LA DEMAGOGIA NON CREA LAVORO (di MARCO BENTIVOGLI, da “La Repubblica” del 24/11/2022)

   L’ approccio binario a tutte le questioni produce effetti devastanti nel governo delle transizioni e nelle politiche sociali e del lavoro. Lo stesso vale per il reddito di cittadinanza. Le politiche sui pro/contro dovrebbero almeno partire dall’analisi dei dati.

   Il reddito di cittadinanza è per molti l’unico intervento di politica sociale. Per questo non va abolito ma va modificato perché sia efficace contro le povertà e non consideri tale condizione una condanna a vita. La Caritas, nell’ultimo rapporto sostiene che solo il 47% dei poveri lo riceve. Perché? È stato costruito male perché guidato una fortissima finalizzazione elettoralistica. E dal 2005 i poveri sono triplicati.

   I dati di agosto ci dicono che i primi sette mesi del 2022 sono stati 1.605.819 i nuclei percettori di almeno una mensilità di RdC/PdC (reddito/pensione di cittadinanza, NDR), con 3.515.428 persone coinvolte e un importo medio erogato di 552,33 euro. Tra gennaio e luglio 2022 è stato revocato il beneficio a 37.885 nuclei e sono decaduti dal diritto 207.033 nuclei.

   Malcontati, 1 su 3 dei beneficiari sono “occupabili”, ovvero circa 1 milione. L’esortazione nell’Italia della rendita “andate a lavorare” – abusata al centro e nella destra è altrettanto demagogica.

   Nel nostro Paese le politiche attive del lavoro danno lavoro agli esperti di politiche attive del lavoro. Perché la politica o non ci crede, o non ha il coraggio di scomodare nessuno perché tali misure abbiano un impatto reale e portino ad un diritto esigibile. Chi vanta risultati nel breve periodo generalmente “mente”, il lavoro merita investimenti veri con politiche serie e con ampi orizzonti.

   Destò sconcerto la gestione dell’Anpal (Agenzia Nazionale per le politiche del lavoro) da parte di Mimmo Parisi, scelto da Conte e Di Maio, ma in realtà i successori non hanno fatto notare grosse discontinuità. Il paradosso è che le politiche attive funzionano nelle regioni con più bassa disoccupazione ma anch’esse hanno un elevato skill mismatch (disallineamento tra competenze richieste e quelle costruite nel nostro sistema di istruzione e formazione). È un’altra delle tante storture generate della riforma del Titolo V, che assegna alle regioni un ruolo importante spesso in contrasto con qualsiasi politica nazionale. Mediamente i Cpi (i centri per l’impiego) non hanno trovato lavoro a più del 3,76% di chi vi si è rivolto.

   Gli italiani hanno un motivo in più per ringraziare l’Unione Europea perché tutte le volte che utilizziamo i fondi comunitari, contengono l’obbligo di misurare i risultati e l’impatto delle politiche. Storicamente misurati in Italia da propaganda, demagogia e autocertificazione. Il Pnrr su lavoro e industria non ha dato il meglio di sé. Serve un approccio oggettivo, senza il timore di scontentare nessuno. E senza la propaganda della solita partigianeria faziosa. Appunto guardando i dati. Se le cose non funzionano, metterci tanti soldi non sistema le cose. Esattamente quanto accaduto con i Centri per l’impiego.

   Il piano Gol (garanzia di occupabilità dei lavoratori), come ci ricorda la bravissima Lucia Valente, prevede l'”attivazione” di 300.000 persone nel mercato del lavoro entro quest’anno. Significa che sono persone che avranno accesso al lavoro? Magari. Sono persone accolte nei Cpi, a cui è stato fatto un colloquio, dichiarazione di disponibilità al lavoro e firmato un “patto per il lavoro” senza nessun avvio al lavoro. A caro prezzo: per questo obiettivo il governo ha già erogato alle regioni il 75 per cento degli 880 milioni della prima tranche, si è impegnato a raddoppiare il risultato portandolo a 600 mila unità come target nazionale per il 2022. Quando le cose non funzionano, l’autonomia delle regioni può essere derogata quantomeno per non sciupare risorse pubbliche.

   Il governo Meloni propone il superamento del reddito di cittadinanza dal 2024. Un aumento delle condizioni per poterlo ricevere nella fase transitoria e un solo fatto positivo: la formazione obbligatoria di 6 mesi per i beneficiari dai 18 ai 59 anni. Ma chi si occuperà della formazione, e della sua qualità e della sua “adattività”? È un mistero. Come nei precedenti governi, si scimmiotta la flex-security, con idee chiare sulla “flex” e nessuna sulla nuova protezione sociale e sulla capacità di costruire politiche di riscatto e soprattutto soggetti attuatori in grado di realizzarle. Infine, per i 2 milioni di “non occupabili”, cancellati gli abusi, cosa si metterà in campo?  (MARCO BENTIVOGLI)

LINGUAGGIO, STORIA E FUTURO (di GRAZIA BARONI)

 

(da https://www.demospiemonte.it/ 15/11/2022)

