uso improprio e culturalmente impoverito dell’espressione dei concetti, come se la lingua italiana fosse inadeguata a descrivere situazioni moderne o complesse.

   È urgente ritornare per chi lavora nei servizi di informazione pubblica all’obbligo di un uso corretto e completo della lingua italiana sia nella dizione che nella sintassi. Perché è rispettando la lingua nella sua compiutezza che si fa vero sevizio pubblico di informazione e ci si rende credibili.

   Inoltre, è altrettanto urgente formare i quadri amministrativi alla cultura e al comportamento democratico nel servizio pubblico, perché diventi cultura comune che i cittadini non sono sudditi ma sono il motivo per cui esistono i servizi. Questi non sono benevole concessioni elargite a coloro che se le meritano ma sono pubbliche strutture che fanno di un popolo una democrazia.

   Bisogna ridare valore alle parole e al loro significato e considerare che la cultura e l’informazione sono strumenti irrinunciabili per la realizzazione di una vera democrazia, che è la forma di civiltà che non solo riconosce l’essere umano come valore, ma soprattutto costruisce la convivenza pacifica, cosa della quale sentiamo di questi tempi tanto il bisogno per dare alla vita la qualità che la rende degna di essere vissuta: la libertà.

(GRAZIA BARONI)

P.S.= Suggerirei il libro “Even. Pietruzza della memoria” di Adriana Muncinelli come libro di testo del primo anno delle scuole superiori perché mostra come i mezzi di informazione hanno educato gli italiani ad accettare senza ribellarsi le leggi razziali del fascismo.

Palestinesi – Israeliani: una pacificazione sarà mai possibile? Il tentativo e la testimonianza dell’associazione PARENTS CIRCLE (con due interviste dalla rivista di Forlì “UNA CITTÀ”)

Famiglie israeliane e palestinesi insieme, entrambe colpite da gravi lutti famigliari di guerra (foto dal sito Home page – Parents Circle Families Forum (theparentscircle.org)

Da “UNA CITTÀ” (https://www.unacitta.it/):

   (…) Dedichiamo diverse pagine al Parents Circle, (Home page – Parents Circle Families Forum (theparentscircle.org) un’associazione “miracolosa” di israeliani e palestinesi, colpiti da un lutto per mano degli altri, che lavorano insieme per promuovere la concordia tra i due popoli. Ascoltare i tragitti compiuti a fatica, dall’odio all’amicizia, è commovente. Di quel che succede abbiamo già detto e tutto sembra confermarlo: destra israeliana e Hamas hanno lo stesso obiettivo: impedire ogni possibile ripresa del progetto “due stati” e per far questo il numero dei morti palestinesi è decisivo. Il cinismo di entrambe le parti è impressionante. Ma c’è una differenza: i fanatici musulmani che sognano la Umma hanno tempo e, nel frattempo, vanno in paradiso: ma gli israeliani? Hanno tempo? Qual è la prospettiva se i palestinesi, come hanno dimostrato, non se ne vanno? Tenerli sottomessi per generazioni sul modello sudafricano? Ma non sanno che i “sottouomini” alla fine, dopo tante sofferenze, possono farcela? E a quel punto? E tutto per la Cisgiordania dove “hanno camminato i patriarchi”? Non resta che sperare che, da entrambe le parti, dal peggio nasca il meglio. 

   Riproponiamo le interviste ai membri del Parents Circle Bassam Aramin, palestinese e Robi Damelin, ebrea sudafricana, emigrata in Israele. 

   Siccome anche noi pensiamo che i territori, e in particolare la Cisgiordania, siano alla radice del conflitto terribile odierno, apriamo la rivista con la citazione illuminante di Leibovitz del 1968.
“Il dominio sui territori occupati avrebbe ripercussioni sociali […]. Uno Stato che governa una popolazione ostile di 1,5-2 milioni di persone è destinato a diventare uno Stato di polizia segreta, con tutto ciò che ne consegue per l’istruzione, la libertà di parola e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale prevarrebbe anche nello Stato di Israele. L’amministrazione dovrebbe sopprimere l’insurrezione araba da un lato e procurarsi quisling arabi dall’altra. C’è anche una buona ragione per temere che la Forza di Difesa di Israele, che finora è stata un esercito di popolo, trasformandosi in un esercito di occupazione, degeneri… Per amore del popolo ebraico e del suo Stato non abbiamo altra scelta che ritirarci dai territori […]. Non ogni “ritorno a Sion” è un traguardo religioso significativo… esiste un tipo di ritorno che può essere descritto con le parole del profeta: “Quando sei tornato, hai contaminato la mia terra e hai reso la mia eredità un abominio”
 (Geremia 2:7). Yeshayahu Leibowitz, “The Territories” (1968)

Da “UNA CITTÀ” (https://www.unacitta.it/)

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QUEL FILM IN CARCERE

La resistenza palestinese e l’arresto a 17 anni, la visione, durante la detenzione, di un film sulla Shoah, che sconvolge; alla liberazione l’impegno nei “Combatants for peace”, ma poi l’impensabile: la perdita della figlia, di soli 10 anni, per mano di un soldato e però, ancora una volta, la scelta di lavorare per tenere aperto un dialogo, entrando nel Parents Circle; Israele troverà la sicurezza solo quando farà la pace con i palestinesi. Intervista a Bassam Aramin.

Bassam Aramin, palestinese, già condirettore del Parents Circle-Families Forum, ha trascorso sette anni in un carcere israeliano per il suo ruolo nella resistenza palestinese. Nel 2007 sua figlia Abir, 10 anni, è stata uccisa da un soldato israeliano. Vive a Gerico, in Cisgiordania.
Prima di tutto vorrei chiederti di raccontare brevemente la tua storia e di come sei entrato nel Parents Circle.
Ho trascorso sette anni nelle carceri israeliane, ci sono entrato quando avevo 17 anni. Proprio in prigione ho visto un film sull’Olocausto, ed è così che ho scoperto della sua esistenza. Fino ad allora pensavo fosse una bugia, mi dicevo: “Non ne ho mai sentito parlare…”. All’epoca fu molto difficile per me guardare quelle immagini; quella visione mi ha segnato al punto che, venticinque anni dopo, ho conseguito un master sull’Olocausto. A muovermi era stato il desiderio, la necessità di saperne di più sull’altra parte.
Quando sono stato rilasciato, sette anni dopo, Continua a leggere “Palestinesi – Israeliani: una pacificazione sarà mai possibile? Il tentativo e la testimonianza dell’associazione PARENTS CIRCLE (con due interviste dalla rivista di Forlì “UNA CITTÀ”)”