Torno a riflettere sul lavoro e adotto un altro punto di vista
Torno a riflettere sul significato e sul ruolo del lavoro e, adottando un altro punto di vista, parto da due interrogativi: cos’è oggi il lavoro? cosa serve lavorare? E per discutere di cosa sia e significhi il lavoro prendo spunto da cosa esso rappresenti per l’uomo e la donna.
La progressiva e crescente dipendenza del lavoro dal denaro ha reso sempre più profondo il solco che separa i due generi umani.
È un processo che mi pare utile rivedere nel suo lungo decorso, tuttavia riassumibile in alcune tappe fondamentali: prima di tutto il suo inizio, questione che ci riporta indietro di parecchio nelle epoche storiche; il tema è il lavoro, inteso come capacità di produrre esiti: le grandi scoperte dell’umanità primitiva derivano dalla capacità di pensare che da un materiale prodotto dalla natura, si può ricavare un oggetto utile per qualche scopo. Dedicandovi attenzione, tempo e azioni preordinate e finalizzate,
È un passaggio evolutivo enorme, su cui saggisti e cultori di ogni settore hanno già fornito ampie interpretazioni sul quando, dove e come: qui voglio aggiungere una riflessione che deriva dal momento in cui il lavoro diventa espressione della libertà creativa delle persone.
“Ora et labora” dice san Benedetto a un popolo che sta uscendo da un mondo in cui il lavoro era attività riservata a chi, sottoposto al domino del potente, produceva tutto, necessario o superfluo che fosse, ma tornasse utile al padrone; il Santo propone di scoprire che l’essenziale che a ciascuno serve per vivere (un pane per cibarsi, una stoffa con cui vestirsi, un tetto per ripararsi) non è più prodotto da un essere assoggettato per eseguire e produrre quanto gli è stato ordinato, ma da lui stesso e di sua scelta.
L’evoluzione del processo è ben noto e induce l’idea che trasforma il ruolo sia del produttore che del prodotto, passando dallo scambio per utilità al commercio per lucro: si determina il progressivo asservimento nell’utilizzo del mezzo (il denaro) inizialmente usato per acquisire quanto serve: il denaro è un utile strumento di scambio, a sostegno di un meccanismo che potrebbe incepparsi non corrispondendo i tempi di scambio tra i due operatori in gioco (io dò il mio prodotto, ma chi lo acquisisce non è pronto con il suo, utile per lo scambio); però – sempre il denaro – innesca il meccanismo dell’accumulo, alla base del quale c’è necessità, per me offerente, di fornire più volte il mio prodotto, per raggiungere il valore del prodotto che mi viene offerto in cambio del mio, ma che, secondo chi lo propone e accettato subito da chi lo vuole, ha un valore maggiore.
È chiaro che se io produco mele, mi occorrono parecchi cesti per accumulare il valore di scambio con chi produce la casa in cui desidero abitare: qui si mette di mezzo un terzo personaggio, che mi aiuta a produrre, con il valore del mio denaro, altro valore superiore; è altrettanto chiaro che questo differenziale di mediazione sarà scontato da qualcuno, il cui denaro, contemporaneamente, perderà valore: qui si colloca il gioco finanziario che ha trasformato il rapporto tra persona e lavoro.
Insomma, addio San Benedetto! in millecinquecento anni l’umanità ha trasformato una pura espressione di libertà (faccio e produco perché sono libero) e dignità (quello che faccio serve a me e a molti, perché è utile e piace) in uno strumento di competizione e sopraffazione (produco perché guadagno e accumulo, così decido meglio degli altri).
Quale condizione si determina per l’uomo e la donna in questo regime è sotto gli occhi di tutti e riassumo ben noti problemi, che tuttavia è bene, sempre, ricordare:
– come superare il pesante limite posto dal lavoro usato come merce;
– come indurre nella donna l’idea di non accontentarsi di scegliere, come prospettiva di libertà, l’imitazione dell’uomo (scatenando inevitabili meccanismi di concorrenza);
– come (per tutta l’umanità) darsi la prospettiva di porre il lavoro come obiettivo di una reale liberazione della creatività personale, sostituendo l’attuale stato per cui il lavoro serve solo per acquisire ricchezza e potere.
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Mi sono concessa questa lunga ricapitolazione, che tuttavia è bene che tutti abbiano ben chiara, perché ormai occorre un radicale salto di visione.