   Guardando la situazione nazionale e internazionale, i temi che qui vengono proposti per una riflessione possono apparire marginali; invece, un loro approfondimento potrebbe segnare un vero cambiamento nei rapporti tra gli Stati e tra i governi e i cittadini. Il fatto che per la prima volta sia stata eletta presidente una donna ha creato nuove speranze, che sono state a breve disattese, fra le proposte del nuovo governo non emerge un rinnovarsi delle priorità, un modo nuovo di interazione tra forze politiche, si propone ancora sempre la mentalità della contrapposizione ritornando al rapporto di forza.
   E pensare che la donna nella storia ha accumulato un patrimonio di sapienza in millenni di maternità nel creare comunità mettendo al centro lo sviluppo e la realizzazione di ogni persona creando spontaneamente realtà sociali nella costruzione di nuclei famigliari a fondamento delle civiltà.
   Il gusto di riuscire a costruire un ambiente armonioso nel quale si facilita la vita agli altri, privilegiando l’aspetto relazionale, non richiede altro riconoscimento; per questo la donna non ha avuto e non ha bisogno di dimostrare le sue capacità e di mettersi in competizione. Trae soddisfazione e la conferma della bontà delle proprie scelte dalle relazioni che riesce a creare attorno a sé. Il valore aggiunto di un governo con una donna a capo avrebbe quindi potuto essere quello di sostenere e incentivare la realizzazione profonda e articolata di ciascuna persona e la cura dell’ambiente. Mettere al centro l’essere umano con tutti i suoi desideri, prospettive, diritti e dignità è darsi lo strumento che indica ciò che è necessario attuare, le priorità da soddisfare e il percorso da seguire per migliorare la società. Sarebbe un passo verso una vera innovazione della convivenza di cui abbiamo più che mai bisogno ed è una scelta ancora possibile.
   Però nel suo recentissimo discorso programmatico il nuovo governo, parlando del concetto di patria, ha riconosciuto il Risorgimento come sua origine, ma ha saltato a pié pari la Costituzione del ’48, frutto anche della lotta partigiana a cui ha partecipato tutto l’arco politico. Questa omissione, non è stata fatta in nome dell’unità, ma solo per esaltare il concetto di sovranità nazionale contrapponendolo al progetto dell’Unione Europea come soggetto politico unitario. L’unità d’Italia, invece, è nata dalla ricerca della libertà per tutti, così come il progetto dell’Unione Europea è stato organizzato come passo necessario alla realizzazione della pace.
   Il processo storico che ha permesso la costruzione dell’Italia come stato unitario e sovrano era stato quello corretto, perché non ha vietato nulla, ma ha proposto un progetto più evoluto e più inclusivo di quello esistente. Con l’unità prima e la Costituzione italiana poi si è fatta l’Italia sulla creazione di servizi nazionali: la scuola, la posta, le ferrovie e il servizio di leva; pensando all’Italia come il progetto che valorizzava le storie delle singole regioni. Ogni regione ha mantenuto le proprie tradizioni e specificità, infatti non si sono omologate le abitudini culinarie delle singole località, non si è proibito la celebrazione delle feste, dei costumi locali e neppure l’uso dei dialetti ma si è proposta la lingua italiana come strumento unificante di comunicazione.
   Oggi la proposta politica rinnovatrice e aperta al futuro dovrebbe uscire dall’ottica dell’Italia delle regioni con le sue autonomie, contraria all’attuale realtà italiana, e concepirsi come parte della realtà europea; la quale, a sua volta, dovrebbe uscire dalla logica delle singole nazioni. Dire questo oggi sfiora il sacrilegio, infatti apparentemente l’autonomia è il concetto più coerente e più vicino all’idea di democrazia, in quanto sembrerebbe garantire delle libertà. Ma non è così. Adesso l’autonomia è intesa come conservazione di privilegi. Ma la democrazia non ammette privilegi, si basa sulla capacità di integrazione delle diversità. Dunque è il riconoscere e qualificare le peculiarità come il valore aggiunto della società intera, come recita il motto dell’unione Europea: “Unita nelle diversità”.
   Bisogna ricordare che per costruire l’Italia si è fatto capo ai Savoia perché questo casato non aveva mai rinnegato lo Statuto Albertino, la costituzione, che garantiva le libertà: di stampa, di opinione, di religione, di riunione, di proprietà privata, di inviolabilità del domicilio, di uguaglianza mentre Parma e Piacenza, Lombardo-Veneto, Gran ducato di Toscana, Stato della Chiesa e Regno delle due Sicilie avevano rinnegato i propri Statuti. È l’aspetto democratico quello che ha unito l’Italia; infatti, gli altri territori si sono legati al Regno di Sardegna spontaneamente, per plebiscito alcuni e per partecipazione popolare alla Spedizione dei Mille gli altri.
   La forma dello Stato si è poi perfezionata dopo il Fascismo con la scelta della Repubblica invece della monarchia e con la Costituzione del ’48, costruita sulla libertà come valore difeso e sostenuto dalla Resistenza. Scrivere questa Costituzione ha significato rendere attualizzabili e praticabili i principi democratici, perché è un testo condiviso e nato in un momento in cui si aveva molto chiaro il significato del concetto di libertà personale e di giustizia sociale: dare a tutti le medesime possibilità.
   La democrazia rende altrettanto chiaro il fatto che riconoscere pari dignità alle persone non significa considerarle uguali, omologarle, come invece fanno tutte le dittature e i governi autocratici. Mai come ora la necessità di chiarire il significato di alcune parole è diventata ineludibile; difatti, con l’accumulo nel tempo di approssimazione su approssimazione, come è proprio di ciò che è vissuto quotidianamente, il loro uso ne è diventato distorsivo. Ne sono un esempio, i termini: autonomia, diversità, sovranità e identità.


