A proposito dell’elezioni del Presidente: una grande democrazia merita un grande spettacolo (di Luca Toselli)

In democrazia la forma è sostanza. Cioè, le forme in cui vengono prese le decisioni sono cruciali del sistema stesso. La democrazia non si pone come soluzione dei problemi politici della nostra vita (mentre i totalitarismi, sì), ma individua un metodo per raggiungere delle decisioni che possano fornire delle risposte alle problematiche della nostra vita comune. Il metodo è quello della maggioranza che prende le decisioni e che rispetta la minoranza. Tutto ciò avviene attraverso il voto. Nel caso dell’elezione del presidente della Repubblica si tratta del voto dei rappresentanti di noi cittadini.

Ed è un bello spettacolo vedere che da un settimana più di mille persone votano, e si riuniscono e rilasciano dichiarazioni e cercano alleanze. Alcuni, i capi, fanno le ore piccole. Altri cercano i ristoranti adatti per parlarsi. I giornalisti inseguono. Ho visto Bossi in carrozzella, vecchio leone mai domo; ho visto qualcuno arrivare addirittura in autoambulanza; ho visto la Segre al braccio di Piano; ho sentito Renzi riprendere il filo delle argomentazioni; ho visto Salvini fare il circo (cioè, correre per tutto il cerchio); ho visto Berlusconi invecchiato, ma ancora sul pezzo: prima il potere, poi l’ospedale; ho visto la Meloni, grande grinta e capacità; ho visto l’ambizione mal trattenuta di Draghi; ho visto lo stile morbido, da “nonchalance”, di Casini; ho sentito i ragionamenti politici dei vecchi DC Mastella e Pomicino e mi hanno interessato (gli unici); ho visto sciura Casellati scoprirsi: cellulare alla mano anche durante le votazione, tanto sono più importanti i twitter dei voti; ho visto il “non visto” Amato, che sotto sotto, zitto zitto, ci spera ancora. E mi sono divertito.

Questa è la politica, bellezza! Non vedo l’ora alla sera di collegarmi alla nuova puntata all’inizio del TG. Anzi, cerco di non sentire le anticipazioni per non togliermi il gusto della notizia. Un po’ come il giocatore di poker scopre piano piano le sue carte per goderne di più. Ma è giusto così. Cosa c’è di più bello che vedere la politica della democrazia in campo: fatta di mosse e contromosse, di proclami e ideali, di azzardi e prudenze? Proviamo immaginare che cosa dovesse essere l’agorà di Atene durante le sue ecclesie; proviamo immaginare i discorsi di Cicerone in senato. La politica della democrazia è anche questo: esposizione di un corpo che cerca il consenso e che ambisce a governare. Milioni di italiani hanno seguito in questi giorni non la squadra di calcio o il cantante preferito o il proprio influencer, ma la politica in una delle sue espressioni: non è male per una volta. E non ci curiamo troppo dei giornalisti che ci ripetono che si è superato il limite alla decenza: non sanno più che cosa dire nei tanti e lunghi talk show, ma sono in realtà ben contenti di avere un argomento nuovo e attraente dopo due anni di Covid in cui avevano grattato il fondo del barile con esperti, interviste, previsioni.

Mi ricordo quando da bambino non mi sono perso uno scrutinio di quelli che poi portarono Leone al Quirinale, sono stati 23 e la televisione era piccola e in bianco e nero: omini in giacca e cravatta scuri che votano, votavano. Ma in quei giorni ho imparato a gustare anche lo spettacolo della democrazia, che non significa eludere le problematiche e la grande politiche, ma significa che non si va a vedere una partita di calcio o di tennis solo per il risultato, ma anche e soprattutto per lo spettacolo. Questa è la democrazia, bellezza!