Finché l’umanità ha vissuto nel dover svolgere attività finalizzate al solo procurare cibo, l’uomo garantiva che l’animale che serviva per vivere lo portava lui e magari la donna, che stava nella grotta, nella capanna, nel borgo, con la pancia grossa e un altro attaccato al seno, poteva scoprire l’utilità di mettere l’animale cacciato sul fuoco, che già serviva a riscaldare l’ambiente.
Poi la cosa è evoluta fino al punto di consentire ai latini di elaborare due concetti connessi con l’idea che alla base dell’unione familiare ci siano due “munus” cioè due doveri: uno del padre e uno della madre. Disgraziatamente i due termini, patrimonio e matrimonio, evolvono assumendo significati ben diversi e diversamente vincolanti: il primo, sinonimo di ricchezza e il secondo, relazione tra sposi, sempre più vissuto come vincolo, progressivamente rifiutato, perchè visto come limite alla libertà individuale.
Oggi siamo a una ulteriore svolta del percorso storico dell’umanità: il lavoro, che non è espressione di libertà, ma essenzialmente di abilità, cioè mezzo utile per accumulare potere, privilegiandone lo strumento più aggressivo, la ricchezza; uno strumento che diventa anche il nuovo fronte su cui si riduce la battaglia di liberazione della donna, con qualche inevitabile equivoco su quanto si intenda per libertà.
Il che va molto bene in una società dove la libertà si misura proprio con il denaro; ancora una volta un abbandono: addio Antonio Genovesi e viva Adamo Smith! O meglio: viva a chi ha persino strumentalizzato la visione smithiana, per affermare il principio di prevalenza basato sul successo economico.
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Con Stefano Zamagni e molti altri, ci si domanda: si può ripartire da qui?
Lo spero e nel farlo (potrà essere un bell’impegno di ricerca e discussione) accenno ancora a un’altra conseguenza di questo modo di operare, perché un tema, che la riflessione sul lavoro consente di affrontare, riguarda la scurezza e la pace, quindi tocca il ruolo che, nelle economie di statura mondiale, riveste (ancora e chissà per quanto) la questione militare.
Campioni di inadeguatezza ideologica (etica, culturale e politica) sono proprio i maggiori operatori del settore, nella produzione e nell’uso dei mezzi necessari per operare in questo ambito: Cina e Usa, con Russia e alcuni europei a rimorchio.
Il problema che questi non sanno affrontare è l’assoluta inutilità raggiunta dal concetto di difesa declinato in termini di armamento di eserciti, reimposto come unico strumento utile attraverso violenze locali, come la recente vicenda afghana o la eterna vicenda curda stanno a dimostrare, come nell’Africa equatoriale o in Amazzonia, coprendo il fallimento, per quanto riguarda la prima, sia dell’intervento sovietico, sia il successivo ventennio USA e gregari associati (tra cui, ahimè, l’Italia).
La Cina è fondamentalmente bloccata su un sistema che è erede di quanto realizzato dalla “grande marcia” e dalle condizioni di conflitto armato che in successione, durante ormai più di un secolo, ha avuto, come nemici, il Giappone dominatore, il nazionalismo interno, la potenza invasiva USA e perfino la ex-compagna URSS.
Tale eredità si conferma, a distanza di oltre mezzo secolo, in un sistema militare che costituisce una componente essenziale del sistema di governo e controllo cinese che giustifica, mediante il fantasma di una possibile aggressione esterna, la necessità di disporre di un potente organismo capace di incutere timore all’interno, in una fase di transizione verso un sistema capace di governare un armonico sviluppo del “continente Cina” (un quinto della popolazione mondiale!) che comprende anche “minoranze”, come in Tibet o nello Xinjiang, il terzo paese islamico del mondo per numero di abitanti.
Mi limito a questo esempio, perché ci sarebbe ben altro da dire sui muri, difesi a mano armata, per limitare “l’invasione” dei poveri verso l’eldorado (come accade nel “nuovo mondo” nordamericano) o sul ruolo dei minori, come l’Italia, che continuano a fare armi e venderle a chicchessia, pur di accumulare denaro.
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Ripartiamo da “ora et labora”, senza adottare il limite di chiuderci in un’abbazia per farlo.
Il lavoro è lo strumento per realizzare il progetto di libertà che ciascuno può esprimere e realizzare, a patto di liberarlo dal solo ruolo di “produttore”, garante della semplice possibilità di sopravvivere.
Deve assumere definitivamente il suo ruolo espressivo della qualità del soggetto e i segnali che giungono, provando a osservare il futuro, stanno indicando percorsi praticabili.
