Il documento – almeno nella versione EU – già nel titolo, denuncia la volontà di essere presente, se non partecipe, nel panorama delle profonde trasformazioni mondiali in atto, pensando a chi verrà dopo di noi.
Non entro nel merito dei contenuti, che comunque mi sento, in generale, di sostenere, ma pongo una questione di metodo che mi pare determinante, pensando a chi è il soggetto, o meglio, i soggetti che dovranno attuare il programma e con quali tempi.
La riposta potrebbe sembrare ovvia: saranno le forze che governano il Paese, cioè il Governo con il proprio sostegno parlamentare.
Ma quanto scrive oggi, 16 novembre, Natale Forlani su “politicainsieme” mi aiuta a riflettere con più attenzione.
Guardo nel passato (guardo il Bel Paese, ma in realtà quanto vedo mi fa riconoscere anche altri vicini di casa) e vedo due tappe fondamentali del comportamento dei due soggetti e della e(in)voluzione avvenuta in Italia negli ultimi sessant’anni, dove il governo del cambiamento, che si realizza su tempi più lunghi delle programmate (ma spesso anticipate) scadenze elettorali, dovrebbe verificare quanto si è realizzato del promesso, per aggiornate piani e programmi, con adeguate revisioni di tempi e mezzi.
Su cui misurarsi con lo strumento che può riproporzionare le forze in Parlamento.
Modello quasi perfetto, se il Governo sapesse usare i mezzi del “liberismo corretto” (torniamo agli antenati: Marshall, Keynes, Sraffa, Roosevelt…) attuato con piena libertà di iniziativa per chi detiene i mezzi per investire in tradizionali e nuove attività produttive, ma affiancato da chi (il potere pubblico, fondato sul consenso, della maggioranza almeno!) è in grado di sostenere attività meno redditizie, ma indispensabili per lo sviluppo economico e sociale diffuso.
Tutto ciò in Italia è finito, come ho già accennato, da oltre mezzo secolo, dopo la mezza dozzina di anni postbellici.
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Bisognerebbe tornare con la memoria ai due tentativi, entrambi falliti, di dialogo tra Cattolici al Governo (Dossetti) e Cattolici della Resistenza (Balbo) o tra Cattolici ancora di governo (Moro) e Comunismo in ricerca (Berlinguer) per capire quanto le forze più miopi (uso un aggettivo gentile!) abbiano contato nel non permettere di intraprendere nuovi percorsi.
Delle attività partecipate – cioè volontariamente sostenute – dallo Stato cosa rimane?
Un esempio su tanti possibili: l’Eni non è più il soggetto che conquista spazi internazionali per l’Italia, ma un socio della banda che spreme territori ricchi di risorse naturali e poveri di mezzi di garanzia e difesa per la popolazione; e poi la produzione di armi, che vanno anche in mani che ci ricambiano perfino con delitti che ci toccano (Egitto insegna!) e sappiamo bene che il giusto preoccuparsi dell’Ucraina, vicina di casa, ci fa però dimenticare la ventina di paesi al mondo che sono in stato di guerra.
Ma si sa, che la distanza rende l’udito debole!
Cosa manca, dunque, perché la next generation esca dal torbido?
Cinquant’anni fa si chiamava “programmazione”: non la rimpiango, nel modo in cui ebbe campo, perché la visione del futuro non fu accompagnata da una adeguata compresenza di un dettaglio di azioni calibrate sul ciclo elettorale, quindi sottoponibile a una valutazione periodica di metodi e mezzi di attuazione, ma confermate dalla continuità di programmi lungimiranti, quelli appunto stabiliti in base a una adeguata visione di lungo periodo: mancò il raccordo tra buone idee di “progresso”, cioè di indirizzo del cambiamento, determinato dal quella che si chiamava modernizzazione e progetti/programmi verificabili in tempi politicamente controllabili.
Dopo di che si è preferito mantenere la parte scadente: il gioco parlamentare si è fatto sempre più dialettico, con il tramonto di ideologie esaurite, cui non ha corrisposto la formulazione di nuove prospettive etiche e culturali.
L’ultimo barlume di attenzione per questo tipo di impostazione è nei programmi di chi si candidò alle elezioni politiche che diedero il governo a Renzi, ma che furono solo esercizi di autopresentazione, non certo programmi di idee e di governo (cioè – torno al nodo – di progetti di lunga prospettiva, attuabili con dichiarati programmi sottoposti alla verifica della scadenza elettorale).
Sicché il “modello keynesiano,” impropriamente rievocato, giustificò certi rimpianti su partecipazioni statali, iri e quant’altro: ma quel modello, posto che lo si avesse veramente voluto rispettare, avrebbe richiesto ben altro significato nell’azione pubblica, che – appiattendosi sulla sola missione imprenditoriale – perse vitalità.