   A questo punto l’uso corretto del linguaggio è determinante nella definizione e nella comunicazione del concetto. Usare le parole con la forma più appropriata rispetto al soggetto cui si riferiscono, è fondamentale per non deformare i principi che guidano una nazione. Come già detto questo vale per la parola autonomia, ma anche per “sovranità” e “identità”. Il concetto di sovranità nazionale riporta al nazionalismo, riconduce ancora una volta alla dimensione feudale, se non tribale. L’unico soggetto che può essere sovrano in democrazia è la persona, sovrana di sé stessa, altrimenti si ripropone una realtà in cui la sovranità è indice di proprietà, assolutamente fuori luogo oggi, quando il termine nazione indica un reciproco riconoscimento di valori e non un possesso.
   Pensiamo poi al concetto di “identità” che va benissimo rispetto alla persona, ma diventa strumento di razzismo e esclusione degli altri quando le si aggiunge un aggettivo come in “culturale”. L’identità sottolinea l’unicità in cui si riconosce la persona, come l’impronta digitale non separa in categorie non massifica e non esclude.
   Sollevare il tema dell’autonomia regionale è l’effetto di una realtà che non ha risolto il problema del nazionalismo, cioè il far coincidere il concetto di Nazione al concetto di Stato. Il termine Nazione nasce dal fatto che un popolo si è riconosciuto nel dare valore alla vita, nei suoi nati, anziché nei morti – mentre gli altri popoli si riconoscevano come appartenenti al territorio in cui erano sepolti gli avi.
   La cultura occidentale inizia a costruirsi e a distinguersi dando valore alla vita e continua evolvendosi nella conquista della libertà fino a raggiungere la democrazia che è la libertà di tutti e per tutti. Lo Stato, invece, definisce un progetto di convivenza organizzata da condividere; è la definizione del processo di concretizzazione delle conquiste civili che hanno permesso l’uscita dal feudalesimo che era la suddivisione dei territori con i loro abitanti in piccole proprietà, appartenenti invariabilmente a un Signore. Invece Lo Stato è un progetto condiviso dai membri che lo compongono. Per costruirlo sono necessarie le Istituzioni che rappresentano lo scheletro con cui si realizza il progetto.
   Far coincidere questi due concetti porta a pensare che il diritto garantito dal progetto di Stato spetti al cittadino per la sua appartenenza di sangue; insomma riporta la dimensione tribale là dove dovrebbe esserci una libera scelta di valori condivisi, riconosciuti e migliorati da ciascuno.
   La consapevolezza di partecipare ad un progetto di convivenza comune e condiviso, infatti, è la base su cui si costruisce la democrazia: l’assunzione di responsabilità, non l’appartenenza di sangue.
   Per questo motivo è la stessa democrazia che garantisce il rispetto delle peculiarità territoriali, non ci sarebbe necessità di ulteriori specificazioni
   Il progetto politico è e resta l’unità dell’Italia le cui caratteristiche che del resto corrispondono a quelle dell’unità europea, sono: il diritto della persona, la giustizia sociale e la pace.
   Per questo ritengo che la modifica del titolo quinto della Costituzione del 1997 sia ideologica, approssimativa e insufficiente: non ha tenuto conto della necessità di conservare il carattere, almeno nazionale, delle Istituzioni, quando avrebbe dovuto addirittura incominciare a modularle a livello europeo. L’applicazione del titolo quinto come autonomie politiche ha ricreato 21 stati, ha ridotto l’unità nazionale ad una imperfetta confederazione. Ha peggiorato la qualità della vita e ha aggravato i conti pubblici. I servizi pubblici, nel loro spezzettamento in dimensioni regionali, sono stati ridotti ad aziende gestite come società per azioni, finalizzate alla produzione di profitto, perdendo la qualità di servizio al cittadino. Ancor più grave, questo non è stato condiviso come progetto con la cittadinanza in modo democratico, anche se sottoposta a referendum, perché, la cittadinanza è stata manipolata attraverso i mezzi di informazione, per farle accettare la trasformazione.
   Se la qualità democratica viene meno, si dà spazio al modello liberista che tende ad omologare ogni aspetto della realtà ad un unico metro, quello del profitto, creando squilibri sociali e diseconomie.
   Se le differenze vengono esaltate per squalificare l’altro, cioè si parte dalle particolarità nazionali e le si difende imponendole come muri invalicabili, invece di essere funzionali, diventano ostacoli allo sviluppo economico e alla realizzazione di un progetto politico che oggi è assolutamente necessario nel quadro mondiale. La mancanza dell’Unione Europea si sente in tutti i campi: l’Europa potrebbe essere il mediatore in grado di costruire le condizioni necessarie alla pace, anzi con l’Europa come stato democratico e unitario la guerra in Ucraina non ci sarebbe neppure stata. Anche le speculazioni su gas e petrolio non ci sarebbero o sarebbero molto meno importanti.
   Perché il progetto europeo non regredisca ma migliori, è necessario capire che è a partire dalla realizzazione politica dell’Unione europea che si rendono efficaci e utili le particolarità dei singoli stati: non solo si salvaguardano, ma si rendono funzionali alla complessità della realtà europea e mondiale. Se si riconoscessero gli aspetti migliori di ciascun paese e si condividessero, migliorerebbe la qualità della vita di tutti e soprattutto si potrebbe iniziare un processo di convivenza mondiale aperto. Il futuro non sarebbe più un baratro minaccioso ma un vero spazio di speranza. (GRAZIA BARONI)

NEXT GENERATION: CI PENSIAMO DAVVERO?  (di MARIO FADDA)

 

   Il documento – almeno nella versione EU – già nel titolo, denuncia la volontà di essere presente, se non partecipe, nel panorama delle profonde trasformazioni mondiali in atto, pensando a chi verrà dopo di noi.