Il recente rapporto sull’occupazione in Italia, prodotto dall’Istituto Cattaneo (www.cattaneo.org) espone un dato che indica una crescente speranza di occupazione, sia al nord che nel mezzogiorno d’Italia, ponendo tuttavia qualche interrogativo, perché sposta la crescita su età che vanno dai 45 ai 65 anni d’età; l’aspetto più interessante che ne emerge, su cui occorre ben riflettere, è la prevalenza, nella crescita, della popolazione con livello di studio alto.
A parte le considerazioni che dovranno riguardare l’innalzamento del limite di età lavorativa, che esprime un progressivo aumento della speranza di vita e quindi pone in primo piano la questione dei limiti di età pensionabile e di tutto il problema dei trattamenti di quiescenza, emerge il dato che occorre affrontare subito: l’improcrastinabile questione della revisione di un sistema formativo ancora troppo orientato su obiettivi di sola “istruzione”, cioè di sostegno alla persona in ordine alla possibilità di “avere un mestiere” con cui collocarsi nel mercato, mentre quello che appare sempre più evidente ed è confermato da un mercato in forte evoluzione – che chiede alla persona un riadeguamento continuo di competenze e abilità sempre nuove. – è la necessità di mettere la persona in condizione di poter elaborare un proprio progetto di vita e di poter riadeguare continuamente le proprie virtualità operative.
Ogni persona deve essere consapevole di una realtà permanentemente in evoluzione, con tempi e modi in cui i processi di accelerazione e rallentamento sono un dato di cui è importante, per ciascuno, percepire le caratteristiche con cui si manifestano nel tempo; ogni persona deve essere in condizione di poter esprimere tutte le proprie virtù, la propria scelta di collocarsi – consapevole di quanto sia breve la permanenza di ciascuno nel tempo – in modo da donare tutto l’infinito beneficio che ognuno rappresenta, come risorsa “unica e irripetibile”, come amava dire la “grande risorsa” Ernesto Baroni.
Tutti devono essere in condizione di poter decidere come collocarsi nel quadro costituito da otto miliardi di soggetti evolutivi che interagiscono in uno spazio-tempo dato, scegliendo come ci si propone di contribuire a determinare tale quadro, cioè di quale progetto personale ci si vuol dotare (i cui limiti sono determinati dalla durata della vita e dal quoziente intellettivo di ciascuno!) per poter così essere partecipi di un processo che coinvolge tutti e che tutti devono poter vivere consapevolmente come artefici e non come strumenti.
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Veniamo da tre secoli di storia durante i quali l’umanità si è data capacità e strumenti per poter esprimere valori individuali, sia pure con durezze reciproche date dalla difficoltà con cui ciascuno accetta la nuova proposta che viene dall’altro.
Fede e ragione, ideali e scelte politiche hanno alimentato scontri e consentito convergenze.
Adesso siamo in procinto di vivere con otto miliardi di persone che possono sapere di avere, volere e potere esprimere valori personali, anche se pesanti tracce di rinuncia alla propria capacità di intendere e volere si giustificano con l’attribuire ancora a poteri non umani l’ultima decisione: tanto vogliono i barbuti che attribuiscono al divino la volontà di reprimere chi la pensa diversamente, o a poteri invece molto umani come quelli che si identificano nel vertice della famosa “piramide di Davos”.
Bisogna fare il nuovo passo.
Ogni persona deve essere messa in condizione di saper distinguere fede e ragione, nel vivere con scelte personali e adesioni d’area; ogni persona deve essere messa in condizione di saper elaborare un proprio progetto di come partecipare alla vita del mondo, sapendosi spendere come risorsa con obiettivi ben individuati; ogni persona deve sapere di poter ricercare il nuovo, come assoluta valorizzazione di sé, in quanto risorsa: il paradigma è fatto di quattro parole: istruzione – formazione – ricerca – progetto.
Sono quattro livelli di cui la società si è presa carico del primo, inventando, con il sistema scolastico, il modo di condurre la persona fuori dal livello primordiale della sola attenzione al sapersi proporre come partecipe del sistema che produce beni. Le convenienze del sistema produttivo, orientato al profitto, hanno stimolato il passaggio da istruzione a ricerca, in quanto sostegno al produrre il meglio per saper meglio produrre. Adesso il salto di qualità deve consistere nell’indurre ogni persona a saper stabilire il proprio ruolo nella dinamica evolutiva del mondo, con una scelta di campo e modalità adeguate con cui agire, quanto insisto nel chiamare “progetto”.
Questo consentirà, a ogni persona, di vivere nel processo collettivo libera e produttiva, disponibile e utilizzabile.
(MARIO FADDA)