ALCUNI PENSIERI PER STARE AL MONDO (di MARIO FADDA, Champorcher San Silvestro 2019, ma anche Capodanno 2020)

   Il mondo sta attraversando una fase di profonda trasformazione che, per la prima volta, è quasi totalmente determinata da chi vi abita: oltre 7 miliardi e mezzo di persone, ormai quasi 8, sono un bel peso: con i tempi brevi che ne derivano, perché l’azione umana ha tempi incommensurabilmente più rapidi delle dinamiche naturali.

   Lascio da parte il calcolo a cui sono affezionato: se divido la superficie delle terre emerse (150 milioni di kmq) per gli abitanti della terra ne ricavo un modesto carico di ettari per ciascuno di noi e farci stare tutto quello che ci serve e ci piace, in maniera ordinata, costa tempo e fatica.

   Facciamo più presto a rovinarlo!

   Voglio invece parlare di una questione che considero più determinante, circa le prospettive di sopravvivenza del nostro genere e parto da una insufficienza della mia generazione e di quella dei miei genitori: perchè sia io, con i miei coetanei, quanto la generazione che mi ha preceduto, non ci siamo resi conto che stavamo consumando tutto quello che c’era al mondo.

   La mia generazione ha cominciato a intuire, una cinquantina di anni fa, quanto male stavamo facendo all’ambiente, con il degrado progressivo delle risorse e tuttavia ancora adesso c’è chi dà battaglia contro la riduzione dell’inquinamento, negandone l’importanza: vedere, per credere, l’ultima conferenza mondiale che si è chiusa poco prima di Natale!  Ancora una volta è prevalsa l’incapacità di correggersi, perché il consumismo di massa ha vinto ancora e l’Australia, tra i paesi negazionisti, si è trovata con uno “splendente” Natale, in una sorta di immediato contrappasso.

   Ma il problema, di cui vorrei parlare qui, riguarda una realtà ancora più grave nell’urgenza che ne deriva, determinata dallo squilibrio tra il modo di vivere europeo e del resto del mondo: un enorme diseguaglianza, misurabile nel confronto tra la condizione di ricchezza di cui godono gli europei, ricavata dai tre secoli in cui noi del vecchio continente ci siamo costruiti un benessere fondato sullo sfruttamento di interi continenti e il resto del mondo.

   E il guaio continua, basta andare a due passi da noi, in Africa.

   Mi ripeto e provo a riassumere: in trecento anni gli europei si sono impadroniti della maggior parte del mondo, spremendone le risorse e mantenendo la gente in condizione subalterna.   Con quelle ricchezze ci siamo dati, in Europa, un sistema di difese, concepite purtroppo solo entro limiti di utilitarismo, che si riassumono per tutti in:

– Istruzione scolastica (imparare un mestiere, piuttosto che acquisire cultura);

– Assistenza sanitaria (evitare le malattie, piuttosto che migliorare la condizione umana);

– Sistema pensionistico (dare ai vecchi il modo di non pesare sui giovani, magari mantenerli).

Tre obiettivi straordinari, se pensiamo all’Europa di cinque secoli or sono, ancora alle prese con pestilenze e fame, ma molti limitati nelle loro prospettive.

   Queste tre realtà (il cosiddetto welfare) nel resto del mondo, peraltro, non esistono o sono realizzate in parte: l’unica cosa su cui si è intervenuto abbastanza generalmente è la riduzione della fame, con un diffuso livello di sufficienza “per non morire di fame”, ma i barconi nel Mediterraneo denunciano fatti molto gravi, come la cacciata di massa della popolazione da certe zone dell’Africa (peraltro avviene anche in Amazzonia) dove il sistema di sfruttamento delle risorse naturali sta distruggendo risorse irriproducibili: come in Sierra Leone, per citare il caso più recente!

Allora? Dove stiamo andando? Verso quale futuro?