   Non entro nel merito dei contenuti, che comunque mi sento, in generale, di sostenere, ma pongo una questione di metodo che mi pare determinante, pensando a chi è il soggetto, o meglio, i soggetti che dovranno attuare il programma e con quali tempi.

   La riposta potrebbe sembrare ovvia: saranno le forze che governano il Paese, cioè il Governo con il proprio sostegno parlamentare.

   Ma quanto scrive oggi, 16 novembre, Natale Forlani su “politicainsieme” mi aiuta a riflettere con più attenzione.

   Guardo nel passato (guardo il Bel Paese, ma in realtà quanto vedo mi fa riconoscere anche altri vicini di casa) e vedo due tappe fondamentali del comportamento dei due soggetti e della e(in)voluzione avvenuta in Italia negli ultimi sessant’anni, dove il governo del cambiamento, che si realizza su tempi più lunghi delle programmate (ma spesso anticipate) scadenze elettorali, dovrebbe verificare quanto si è realizzato del promesso, per aggiornate piani e programmi, con adeguate revisioni di tempi e mezzi.

   Su cui misurarsi con lo strumento che può riproporzionare le forze in Parlamento.

   Modello quasi perfetto, se il Governo sapesse usare i mezzi del “liberismo corretto” (torniamo agli antenati: Marshall, Keynes, Sraffa, Roosevelt…) attuato con piena libertà di iniziativa per chi detiene i mezzi per investire in tradizionali e nuove attività produttive, ma affiancato da chi (il potere pubblico, fondato sul consenso, della maggioranza almeno!) è in grado di sostenere attività meno redditizie, ma indispensabili per lo sviluppo economico e sociale diffuso.

   Tutto ciò in Italia è finito, come ho già accennato, da oltre mezzo secolo, dopo la mezza dozzina di anni postbellici.

   Bisognerebbe tornare con la memoria ai due tentativi, entrambi falliti, di dialogo tra Cattolici al Governo (Dossetti) e Cattolici della Resistenza (Balbo) o tra Cattolici ancora di governo (Moro) e Comunismo in ricerca (Berlinguer) per capire quanto le forze più miopi (uso un aggettivo gentile!) abbiano contato nel non permettere di intraprendere nuovi percorsi.

   Delle attività partecipate – cioè volontariamente sostenute – dallo Stato cosa rimane?

   Un esempio su tanti possibili: l’Eni non è più il soggetto che conquista spazi internazionali per l’Italia, ma un socio della banda che spreme territori ricchi di risorse naturali e poveri di mezzi di garanzia e difesa per la popolazione; e poi la produzione di armi, che vanno anche in mani che ci ricambiano perfino con delitti che ci toccano (Egitto insegna!) e sappiamo bene che il giusto preoccuparsi dell’Ucraina, vicina di casa, ci fa però dimenticare la ventina di paesi al mondo che sono in stato di guerra.

   Ma si sa, che la distanza rende l’udito debole!

   Cosa manca, dunque, perché la next generation esca dal torbido?

   Cinquant’anni fa si chiamava “programmazione”: non la rimpiango, nel modo in cui ebbe campo, perché la visione del futuro non fu accompagnata da una adeguata compresenza di un dettaglio di azioni calibrate sul ciclo elettorale, quindi sottoponibile a una valutazione periodica di metodi e mezzi di attuazione, ma confermate dalla continuità di programmi lungimiranti, quelli appunto stabiliti in base a una adeguata visione di lungo periodo: mancò il raccordo tra buone idee di “progresso”, cioè di indirizzo del cambiamento, determinato dal quella che si chiamava modernizzazione e progetti/programmi verificabili in tempi politicamente controllabili.

   Dopo di che si è preferito mantenere la parte scadente: il gioco parlamentare si è fatto sempre più dialettico, con il tramonto di ideologie esaurite, cui non ha corrisposto la formulazione di nuove prospettive etiche e culturali.

   L’ultimo barlume di attenzione per questo tipo di impostazione è nei programmi di chi si candidò alle elezioni politiche che diedero il governo a Renzi, ma che furono solo esercizi di autopresentazione, non certo programmi di idee e di governo (cioè – torno al nodo – di progetti di lunga prospettiva, attuabili con dichiarati programmi sottoposti alla verifica della scadenza elettorale).

   Sicché il “modello keynesiano,” impropriamente rievocato, giustificò certi rimpianti su partecipazioni statali, iri e quant’altro: ma quel modello, posto che lo si avesse veramente voluto rispettare, avrebbe richiesto ben altro significato nell’azione pubblica, che – appiattendosi sulla sola missione imprenditoriale – perse vitalità.