LUCA TOSELLI è un docente e studioso di media digitali, oltre che autore di nuove forme di espressione social e on line. Ha insegnato a lungo nelle Università di Torino, Milano e Insubria sia “Nuovi Media” sia “Cinema e Televisione”. Ha progettato e diretto l’allestimento dei filmati del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana. E’ stato autore e coordinatore per Rai Educational su programmi avanzati e sperimentali per la televisione tematica. Suoi sono i volumi: Il progettista multimediale (Bollatiboringhieri 1998), Creatività multimediale (Lattes 2003), Didattica dell’Editoria Multimediale. Ipotesi e progetti (Cuem 2005), “La scrittura a scuola al tempo dei cellulari” (Unicopli, 2010), il recente La didattica a distanza, funziona se sai come farla (Sonda, 2020), oltre a numerosi saggi e articoli.

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LAVORARE LIBERA: COME E PERCHÉ (di MARIO FADDA)

Torno a riflettere sul lavoro e adotto un altro punto di vista

   Torno a riflettere sul significato e sul ruolo del lavoro e, adottando un altro punto di vista, parto da due interrogativi: cos’è oggi il lavoro? cosa serve lavorare? E per discutere di cosa sia e significhi il lavoro prendo spunto da cosa esso rappresenti per l’uomo e la donna.

   La progressiva e crescente dipendenza del lavoro dal denaro ha reso sempre più profondo il solco che separa i due generi umani.

   È un processo che mi pare utile rivedere nel suo lungo decorso, tuttavia riassumibile in alcune tappe fondamentali: prima di tutto il suo inizio, questione che ci riporta indietro di parecchio nelle epoche storiche; il tema è il lavoro, inteso come capacità di produrre esiti: le grandi scoperte dell’umanità primitiva derivano dalla capacità di pensare che da un materiale prodotto dalla natura, si può ricavare un oggetto utile per qualche scopo. Dedicandovi attenzione, tempo e azioni preordinate e finalizzate,

   È un passaggio evolutivo enorme, su cui saggisti e cultori di ogni settore hanno già fornito ampie interpretazioni sul quando, dove e come: qui voglio aggiungere una riflessione che deriva dal momento in cui il lavoro diventa espressione della libertà creativa delle persone.

   “Ora et labora” dice san Benedetto a un popolo che sta uscendo da un mondo in cui il lavoro era attività riservata a chi, sottoposto al domino del potente, produceva tutto, necessario o superfluo che fosse, ma tornasse utile al padrone; il Santo propone di scoprire che l’essenziale che a ciascuno serve per vivere (un pane per cibarsi, una stoffa con cui vestirsi, un tetto per ripararsi) non è più prodotto da un essere assoggettato per eseguire e produrre quanto gli è stato ordinato, ma da lui stesso e di sua scelta.

   L’evoluzione del processo è ben noto e induce l’idea che trasforma il ruolo sia del produttore che del prodotto, passando dallo scambio per utilità al commercio per lucro: si determina il progressivo asservimento nell’utilizzo del mezzo (il denaro) inizialmente usato per acquisire quanto serve: il denaro è un utile strumento di scambio, a sostegno di un meccanismo che potrebbe incepparsi non corrispondendo i tempi di scambio tra i due operatori in gioco (io dò il mio prodotto, ma chi lo acquisisce non è pronto con il suo, utile per lo scambio); però – sempre il denaro – innesca il meccanismo dell’accumulo, alla base del quale c’è necessità, per me offerente, di fornire più volte il mio prodotto, per raggiungere il valore del prodotto che mi viene offerto in cambio del mio, ma che, secondo chi lo propone e accettato subito da chi lo vuole, ha un valore maggiore.

   È chiaro che se io produco mele, mi occorrono parecchi cesti per accumulare il valore di scambio con chi produce la casa in cui desidero abitare: qui si mette di mezzo un terzo personaggio, che mi aiuta a produrre, con il valore del mio denaro, altro valore superiore; è altrettanto chiaro che questo differenziale di mediazione sarà scontato da qualcuno, il cui denaro, contemporaneamente, perderà valore: qui si colloca il gioco finanziario che ha trasformato il rapporto tra persona e lavoro.