   Vediamo l’ipotesi che io considero pericolosa e che si realizzerà, se nessuno si opporrà.

   In questo momento si sta consolidando una strategia di potere mondiale concentrata su tre soggetti politico/economici che dominano la scena: STATI UNITI, RUSSIA e CINA.   Agli Stati Uniti si aggregano il BRASILE (che spera di trascinarsi dietro tutta l’America Latina) e la GRAN BRETAGNA, che per questo ha abbandonano l’Unione Europea.

   A onor del vero, c’è un quarto soggetto, IL GIGANTE INDIANO, che per massa non scherza, ma è un po’ politicamente sottotono (aspettiamo che scoppi?)

   Questi tre soggetti manterranno nel mondo un clima dialettico più o meno violento, ben controllato, orientato e strumentalizzato da chi (sopra perfino ai tre mega-giocatori, poche persone in fondo) detiene il potere mondiale, per ora concentrato negli strumenti finanziari.

   So di non dire nulla di nuovo, poiché è tutto chiaro da Bretton Woods, ma sono gli assetti attuali, che a me paiono carichi di urgenze.

   Sotto l’occhio vigile di questa piccola testa (che mantiene duramente piena libertà strategica e decisionale) l’assetto economico sarà organizzato su tre livelli di accesso alle risorse alimentari e, più in generale, di utilità essenziale.    Questa testa comprenderà anche la ristretta area che fa da contesto al gruppo di potere: è il suo humus, che ne garantisce la sopravvivenza biologica.

Poi i tre livelli.

UN PRIMO LIVELLO è composto dalla gente che cercherà di ACCUMULARE RICCHEZZE per poter vivere in apparente libertà (fare quel che si vuole, senza però cambiare nulla del sistema).

UN SECONDO LIVELLO sarà costituito da quelli cui sarà possibile accedere a forme di compensazione delle proprie attività come riconoscimento di capacità produttive decorose (grosso modo quello che oggi chiamiamo CONSUMISMO di medio/ bassa qualità).

UN TERZO LIVELLO sarà costituito da CHI VIENE MANTENUTO IN CONDIZIONI DI SOPRAVVIVENZA, sufficiente per escludere forme di ribellione, senza particolari obblighi di produttività, ma senza diritti di rivendicazione.

   Si può costruire una PIRAMIDE per rappresentare questa SCALA DI VALORI.

   Al vertice uno 0,005% per il potere totale.

   Si possono valutare i tre gradini successivi con 0,5%, 10%, 30% e il rimanente mantenuto a non fare nulla e non avere nulla.

   Provare a tradurre le percentuali in quantità più chiare, dà un’immagine a dir poco preoccupante; aggiungo che qualche cifra potrà sembrare più simbolica che reale (soprattutto le prime due) ma io credo di non sbagliare poi di tanto, condividendo queste riflessioni con una quantità di siti che tutti possiamo trovare ormai abbastanza diffusamente sulle reti:

– 4000 persone al comando, con il loro humus (come garanzia di ricambi generazionali) di 40 milioni a vivere da ricchi;

– 800 milioni ad approfittare di una società consumistica (un po’ come viviamo oggi in parte dell’Europa, un po’ di Nordamerica, magari il Giappone, che fanno giusto quella cifra di popolo);

– 2 miliardi e mezzo a rincorrere qualche beneficio;

– Il resto del mondo (circa la metà, cioè 4 o 5 miliardi di persone) mantenuti a sopravvivere: per loro sono già pronti i magazzini di distribuzione cosiddetta “commerciale” modello Amazon: con una informazione diffusa volta a convincere che quella è una condizione di libertà totale, in realtà di dipendenza assoluta dalle decisioni di chi ha il potere (i 4000 appunto!).

   Si badi bene, ciascuna di queste cifre considera il gruppo che accede alle risorse, non chi ne riceve il diritto di usarle: se si considera che oggi l’indice medio di unità familiare è di 1,2/1,5 persone ogni unità lavorativa, si capisce come il conto di chi lavora sia ancora più esiguo.