   Oggi lo Stato è “padrone” di qualche pacchetto azionario, di un bel po’ di idrocarburi e notevole produzione di armi.   Più una cassa (dove si deposita denaro e lo si presta su urgenze riscontrate) senza nessuna altra visione delle relazioni tra economia e sviluppo complessivo della società e di questo Paese.

   Non essendo un economista, non vado oltre nella critica al modello keynesiano e al suo (ab)uso: però sollecito tutti a ricordare che oikos-nomos (cioè le regole per il governo della casa) viene dopo, deve derivare da oikos-logos (l’idea di casa, cioè il modo di intendere il vivere in comune) non prima, come invece ormai ci ha abituati un’economia del denaro che ha ridotto il campo dell’ecologia alle sole azioni di pulizia che giustifichino ancora di più gli obiettivi di uso, magari abuso, di risorse.

   A causa di ciò anche lo Stato non vede oltre questo orizzonte ristretto ed elude suoi importanti ruoli: garantire la salute di tutti (non basta una Sanità malridotta), sostenere la formazione del cittadino ai massimi livelli, ridando spazio e significato alla parola educazione (mentre la scuola ha avuto riforme non accompagnate da adeguata azioni di formazione del personale, fino ai livelli universitari, affogati in tecniche di carriera che hanno reso assolutamente volontaria, cioè occasionale, ricerca e innovazione), promuovere attività produttive avanzate là dove la qualità dell’innovazione non compensa ancora il peso dell’azione, con equilibrati compensi economici, scoraggiando quindi l’imprenditorialità privata, che necessita di garanzie di buona resa.

   Ma più che discutere dei compiti dello Stato, che in fondo sono abbastanza noti e su cui, rispetto alla deludente ed elusiva situazione in atto, ciascuno trova la scusa per sé, scaricando la colpa sugli altri, penso che si debba andare alla base del problema.

   Smith e Lenin – pur con idee diametralmente opposte –  hanno ammesso lo stesso limite alla capacità di pensare la trasformazione della società: che le questioni su cui operare fossero il controllo delle risorse e la migliore resa ricavabile, lasciando principi etici e adeguati processi culturali per diffonderli sul piano di vaghe formulazioni di “ideali”.

   E con questa parole il gioco ebbe per entrambi lo stesso esito: la visione del futuro resta una speranza, non un progetto di cui pensare percorsi e mezzi e strumenti di attuazione.

   Dopo oltre due secoli, oggi siamo a un punto di svolta.

   Lo determina il processo evolutivo della specie umana, la più fertile nel generare effetti di trasformazione dell’ambiente in cui viviamo.

   E’ notizia del giorno la nascita di chi ha fatto raggiungere alla specie la soglia degli 8 miliardi di esemplari in vita.

   Ricordando che la superficie delle terre emerse è poco meno di 150 milioni di kmq, un facile calcolo mi fa vedere il mio vicino a 100 metri da me, che dispongo di meno di due ettari di terra su cui vivere, metter casa, trovare il campo in cui piantare insalata per avere cibo, una macchina per produrre qualche cosa da vendere, perfino una spiaggia su cui portare moglie e figli.

   Per fortuna abbiamo inventato la città, che ci consente di vivere ammucchiati e lasciare buona parte dei due ettari per sedi di lavoro e tempo libero!

   Capisco che la riflessione possa apparire paradossale, ma voglio solo dire che se non ci mettiamo a pensare la “trasformazione” del mondo e del modo in cui viviamo, il pessimismo di certi ambientalisti diventa realtà.

   Dobbiamo riprendere la riflessione da dove chi propose la ragione come fondamento della costruzione umana si trovò a scontrarsi con chi rispose con la fede: entrambi convinti che l’una valesse più dell’altra e quindi dovesse prevalere.

   Ma soffrirono entrambi dei limiti che quella fase storica induceva, ancora modestamente fornita di strumenti di previsione e progetto, che i secoli a venire avrebbero fornito.

   Ogni tempo soffre di qualche insufficienza.

   Oggi noi soffriamo della consapevole modestia di quanto disponiamo, rispetto a quanto abbiamo certezza essere l’infinito dell’universo, ma abbiamo la possibilità di meglio governare il nostro spazio, la Terra, senza consumarla e distruggerla, come invece siamo a rischio di fare.

   Impariamo a meglio governare (che vuol dire usare senza distruggere) i nostri due ettari di terra e, con il vicino, governeremo la Terra, ricominciando da quelle istituzioni – che sono state ridotte a luogo di spettacoli mondiali, come è in corso oggi al Cairo – che vanno ripensate e ricostruite.

   Un bell’impegno per our generation. (MARIO FADDA)

IL DEFICIT DI POSTI DI LAVORO (di Maurizio Ferrara, da “il Corriere della Sera” del 14/11/2022)

(SUL LAVORO)

   Giorgia Meloni è stata particolarmente creativa nel disegnare il profilo del suo esecutivo: modificando molte delle denominazioni tradizionali (come Istruzione e Merito, Imprese e Made in Italy o ancora Politiche del mare e Protezione civile). Già che c’era, avrebbe potuto osare di più e creare un nuovo Ministero: quello per le Competenze, la Formazione e la Nuova Occupazione. Non è solo una battuta.