   Insomma, addio San Benedetto! in millecinquecento anni l’umanità ha trasformato una pura espressione di libertà (faccio e produco perché sono libero) e dignità (quello che faccio serve a me e a molti, perché è utile e piace) in uno strumento di competizione e sopraffazione (produco perché guadagno e accumulo, così decido meglio degli altri).

   Quale condizione si determina per l’uomo e la donna in questo regime è sotto gli occhi di tutti e riassumo ben noti problemi, che tuttavia è bene, sempre, ricordare:

– come superare il pesante limite posto dal lavoro usato come merce;

– come indurre nella donna l’idea di non accontentarsi di scegliere, come prospettiva di libertà, l’imitazione dell’uomo (scatenando inevitabili meccanismi di concorrenza);

– come (per tutta l’umanità) darsi la prospettiva di porre il lavoro come obiettivo di una reale liberazione della creatività personale, sostituendo l’attuale stato per cui il lavoro serve solo per acquisire ricchezza e potere.

   Mi sono concessa questa lunga ricapitolazione, che tuttavia è bene che tutti abbiano ben chiara, perché ormai occorre un radicale salto di visione.

   Finché l’umanità ha vissuto nel dover svolgere attività finalizzate al solo procurare cibo, l’uomo garantiva che l’animale che serviva per vivere lo portava lui e magari la donna, che stava nella grotta, nella capanna, nel borgo, con la pancia grossa e un altro attaccato al seno, poteva scoprire l’utilità di mettere l’animale cacciato sul fuoco, che già serviva a riscaldare l’ambiente.

   Poi la cosa è evoluta fino al punto di consentire ai latini di elaborare due concetti connessi con l’idea che alla base dell’unione familiare ci siano due “munus” cioè due doveri: uno del padre e uno della madre.       Disgraziatamente i due termini, patrimonio e matrimonio, evolvono assumendo significati ben diversi e diversamente vincolanti: il primo, sinonimo di ricchezza e il secondo, relazione tra sposi, sempre più vissuto come vincolo, progressivamente rifiutato, perchè visto come limite alla libertà individuale.

   Oggi siamo a una ulteriore svolta del percorso storico dell’umanità: il lavoro, che non è espressione di libertà, ma essenzialmente di abilità, cioè mezzo utile per accumulare potere, privilegiandone lo strumento più aggressivo, la ricchezza; uno strumento che diventa anche il nuovo fronte su cui si riduce la battaglia di liberazione della donna, con qualche inevitabile equivoco su quanto si intenda per libertà.

   Il che va molto bene in una società dove la libertà si misura proprio con il denaro; ancora una volta un abbandono: addio Antonio Genovesi e viva Adamo Smith! O meglio: viva a chi ha persino strumentalizzato la visione smithiana, per affermare il principio di prevalenza basato sul successo economico.

   Con Stefano Zamagni e molti altri, ci si domanda: si può ripartire da qui?

Lo spero e nel farlo (potrà essere un bell’impegno di ricerca e discussione) accenno ancora a un’altra conseguenza di questo modo di operare, perché un tema, che la riflessione sul lavoro consente di affrontare, riguarda la scurezza e la pace, quindi tocca il ruolo che, nelle economie di statura mondiale, riveste (ancora e chissà per quanto) la questione militare.

   Campioni di inadeguatezza ideologica (etica, culturale e politica) sono proprio i maggiori operatori del settore, nella produzione e nell’uso dei mezzi necessari per operare in questo ambito: Cina e Usa, con Russia e alcuni europei a rimorchio.