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Oggi lo Stato è “padrone” di qualche pacchetto azionario, di un bel po’ di idrocarburi e notevole produzione di armi. Più una cassa (dove si deposita denaro e lo si presta su urgenze riscontrate) senza nessuna altra visione delle relazioni tra economia e sviluppo complessivo della società e di questo Paese.
Non essendo un economista, non vado oltre nella critica al modello keynesiano e al suo (ab)uso: però sollecito tutti a ricordare che oikos-nomos (cioè le regole per il governo della casa) viene dopo, deve derivare da oikos-logos (l’idea di casa, cioè il modo di intendere il vivere in comune) non prima, come invece ormai ci ha abituati un’economia del denaro che ha ridotto il campo dell’ecologia alle sole azioni di pulizia che giustifichino ancora di più gli obiettivi di uso, magari abuso, di risorse.
A causa di ciò anche lo Stato non vede oltre questo orizzonte ristretto ed elude suoi importanti ruoli: garantire la salute di tutti (non basta una Sanità malridotta), sostenere la formazione del cittadino ai massimi livelli, ridando spazio e significato alla parola educazione (mentre la scuola ha avuto riforme non accompagnate da adeguata azioni di formazione del personale, fino ai livelli universitari, affogati in tecniche di carriera che hanno reso assolutamente volontaria, cioè occasionale, ricerca e innovazione), promuovere attività produttive avanzate là dove la qualità dell’innovazione non compensa ancora il peso dell’azione, con equilibrati compensi economici, scoraggiando quindi l’imprenditorialità privata, che necessita di garanzie di buona resa.
Ma più che discutere dei compiti dello Stato, che in fondo sono abbastanza noti e su cui, rispetto alla deludente ed elusiva situazione in atto, ciascuno trova la scusa per sé, scaricando la colpa sugli altri, penso che si debba andare alla base del problema.
Smith e Lenin – pur con idee diametralmente opposte – hanno ammesso lo stesso limite alla capacità di pensare la trasformazione della società: che le questioni su cui operare fossero il controllo delle risorse e la migliore resa ricavabile, lasciando principi etici e adeguati processi culturali per diffonderli sul piano di vaghe formulazioni di “ideali”.
E con questa parole il gioco ebbe per entrambi lo stesso esito: la visione del futuro resta una speranza, non un progetto di cui pensare percorsi e mezzi e strumenti di attuazione.
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Dopo oltre due secoli, oggi siamo a un punto di svolta.
Lo determina il processo evolutivo della specie umana, la più fertile nel generare effetti di trasformazione dell’ambiente in cui viviamo.
E’ notizia del giorno la nascita di chi ha fatto raggiungere alla specie la soglia degli 8 miliardi di esemplari in vita.
Ricordando che la superficie delle terre emerse è poco meno di 150 milioni di kmq, un facile calcolo mi fa vedere il mio vicino a 100 metri da me, che dispongo di meno di due ettari di terra su cui vivere, metter casa, trovare il campo in cui piantare insalata per avere cibo, una macchina per produrre qualche cosa da vendere, perfino una spiaggia su cui portare moglie e figli.
Per fortuna abbiamo inventato la città, che ci consente di vivere ammucchiati e lasciare buona parte dei due ettari per sedi di lavoro e tempo libero!
Capisco che la riflessione possa apparire paradossale, ma voglio solo dire che se non ci mettiamo a pensare la “trasformazione” del mondo e del modo in cui viviamo, il pessimismo di certi ambientalisti diventa realtà.
Dobbiamo riprendere la riflessione da dove chi propose la ragione come fondamento della costruzione umana si trovò a scontrarsi con chi rispose con la fede: entrambi convinti che l’una valesse più dell’altra e quindi dovesse prevalere.
Ma soffrirono entrambi dei limiti che quella fase storica induceva, ancora modestamente fornita di strumenti di previsione e progetto, che i secoli a venire avrebbero fornito.
Ogni tempo soffre di qualche insufficienza.
Oggi noi soffriamo della consapevole modestia di quanto disponiamo, rispetto a quanto abbiamo certezza essere l’infinito dell’universo, ma abbiamo la possibilità di meglio governare il nostro spazio, la Terra, senza consumarla e distruggerla, come invece siamo a rischio di fare.
Impariamo a meglio governare (che vuol dire usare senza distruggere) i nostri due ettari di terra e, con il vicino, governeremo la Terra, ricominciando da quelle istituzioni – che sono state ridotte a luogo di spettacoli mondiali, come è in corso oggi al Cairo – che vanno ripensate e ricostruite.
Un bell’impegno per our generation. (MARIO FADDA)