   Supposto che i 4000 siano tutti dei “decisori”, allora le altre due cifre che seguono diventano:

30/32 milioni l’humus (ma questi lavorano o solo gestiscono ricchezza?), 600/620 che producono ricchezza.

   Tutto il resto è più o meno consumo, con qualche libertà di scelta per i meno e nessuna scelta per i più.

   Osservando questo quadro non restano che due considerazioni.

   Dato per scontato che nessuno di noi (parlo di me, dei miei parenti, dei miei amici e conoscenti!) accede al gruppo di testa, per la nostra estrazione sociale, come fare per entrare nel primo livello? non c’è che la strada della qualificazione professionale, che significa due possibilità, da gestire contemporaneamente:

– un grado di preparazione che consenta libertà di scelta di occupazione (il che significa essere correntemente bilingue; come, per esempio, gli allenatori di calcio, di basket, di sci, di nuoto – lo sport spettacolo, insomma –  più famosi, che parlano correntemente due o più lingue; sarà un caso che questi siano persone di qualità confrontabile con chi opera nei livelli multinazionali più aggressivi?)

-una capacità di muoversi nel proprio ambito, disponendo di tre strumenti: UN PRODOTTO VENDIBILE (lavoro remunerato) UN LAVORO DI RICERCA (che può diventare vendibile se il primo diventa troppo sfruttato e condizionato) e UN LAVORO DI LIBERA ESPRESSIONE CREATIVA, che può diventare di ricerca, a patto – in quel caso – di trovare immediatamente con che rimpiazzarlo (si chiama “TEORIA DEI TRE LAVORI” ma su questo è il caso di tornarci un’altra volta!)

Mentre si lavora per mantenersi liberi (da qui la battaglia che ciascuno deve condurre, perchè sarà una battaglia!) per rimanere nel primo livello e non scadere nel secondo o, peggio, rotolare nell’ultimo, occorre provare a come cambiare la situazione: e qui si pone la questione radicale del nuovo.

…..

Il nuovo

Siamo alla fine di un ciclo storico, quello che chiamiamo Evo moderno e contemporaneo.

   Ne conosciamo tutti l’origine: il pensiero liberatorio, che riconosce la dignità umana sia in chi con essa ama il divino, sia in chi in essa vede esaurirsi ogni forma di eccellenza conosciuta.

   Ricordo solo quello che considero il principio fondante la libertà: la POSSIBILITÀ DI SCELTA.

   Scegliere in che cosa credere, che cosa decidere, quali percorsi intraprendere, come e con chi organizzarsi.

   Tutto bene, fatto salvo che, nel frattempo, il mondo è venuto usurandosi e consumandosi.

   Troppi hanno frainteso la libertà con l’arbitrio: di agire solo per convenienze e tornaconto, usando la violenza quando l’obiettivo sembra sfuggire di mano, usando la violenza anche come sistema di prevenzione.   Perfino la violenza giustificata come strumento di protezione dei meno fortunati.

   Il risultato è già stato previsto: cinquant’anni or sono si scrisse sui “LIMITI DELLO SVILUPPO”.

   Oggi l’esito è programmabile in date e modalità: se ne occupa chi lavora sui temi dell’ambiente e del suo degrado, da Latouche in poi.

   Occorre però anche un nuovo pensiero, perché quanto elaborato sul lavoro come espressione creativa e strumento di libertà individuale ha avuto esiti insoddisfacenti.

   Quando Benedetto propose alla persona “ora et labora” indicò un percorso, troppo presto deviato sul versante comodo, perché redditizio, del lavoro che produce mezzi di scambio commerciale e, infine, del lavoro-merce: il mondo che Marx definisce “dell’alienazione”.