   Il problema che questi non sanno affrontare è l’assoluta inutilità raggiunta dal concetto di difesa declinato in termini di armamento di eserciti, reimposto come unico strumento utile attraverso violenze locali, come la recente vicenda afghana o la eterna vicenda curda stanno a dimostrare, come nell’Africa equatoriale o in Amazzonia, coprendo il fallimento, per quanto riguarda la prima, sia dell’intervento sovietico, sia il successivo ventennio USA e gregari associati (tra cui, ahimè, l’Italia).

   La Cina è fondamentalmente bloccata su un sistema che è erede di quanto realizzato dalla “grande marcia” e dalle condizioni di conflitto armato che in successione, durante ormai più di un secolo, ha avuto, come nemici, il Giappone dominatore, il nazionalismo interno, la potenza invasiva USA e perfino la ex-compagna URSS.

   Tale eredità si conferma, a distanza di oltre mezzo secolo, in un sistema militare che costituisce una componente essenziale del sistema di governo e controllo cinese che giustifica, mediante il fantasma di una possibile aggressione esterna, la necessità di disporre di un potente organismo capace di incutere timore all’interno, in una fase di transizione verso un sistema capace di governare un armonico sviluppo del “continente Cina” (un quinto della popolazione mondiale!) che comprende anche “minoranze”, come in Tibet o nello Xinjiang, il terzo paese islamico del mondo per numero di abitanti.

   Mi limito a questo esempio, perché ci sarebbe ben altro da dire sui muri, difesi a mano armata, per limitare “l’invasione” dei poveri verso l’eldorado (come accade nel “nuovo mondo” nordamericano) o sul ruolo dei minori, come l’Italia, che continuano a fare armi e venderle a chicchessia, pur di accumulare denaro.

   Ripartiamo da “ora et labora”, senza adottare il limite di chiuderci in un’abbazia per farlo.

Il lavoro è lo strumento per realizzare il progetto di libertà che ciascuno può esprimere e realizzare, a patto di liberarlo dal solo ruolo di “produttore”, garante della semplice possibilità di sopravvivere.

   Deve assumere definitivamente il suo ruolo espressivo della qualità del soggetto e i segnali che giungono, provando a osservare il futuro, stanno indicando percorsi praticabili.

   Il recente rapporto sull’occupazione in Italia, prodotto dall’Istituto Cattaneo (www.cattaneo.org) espone un dato che indica una crescente speranza di occupazione, sia al nord che nel mezzogiorno d’Italia, ponendo tuttavia qualche interrogativo, perché sposta la crescita su età che vanno dai 45 ai 65 anni d’età; l’aspetto più interessante che ne emerge, su cui occorre ben riflettere, è la prevalenza, nella crescita, della popolazione con livello di studio alto.

   A parte le considerazioni che dovranno riguardare l’innalzamento del limite di età lavorativa, che esprime un progressivo aumento della speranza di vita e quindi pone in primo piano la questione dei limiti di età pensionabile e di tutto il problema dei trattamenti di quiescenza, emerge il dato che occorre affrontare subito: l’improcrastinabile questione della revisione di un sistema formativo ancora troppo orientato su obiettivi di sola “istruzione”, cioè di sostegno alla persona in ordine alla possibilità di “avere un mestiere” con cui collocarsi nel mercato, mentre quello che appare sempre più evidente ed è confermato da un mercato in forte evoluzione – che chiede alla persona un riadeguamento continuo di competenze e abilità sempre nuove. – è la necessità di mettere la persona in condizione di poter elaborare un proprio progetto di vita e di poter riadeguare continuamente le proprie virtualità operative.

   Ogni persona deve essere consapevole di una realtà permanentemente in evoluzione, con tempi e modi in cui i processi di accelerazione e rallentamento sono un dato di cui è importante, per ciascuno, percepire le caratteristiche con cui si manifestano nel tempo; ogni persona deve essere in condizione di poter esprimere tutte le proprie virtù, la propria scelta di collocarsi – consapevole di quanto sia breve la permanenza di ciascuno nel tempo – in modo da donare tutto l’infinito beneficio che ognuno rappresenta, come risorsa “unica e irripetibile”, come amava dire la “grande risorsa” Ernesto Baroni.