   Su questi tre versanti si annida infatti una delle più serie emergenze nazionali: la mancanza di posti di lavoro. E, di conseguenza, la cronica insufficienza di reddito e il persistente rischio di povertà per moltissime famiglie italiane. Si tratta di una emergenza molto sottovalutata nel dibattito pubblico. Tutti i giorni qualche quotidiano diffonde l’allarme di imprese che non trovano personale da assumere. Ciò induce a pensare che i bassi livelli di occupazione riflettano essenzialmente il divario fra le competenze di chi cerca lavoro e quelle richieste dalle imprese. Oppure che la colpa sia del reddito di cittadinanza, il quale rende più conveniente percepire il sussidio piuttosto che accettare una proposta di assunzione.

   Entrambi i fattori giocano senz’altro un ruolo. Il sistema formativo italiano funziona male. Le politiche attive sono poco efficaci, la maggior parte dei sussidiati è privo di competenze, il reddito di cittadinanza è disegnato in modo grossolano e mancano i controlli. Sono problemi che vanno seriamente affrontati. Ma anche se per miracolo fossero risolti, l’anomalia italiana rimarrebbe.

   Lasciamo parlare i dati. Secondo le stime della Ue, nel 2021 le imprese (manifattura, servizi e costruzioni) che hanno incontrato problemi nel reclutamento di nuovo personale sono state il 12% del totale. Tante, sì. Ma in Francia la percentuale è stata pari al 14%, in Germania al 21% e in cinque altri Paesi ancora più elevata. Ciò vuol dire che il cosiddetto mismatch (il disallineamento fra le competenze offerte e quelle richieste) non è un’esclusiva italiana ed è anzi più acuto in Paesi che hanno tassi di occupazione ben più alti dei nostri.

   In altre parole, il deficit di posti di lavoro non può essere imputato solo alla questione delle competenze e della formazione. Quanto ai disincentivi, i percettori di reddito di cittadinanza inseribili nel mercato del lavoro sono circa un milione, un numero più elevato rispetto alla media Ue. Immaginiamo che, eliminando il sussidio, tutti questi si mettano a lavorare. Il tasso di occupazione salirebbe un po’, ma il divario non si colmerebbe. E resterebbero comunque senza lavoro i circa due milioni di «scoraggiati», ossia persone – moltissime donne – che hanno perso ogni speranza di inserimento.

   Per capire appieno le ragioni della difformità italiana, dobbiamo allora guardare al lato della domanda. Dove si concentra il deficit di occupati? Diciamo subito che non si tratta dell’industria. Le nostre imprese manifatturiere impiegano più addetti e assorbono più giovani rispetto a quelle tedesche, nonostante il mismatch. Il vuoto riguarda principalmente due settori. Il primo è l’economia «verde», ossia le attività legate alla transizione ecologica. Qui l’Italia offre circa 300 mila posti in meno rispetto a Francia e Germania, mezzo milione in confronto a Gran Bretagna e Svezia. Il secondo settore è quello dei servizi alle persone, in particolare sanità e servizi sociali: la cosiddetta economia «bianca» (dal colore dei camici dei fornitori ma anche della capigliatura degli utenti). Qui il deficit è massiccio: almeno un milione e mezzo di posti in meno.

   Questo ammanco sconta un quindicennio senza investimenti e con il blocco del turnover. Si è così creato un gigantesco circolo vizioso: meno posti di lavoro (in un comparto che è molto cresciuto in altri Paesi), più famiglie monoreddito con entrate insufficienti ed elevati carichi di cura, più sussidi assistenziali, meno figli, più anziani.

   Il nostro ministro immaginario per la Nuova Occupazione avrebbe un’agenda molto fitta. E sicuramente non facile da realizzare. Da un lato, andrebbe a cozzare con molti interessi organizzati, presidiati da altri ministeri (Istruzione e Lavoro) e dalle Regioni (per quanto riguarda formazione, sanità e servizi sociali). Dall’altro, non avrebbe dietro di sé una coalizione sociale di sostegno. Gli scoraggiati, i minori, i non autosufficienti, le tante donne intrappolate all’interno della famiglia sono un pubblico debole, frammentato e difficile da mobilitare. Nell’ultimo decennio, al congelamento della spesa per sanità e servizi (istruzione compresa) ha fatto da contraltare la crescita della spesa pensionistica (pensiamo alla decina di «salvaguardie» e a quota 100).

   Il Pnrr ha messo a disposizione risorse per le infrastrutture sociali, ma non abbastanza. Mentre, da quanto si capisce, anche la prossima legge di bilancio avrà come piatto forte l’anticipo dell’età di pensionamento. Una misura che rischia di sottrarre a sanità e assistenza ulteriori addetti e competenze. E che, abbassando il tasso di occupazione, non farà che aggravare il circolo vizioso. (MAURIZIO FERRARA)

DEMOCRAZIA DELIBERATIVA COME SFIDA AL POPULISMO (di STEFANO ZAMAGNI, da “Il Sole 24ore” del 3/11/2022)

I RISCHI GENERATI DAL CAPITALISMO FINANZIARIO E DALLA DEMOCRAZIA DIRETTA SONO PRESENTI NELLE SOCIETÀ ATTUALI

Da “il Sole 24ore” del 3/11/2022 qui di seguito uno stralcio dalla lectio magistralis tenuta da STEFANO ZAMAGNI al FESTIVAL DIALOGHI DI PANDORA-RIVISTA tenutosi a Bologna nel mese di ottobre. Il testo completo della conferenza dell’economista sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista «PANDORA»

   Viviamo un momento di accelerazione della crisi della nostra democrazia, un momento nel quale il disincanto democratico contemporaneo pare avere la meglio sulla prospettiva di dare vita a un modello di democrazia all’altezza delle sfide in atto. Come far diventare reali le democrazie nominali e come assicurare la partecipazione effettiva nella deliberazione politica? Come scongiurare il rischio di una democrazia senza cittadini?