   Il principio del “diritto al lavoro”, bandiera di un pensiero emancipante dalla dipendenza economica, fu concepito invece da pochi (e quindi subìto da molti!) come guerra al ricatto: oggi non regge più, perché ha come unico esito possibile, nella piramide prima descritta, la riduzione generalizzata alla condizione subalterna, impotente e consumistica.

Che fare?

Non c’è che un’ipotesi possibile, purtroppo altamente rischiosa, perché comporta un’evoluzione radicale della condizione umana.

   Oggi si concepisce ancora il lavoro – pur riconoscendone la potente valenza espressiva di qualità personali – come strumento e oggetto di contrattazione economica, necessari per acquisire i beni di cui ciascuno non può fare a meno, magari arricchendosi pure!

   Occorre SEPARARE LE DUE COSE: IL LAVORO – magari con un’evoluzione del concetto: ora et labora = cogito, ergo laboro – è l’espressione della creatività e della capacità di concepire il nuovo che la mente umana è in grado di elaborare, non costretta per ruolo, non sospinta da convenienza, ma orientata una volta per tutte a esprimere qualità, nelle proprie valenze e nelle scelte.

   Esistono, sono già esistite, esperienze di questo tipo: il mondo delle arti e delle scienze sono ricche di storie di chi ha dedicato la propria attività, talvolta la propria vita, a un lavoro inteso non come merce di scambio, ma come manifestazione della propria capacità di creare il nuovo, il bello, l’utile per altri; non è la stessa radice di pensiero che induce ancora altri a dedicare la propria vita alla carità verso i deboli? alla misericordia? al soccorso? Con evidente disconnessione da ogni forma di compensazione in denaro o comunque in beni commerciabili.

   Di questi ultimi, taluni l’han fatto per guadagnarsi la grazia del premio eterno: potrà diventare anche, per tutti, la libera espressione della qualità e delle attitudini che ciascuno porta in sé? Capace quindi di produrre anche tutto quanto è utile e necessario per la sopravvivenza di ciascuno? In una realtà dove, sempre di più, mansioni usuranti, ripetitive e comunque in grado di soddisfare bisogni diffusi ed essenziali, trovano soluzioni extraumane?

   Il lavoro, liberato dal ricatto di essere merce, sarà finalmente l’espressione di quanto la persona, in base alle sue scelte, alla cultura di cui dispone, confrontandosi con chi la circonda, sarà di in grado di esprimere per realizzare quell’idea di casa in cui vivere, quell’idea che stiamo intuendo e cercando di esprimere con la parola “ecologia”: oikos logos, solo esprimendo la quale, si potrà poi definirne le regole per l’uso, oikos nomos, sulla base delle quali stabilire forme di organizzazione utili per orientare l’uso di massa.

   Il che significa chiudere con una vicenda ormai pluricentenaria, che erroneamente ha capovolto il ruolo tra i due concetti, facendo dipendere, nel migliore dei casi, l’ecologia da qualche beneficenza economica.

   Tutto utopia?   Certo, perché attualmente tutto ciò è “fuori del tempo”, sia pure già abbozzato in tante forme cosiddette di “volontariato”.

   Si tratta infatti di riqualificare l’uso di tante parole ben note, ma troppo spesso relegate a ruolo di espressione di condizioni considerate, di volta in volta, casi fortunati, o privilegiati, volontari, magari di “santità”.   Magari considerando gli interessati dei “geni”, parola che per molti è sinonimo di stranezza, o più semplicemente di grande e solitaria, fortunata casualità.

   Bisogna darsi da fare, non abbiamo tempi illimitati a disposizione: la questione ambientale lo spiega molto bene.

   Da Motesquieu e Genovesi, da Smith in poi, è passato meno di mezzo secolo da quando queste idee si sono diffuse e affermate; da loro a Bretton Woods due secoli e poi, fino a noi altri, quasi un altro.

In totale: trecento anni o poco più.