   Tutti devono essere in condizione di poter decidere come collocarsi nel quadro costituito da otto miliardi di soggetti evolutivi che interagiscono in uno spazio-tempo dato, scegliendo come ci si propone di contribuire a determinare tale quadro, cioè di quale progetto personale ci si vuol dotare (i cui limiti sono determinati dalla durata della vita e dal quoziente intellettivo di ciascuno!) per poter così essere partecipi di un processo che coinvolge tutti e che tutti devono poter vivere consapevolmente come artefici e non come strumenti.

   Veniamo da tre secoli di storia durante i quali l’umanità si è data capacità e strumenti per poter esprimere valori individuali, sia pure con durezze reciproche date dalla difficoltà con cui ciascuno accetta la nuova proposta che viene dall’altro.

   Fede e ragione, ideali e scelte politiche hanno alimentato scontri e consentito convergenze.

   Adesso siamo in procinto di vivere con otto miliardi di persone che possono sapere di avere, volere e potere esprimere valori personali, anche se pesanti tracce di rinuncia alla propria capacità di intendere e volere si giustificano con l’attribuire ancora a poteri non umani l’ultima decisione: tanto vogliono i barbuti che attribuiscono al divino la volontà di reprimere chi la pensa diversamente, o a poteri invece molto umani come quelli che si identificano nel vertice della famosa “piramide di Davos”.

   Bisogna fare il nuovo passo.

   Ogni persona deve essere messa in condizione di saper distinguere fede e ragione, nel vivere con scelte personali e adesioni d’area; ogni persona deve essere messa in condizione di saper elaborare un proprio progetto di come partecipare alla vita del mondo, sapendosi spendere come risorsa con obiettivi ben individuati; ogni persona deve sapere di poter ricercare il nuovo, come assoluta valorizzazione di sé, in quanto risorsa: il paradigma è fatto di quattro parole: istruzione formazione ricerca progetto.

   Sono quattro livelli di cui la società si è presa carico del primo, inventando, con il sistema scolastico, il modo di condurre la persona fuori dal livello primordiale della sola attenzione al sapersi proporre come partecipe del sistema che produce beni.   Le convenienze del sistema produttivo, orientato al profitto, hanno stimolato il passaggio da istruzione a ricerca, in quanto sostegno al produrre il meglio per saper meglio produrre.   Adesso il salto di qualità deve consistere nell’indurre ogni persona a saper stabilire il proprio ruolo nella dinamica evolutiva del mondo, con una scelta di campo e modalità adeguate con cui agire, quanto insisto nel chiamare “progetto”.

   Questo consentirà, a ogni persona, di vivere nel processo collettivo libera e produttiva, disponibile e utilizzabile.

(MARIO FADDA)

IL LITIO e la transizione ecologica delle materie prime: per le batterie della auto elettriche non è che pratichiamo un NEOCOLONIALISMO ESTRATTIVO?

   Da mesi ci sono dure proteste in Serbia (le più recenti nei primi giorni di gennaio, ma portate avanti negli ultimi mesi del 2021) per chiedere al governo di respingere la possibile costruzione di una miniera di litio nella Serbia Occidentale. Le proteste sono giunte dopo che la Rio Tinto, la seconda società mineraria e di metalli al mondo, ha annunciato di voler dar vita a una grande miniera di LITIO in Serbia, nella Valle del fiume Jadar, a ovest di Belgrado e ai confini con la Bosnia.

   La multinazionale anglo-australiana stima che nei previsti 40 anni di vita, la miniera produrrà 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio: un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici, e per lo stoccaggio di energia rinnovabile; e si ricaverà pure (sempre secondo la Compagnia mineraria) 160.000 tonnellate di acido borico necessario per le apparecchiature per le energie rinnovabili come i pannelli solari e le turbine eoliche.