   Per sua natura la rappresentanza politica si basa sul confronto, sull’incontro di opinioni e interessi, tanto che il sistema parlamentare è sempre stato considerato come un government by discussion. Nel secolo scorso, snodo essenziale di tale sistema sono stati i partiti politici, camere di elaborazione delle opinioni. Da quando è nato, tale meccanismo ha sempre conosciuto imperfezioni e quasi sempre la democrazia ha trovato i suoi antidoti. La situazione odierna presenta una grande novità.

La democrazia all’epoca dei social

Accade infatti che i messaggi brevi e fulminei dei social sono tanto più efficaci quanto più disconnessi da qualsiasi riflessione e sono tanto più efficaci quanto più sono radicali. Gli algoritmi fanno prevalere le posizioni più semplici e dunque drastiche, che accentuano il divario tra “noi” e “loro”. Non costruiscono opinioni, ma catturano e forgiano identità, esasperando una inclinazione ben nota agli psicologi, secondo cui prestiamo ascolto a ciò che già ci è familiare. Non solo, ma riconosciamo e aderiamo alle idee che già abbiamo, cioè viviamo in una echo chamber. In tale contesto, il discorso politico diviene refrattario ai dati di fatto e pure alle verifiche. Come ha mostrato il noto giurista americano Cass Sunstein, una falsa notizia prevale sempre sulla sua smentita o sulla notizia vera, cioè verificata. Il fatto è che, oggi, c’è scollamento tra messaggio e significato, tra demagogia e dati di fatto. Nati per diffondere prodotti e generare profitti, gli algoritmi, i vari Facebook, Twitter o Google, offrendo gratuitamente servizi e prodotti, vanno facendo degli stessi utenti un prodotto che genera profitti.

   Di populismi distruttivi ce ne sono sempre stati; le società li patiscono e li superano. Come?

   Aggrappandosi alla verità.

Gli effetti della post-verità

Oggi, però, questo vecchio meccanismo di difesa sta venendo meno. La post verità – che non è l’accreditare le bugie come verità, quanto piuttosto l’intorbidire le acque al punto tale che diventa praticamente impossibile distinguere il vero dal falso – minaccia gli anticorpi che usano la democrazia per curarsi dalla malattia dei populismi e resistere al continuismo. In situazioni del genere, il sistema scivola verso una democrazia “taroccata”, o meglio verso quella forma degenerata di democrazia che ha il nome di oclocrazia, cioè governo delle masse, delle moltitudini, e delle loro pulsioni e istinti.

   Alla luce di quanto sopra, si comprende perché sia oggi urgente porre mano, e in fretta, alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo, come ha di recente scritto Francesco Viola. Il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica comune. Al tempo stesso, la vita associata esige una comunanza fondata su princìpi etici se non vuole ridursi a mero proceduralismo. Accade così che ci si rifugi nel relativismo, nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di pericoloso errore dovrebbe essere chiaro a tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si pone domande, e dunque non ricerca il dialogo.

   Una società del pluralismo non può certo essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa vita pubblica. Invero, la comunanza che si cerca non può essere né quella propria di una comunità culturale, né quella propria di una comunità religiosa, ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano secondo cui l’agire politico è solamente quello che si svolge dentro le istituzioni rappresentative. Sappiamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre mali di sistema.

Nuovi sistemi

Cosa, allora, si deve fare? Prendere il coraggio di riconoscere che il modello di democrazia elistico-competitivo non è più in grado di dare ali alla celebre affermazione di Henri Bergson secondo cui: «Così è la democrazia: proclama la libertà, rivendica l’eguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro che sono sorelle». Invero, presi singolarmente, principio di libertà e principio di eguaglianza sono difficilmente armonizzabili; è solamente il principio democratico a farli marciare insieme.

   Tre sono le caratteristiche essenziali di tale modello dovuto a Max Weber e a Joseph Schumpeter.

   La democrazia è principalmente un metodo di selezione di un’élite che, essendo esperta, è capace di prendere le decisioni necessarie, date le circostanze. La democrazia è dunque la procedura per arrivare a selezionare, all’interno della società, coloro che sono in grado di prendere le decisioni di volta in volta richieste dal corpo politico.

   La seconda caratteristica è quella di ostacolare gli eccessi di potere della leadership politica. Poiché il rischio della degenerazione e dell’abuso di autorità non può mai essere scongiurato, è opportuno inserire negli ingranaggi del potere “granelli di sabbia”. E quale modo migliore per conseguire un tale risultato di quello di far soffiare, sui partiti politici, il vento della competizione?