   A noi, senza voler essere calamitosi sul senso degli avvertimenti ambientali, forse non resta altrettanto per capire che aria tira e metterci rimedio.

   Il lavoro non è merce, ma espressione della creatività della persona, il cui prodotto – qualsiasi esso sia, materiale o immateriale – è dato a chiunque, da chi lo esprime, in accesso libero.

   Il lavoro non è merce per il mercato, governato dal potente mediatore che lo determina, cioè il denaro, ma è resa di libera disponibilità, alla quale tutti sono orientati (devono essere orientati e, quindi, a questo scopo sostenuti e formati) sulla base di un nuovo modello culturale ed ecologico.

   E’ subito chiaro che qui si pone la necessità della più potente rivoluzione del sistema culturale mondiale, dai tempi di Kant: perchè se quattro secoli fa si pose il problema di un diritto all’istruzione di tutti, come riconoscimento delle qualità e potenzialità dell’essere umano e si riuscì a farlo in un’Europa che ancora si straziava con guerre trentennali (un’abitudine che comunque si è protratta fino allo scorso secolo), non vedo perché non lo si possa pensare per 8 miliardi e ponendo l’obiettivo non tanto sul saper leggere e scrivere (cosa che ormai fa, in vece nostra, qualsiasi telefonino, traduttore plurilinguistico universale, di cui sono forniti perfino gli ultimi antropofagi della Nuova Guinea, supposto che abbiano ancora queste abitudini e non siano piuttosto anche loro impegnati a tasteggiare!)  ma sul saper pensare, scegliere e decidere.

   E, una volta deciso, la persona che fa quello che sa fare meglio, quello in cui si sente creativa e realizzata, dallo scrivere formule, dipingere quadri, costruire automi o piantare cavoli e spremere vino e ospitare turisti, sarà pronta per dare il suo e avere dagli altri quanto gli serve, soddisfacendo il campo delle proprie esigenze.

   Non sto parlando di follie idealistiche, perché qualche embrione di accessibilità gratuita al prodotto (soprattutto alimentare) è già in atto, anche nella forma di scambio di prestazioni diverse, dai servizi per l’abitazione, alla cura della persona, all’istruzione dei piccoli e dei deboli.

   Piccole luci che si stanno accendendo, ma bisogna decidere di avere occhi per vederle e alimentarle perché tutti le vedano!

   Tutto ciò non vuol dire reinventare il baratto (gene alimentato dalla convenienza, che conduce solo al mercato) alla cui radice si pone comunque uno scambio tra corrispettivi valoriali in base a quanto costa il produrre e quanto posso guadagnare dalla qualità che produco, ma semplicemente un mettere a disposizione di chi ne usa quello che ciascuno sa pensare e fare.

   Lascio alla fantasia di ciascuno descrivere quanto, in questo quadro, si chiama “esigenza”: definiamolo pure bisogno, come si è sempre fatto.

   Tralascio anche (ma costituirà certamente uno dei grandi temi su cui si giocherà l’evoluzione della specie) il problema dell’educazione al consumo di beni, anche se certe tendenze (se non vediamo solo quello che ci propongono i circuiti commerciali, nell’alleanza tra grandi firme e Amazon appunto!) vedono già un’umanità orientata ad andare oltre il parossismo del consumismo: ma qui il discorso si fa davvero lungo, per dire che quanto si profila all’orizzonte non passerà in maniera né semplice, né indolore.

   Ma bisogna provarci.

   Concludo confidando di trovare e riconoscere compagni di strada, o almeno degli interlocutori, per avviarci verso una realtà in cui la persona sia indotta e aiutata (educata) a occuparsi di quanto ritiene essere proprio centro di attenzione, cercando per sé e garantendo a tutti libertà di scelta: a patto di alzare il tiro, da scegliere che cosa avere, a capire che cosa si è in grado di dare. (MARIO FADDA, 14 gennaio 2020)