   L’epicentro delle proteste è la cittadina di LOZNICA. Qui, nella VALLE del FIUME JADAR (come si diceva, ai confini con la Bosnia), sono state scoperte le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo. Poi la protesta (anche a Belgrado) ha messo insieme l’annoso ed irrisolto problema dell’inquinamento atmosferico (soprattutto nella capitale), con appunto i controversi investimenti in campo minerario che, secondo attivisti e organizzazioni ambientaliste, rischiano di compromettere in modo irreparabile il territorio serbo: e proprio tra questi, in particolare c’è la miniera da due miliardi e mezzo di dollari di investimento progettata dalla Rio Tinto; ma anche lo sfruttamento dei giacimenti di rame a BOR, non lontano dal confine bulgaro, da parte della compagnia cinese Zijin.

   Ora pare che il progetto del gigante anglo-australiano si sia (temporaneamente) fermato dopo così tante e tenaci proteste dei cittadini della Valle di Jadar. Tutto bloccato, sembra, per ora, dinanzi ai timori di inquinamento (delle acque, del suolo) paventati dagli oppositori e dimostrati in altre parti del pianeta (specie nell’area meridionale dell’America Latina) con l’estrazione di questo materiale prezioso per l’elettrificazione, com’è il litio. Ma è più che sicuro che il progetto si riproporrà al più presto.

   Perché l’UE attualmente importa il litio per le batterie da fuori Europa. E la Serbia è un membro candidato a entrare nella UE, e la Commissione europea è chiaramente favorevole al progetto (la possibilità di avere “in casa” il prezioso minerale, appena la Serbia sarà accolta); anche ovviamente il presidente serbo Aleksandar Vucic e il suo governo non possono che essere favorevoli: sarà una buonissima entrata finanziaria e un modo anche per accreditarsi con l’Europa nella velocizzazione della procedura di adesione. Pertanto la battuta di arresto temporanea, con le preoccupazioni e il rifiuto della popolazione locale che dovrà convivere con la miniera, sono un ostacolo che si cercherà di rimuovere celermente.

   Ma è veramente pericolosa (e come) l’estrazione del litio in quel luogo della Serbia? Nella Valle di Jadar si trovano i bacini dei fiumi Drina e Sava, da cui circa 2,5 milioni di persone vengono rifornite di acqua. L’attività mineraria, secondo molti, è difficile che possa convivere con il sistemi naturali idrici dei luoghi in cui avviene. Quella poca informazione esistente sui danni all’ambiente causati dall’estrazione del litio spesso, questa informazione, è stata commissionata dalle compagnie minerarie stesse, e c’è da pensare che siano molto interessate a far apparire queste forme estrattive più che compatibili.

   Il paradosso dei metalli per la green revolution è che non ci si comporta per il loro reperimento in maniera diversa dai modi finora adottati per le risorse “non green”: il loro accaparramento spesso distrugge l’ecosistema; e attualmente esistono ben poche garanzie per regole e risarcimenti.

   Pertanto è probabile che il 2022 vedrà tra le sue sfide anche quella del modo di procurarsi, da parte degli Stati e delle aziende automobilistiche, il litio (ma anche altri preziosi materiali, come il cobalto, il rame…) per la realizzazione delle batterie per le auto elettriche. Il litio, specie in Europa ma in tutti i Paesi ricchi, fa gola a molti e può innescare tensioni geopolitiche non da poco.

   In questo momento alcune grandi aziende automobilistiche impegnate nello sviluppo dell’auto elettrica (specie tedesche, come Volkswagen e Mercedes) riconoscono la necessità di un controllo diretto dell’attività mineraria per renderla sostenibile con l’ambiente che vanno ad intaccare. Forse per questo non a caso le miniere di questi metalli preziosi sono finora per lo più aperte nei deserti proprio a causa dell’effetto dannoso sull’ambiente e sulla biodiversità (il triangolo geografico mondiale del litio è tra BOLIVIA, CILE e ARGENTINA); oppure in aree africane poverissime (come il cobalto nel sud del CONGO) dove egemonie locali e paesi esteri predatori fanno quello che vogliono ai danni dell’ambiente e delle popolazioni locali (in Congo, secondo Amnesty International, 40mila bambini lavorano nelle miniere di cobalto).