   La terza caratteristica, infine, è che il modello in questione si qualifica per il suo orientamento al progresso della società. Si noti l’analogia: come nell’arena del mercato le regole della competizione economica servono ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse e quindi il più alto tasso possibile di sviluppo, così, alla stessa stregua, nella sfera politica i partiti gareggiano fra loro per vincere le elezioni massimizzando i rispettivi consensi. In definitiva, l’idea di base del modello è che le imprese gestiscono i mercati e i governi regolano le imprese; d’altra parte, le burocrazie di vario tipo gestiscono l’amministrazione pubblica e il governo controlla e regola la burocrazia. Con il che è alla sfera della politica che è demandato il compito di tracciare il sentiero di marcia della società intera.

   Tanti sono stati i risultati positivi che questo modello di democrazia – con le sue molteplici varianti nazionali – ha consentito di ottenere a partire del secondo dopoguerra. Ma gli attuali mutamenti di portata epocale (iperglobalizzazione, nuove tecnologie digitali, singolarismo; questione ambientale) l’hanno reso inadeguato, non più capace di far fronte alle nuove sfide. La democrazia deliberativa, invece, mostra di essere all’altezza della situazione. La ragione è che per tale modello non è ammissibile che il benessere, lo star bene degli emarginati e degli svantaggiati dipenda – a seconda delle circostanze – dallo “stato benevolente” o dalle istituzioni del “capitalismo compassionevole”.

   Piuttosto, esso deve essere il risultato di strategie di inclusione nel circuito della produzione – e non tanto in quello della redistribuzione – della ricchezza. Tre elementi connotano il metodo deliberativo.

   Primo, la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere. Dunque, non ogni discorso è una deliberazione, la quale è piuttosto un discorso volto alla decisione.

   Secondo, la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e pertanto è incompatibile con lo scetticismo morale. In tale senso, la democrazia deliberativa non può essere una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per prendere decisioni.

   Terzo, il processo deliberativo postula la possibilità dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab imis, la possibilità di mutare le proprie opinioni alla luce delle ragioni addotte dall’altra parte. Ciò implica che non è compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome dell’ideologia o di interessi di parte, si dichiara impermeabile alle altrui ragioni. È in vista di ciò che la deliberazione è un metodo essenzialmente comunicativo. (…)

   Non v’è dubbio che la concezione deliberativa di democrazia, sia, oggi, la via che meglio di altre riesce a affrontare i problemi dello sviluppo e del progresso dei nostri Paesi. (….) È un fatto che fino a tempi recenti il capitalismo, quale modello economico, è sempre stato associato, alla democrazia come modello di ordine socio politico.

   La grande novità dell’oggi è che quel legame tra democrazia e capitalismo si va dissolvendo. Si parla, infatti, di orientalismo per significare che quella occidentale non è più la civiltà di riferimento per guidare il processo di sviluppo economico. Il fatto sconcertante è che il nuovo capitalismo finanziario (che ha fatto seguito a quello industriale) non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di matrici religiose, culturali, etniche.

   Sappiamo infatti che la finanza speculativa è diventata fine a se stessa, cioè autoreferenziale, e dunque ha un rapporto sempre più remoto e astratto con il valore economico reale la cui creazione essa dovrebbe favorire. In altro modo, le attività speculative nel mercato finanziario privano di ogni stabilità il rapporto tra il valore dei beni e il modo in cui esso viene rappresentato dai nuovi strumenti finanziari. Non così sono andate le cose con il capitalismo “nazionale” che invece si è eretto sui valori e sulle tradizioni occidentali nel momento in cui si è imposto sul precedente modello di ordine sociale.

   La novità odierna è che si può avere capitalismo senza democrazia e, più in generale, prescindendo dai cosiddetti valori occidentali. In particolare, il capitalismo “globale” non ha bisogno di fare leva sull’utilitarismo Benthamiano e sull’individualismo libertario per affermarsi. Anzi, la sua diffusione a macchia d’olio molto deve alla sua capacità di esonerarsi dall’impegno a valori come quello della dignità della persona e a quelli della democrazia liberale.

   È dunque errato pensare che la persistenza delle tradizioni e delle norme sociali di comportamento premoderne rappresenti un ostacolo al capitalismo globale. Al contrario, la fedeltà a queste tradizioni e princìpi è ciò che permette a Paesi come Cina, Singapore, India e tanti altri ancora di percorrere la strada del processo capitalistico in modo persino più radicale che nei Paesi dell’Occidente. È facile darsene conto: è assai più agevole invocare l’identità nazionale per legittimare sacrifici e imposizioni di natura antidemocratica ai propri cittadini.

   Sta accadendo che la “nostra” democrazia liberale va cedendo spazio al populismo, a quella concezione che considera il popolo non più come categoria sociologica e politologica, ma come categoria morale. La competizione politica – per l’ideologia populista – è tra le virtù (che appartengono al popolo) e le non virtù (che appartengono al non popolo) e il leader è colui che riesce a incarnare lo spirito del popolo. Per questo, il populismo respinge la democrazia deliberativa a favore della democrazia diretta.

   È utopico pensare di poter far stare assieme mercato e democrazia? C’è chi lo pensa; ma chi scrive non è tra questi. In ogni caso è della distopia, assai più che dell’utopia, che si deve temere quando si è all’inizio di un cammino. La distopia è la malattia che colpisce chi soffre delle «passioni tristi», nel senso di Spinoza. Non però la tristezza del pianto o della fatica, ma quella della delusione o della disperazione. Il Paese che è stato culla dell’Umanesimo, prima, e del Rinascimento, poi, non può cadere vittima di simili disposizioni d’animo. (STEFANO ZAMAGNI)