   Pertanto serve per questo un nuovo approccio alla necessità di trovare questi minerali (Il litio, il nuovo petrolio, va pagato al prezzo giusto): e garantire estrazioni di queste nuove materie prime senza impatti sociali ed ambientali; che le popolazioni autoctone non ne abbiano un danno ma eventualmente dei vantaggi di benessere e affrancamento (nel Sud e nel Nord del pianeta).

   La transizione ecologica vorrebbe (vuole) un approccio nuovo al mondo (umano, animale e vegetale); ma per realizzarla, come nel caso dell’elettrificazione dei veicoli, rischia di andare contro i suoi stessi principi, quando cerca di accaparrarsi negli stessi modi di prima le nuove materie prime (come è il caso del litio). E’ necessario evitare, non replicare, gli errori del passato. Vanno trovate le soluzioni perché ciò non accada.

   L’opportunità data pur dalla negativa situazione del surriscaldamento climatico è quella di pensare a un mondo veramente migliore in tutti i campi (sociale, ambientale, politico, personale….): iniziando con il cambiare i rapporti di sfruttamento sulla natura, sulle persone, sui paesi cosiddetti poveri del mondo. Per riuscire non si può che unire le forze tra i popoli: una svolta sociale. (cioè realizzare il volto migliore della globalizzazione e della transizione ecologica). (s.m.)

La Commissione UE inserisce il nucleare tra le fonti energetiche “pulite” da finanziare (una scelta ponderata?)

   La Commissione Europea ha preso la decisione di aggiungere l’energia nucleare tra le fonti energetiche meritevoli di ricevere un sostegno economico, quale fonte energetica di riduzione delle emissioni di Co2.

   E’ evidente che questa decisione è pesantemente condizionata dalla Francia, che dal nucleare ottiene circa il 70% dell’energia che consuma; ma che anche deve affrontare un ingente programma di revisione e manutenzione dei suoi impianti. La Francia ha 19 centrali nucleari in funzione, contenenti in tutto ben 56 reattori atomici, la maggior parte obsoleti per questo tipo di tecnologia: la media di età di funzionamento è di 35,7 anni, e servono almeno 50 miliardi di euro per l’ammodernamento (questo secondo il gruppo Edf, l’Enel francese).

   Emblematico poi il fatto che se solo Germania, Austria, Spagna e Lussemburgo si sono all’inizio opposte a questa decisione (la bozza della “tassonomia” di inclusione tra le energie “verdi” dell’atomo, e anche del gas naturale, che Bruxelles si appresta a sottoporre a governi e Parlamento europeo è stata resa nota nei primissimi giorni di questo nuovo anno), nel giro di 24 ore la Germania ha mutato la sua opposizione, e ha fatto sapere, attraverso il nuovo cancelliere Scholz, che non solleverà opposizioni a questa decisione della Commissione Ue. Una scelta di astensione, quella tedesca, necessitata dal mantenere i buoni rapporti che ha con la Francia, oltreché forse dal fatto che la Germania (che sta spegnendo tre delle sue ultime sei centrali nucleari) si è accorta di avere molto pochi alleati per un’eventuale opposizione. E anche della necessità di aiutare l’alleato Macron che in aprile di quest’anno dovrà affrontare non facili elezioni presidenziali per una sua possibile riconferma. Le necessità geopolitiche al di sopra di ogni scelta nuova proclamata (il diventato famoso moto di Greta sui politici: “bla, bla, bla…”).

   E così l’Unione Europea apre la possibilità concreta di rilanciare l’energia nucleare come fonte green; produzione di energia nucleare in questo periodo storico per tanti motivi in crisi: costi altissimi sia di costruzione che di mantenimento, difficoltà a collocare scorie radioattive che dureranno per decine di migliaia di anni, incapacità di competere con le energie dalle fonti rinnovabili sui prezzi di produzione, timore di incidenti gravi che possono verificarsi… (di tutto questo vi invitiamo a leggere quanto scrive Gianni Silvestrini sul sito www.qualenergia.it/ che riportiamo di seguito in questo post).

   Il 2022 parte dunque, sul versante energetico per l’Europa, con una delusione rispetto alle aspettative finora espresse, di una svolta energetica. A chi glielo va a dire ai giovani di Fridays for Future che la svolta ecologica prevede un rilancio del nucleare? E come farlo accettare a quelle generazioni che hanno fatto del rifiuto atomico motivo di battaglia politica, e che credevano superato lo sviluppo di questa pratica energetica? E alle future generazioni, non ancora nate, che verranno semmai a sapere che in qualche posto sono seppellite scorie radioattive prodotte dai loro avi per i propri consumi quotidiani?

   E anche l’Italia tacerà, si adeguerà alla decisione della Commissione Ue; divisa sui contenuti energetici al suo interno; e pur ricordandosi il referendum (del 1987) di bocciatura del nucleare; e della improbabilità nel nostro Paese che si voglia riprendere un progetto nuclearista (in Italia non si riesce nemmeno a “collocare definitivamente” -triste dicitura…- il lascito delle scorie radioattive prodotte quarant’anni fa).

   La strada “energetica” che sembrava prospettarsi positivamente fino a qualche mese fa, appariva condivisibile: un modello energetico fondato su innovazione tecnologica, miglioramento dell’efficienza, sviluppo delle rinnovabili e utilizzo del gas come fonte fossile di transizione (forse si poteva aggiungere qualcosa su un convinto risparmio energetico). Ora la situazione pare cambiata.

   L’iter per questa decisione europea, che porterà a consistenti finanziamenti per i Paesi che hanno centrali nucleari, in primis come detto la Francia, ma anche per chi vorrà (o chiederà) di perseguire il progetto di reattori atomici, questo iter di approvazione della bozza di Bruxelles ha un percorso non breve: il testo messo a punto dalla Commissione europea dovrà essere approvato dal Consiglio europeo, vero organo decisionale dell’Unione, che riunisce i capi di Stato e dei governi dei paesi Ue (via libera che non dovrebbe incontrare particolari ostacoli). Il testo dovrà anche ricevere semaforo verde dal Parlamento europeo; e poi la decisione entrerà in vigore nel 2023…e anche se adesso pertanto nulla è ancora definitivo, è presumibile che il tutto possa passare. Non è un passo indietro verso una “nuova Europa”? (s.m.)

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I REATTORI NUCLEARI “ACCADEMICI” VS REALI: ALCUNI DATI IMPIETOSI SULL’ATOMO

di Gianni Silvestrini, 10/12/2021, da https://www.qualenergia.it/

– Costi delle centrali atomiche sempre più elevati, tempi biblici di costruzione, il rischio di disastri, la gestione di fine vita, le scorie, la proliferazione militare. E il mito della quarta generazione. Vogliamo parlare di fallimento dell’atomo? –

   Visto l’improvviso interesse sul nucleare è importante fare chiarezza su questo tema per evitare inutili diversivi rispetto alla necessità di accelerare nella diffusione delle rinnovabili.

   In un recente articolo, un fautore del nucleare sostiene che “il costo sia l’unico vero tallone di Achille dell’atomo”. A parte che di criticità il nucleare ne ha molte altre, cerchiamo di portare alcuni elementi di informazione su questo aspetto.

   Intanto, un dato: Continua a leggere “La Commissione UE inserisce il nucleare tra le fonti energetiche “pulite” da finanziare (una scelta ponderata?)”