La CADUTA DEMOGRAFICA del nostro Paese, e la paura della FINE DEL LAVORO a causa dell’automazione: ma non è che nel prossimo futuro il rischio vero è quello di non avere un sufficiente numero di lavoratori? E se il proprio lavoro piace, perché non poter continuare oltre la pensione?

DEMOGRAFIA – il dibattito che serve ma che non si fa

IL VERO DRAMMA DEL LAVORO SARÀ IL VUOTO GENERAZIONALE

di FRANCESCO SEGHEZZI ricercatore, dal quotidiano “DOMANI”, 24/12/2020

– Il rischio: nei prossimi anni pagheremo le conseguenze di ciò che sta accadendo –

   Abituati a scadenze a breve termine e a orizzonti temporali sempre più brevi, tanto in politica quanto in economia, ci risulta difficile comprendere gli impatti delle dinamiche demografiche, soprattutto sul mondo del lavoro. Ma basta avere la pazienza di leggere i dati che Istat ha diffuso nelle ultime settimane per aver chiaro come stiamo perdendo tempo guardando al dito e ignorando la luna.

   I numeri parlano chiaro e ci dicono che il censimento della popolazione italiana del 1951 individuava un’età media di 32 anni; nel 2019 questa è salita a 45 anni. Di certo non si può che festeggiare per l’aumento della speranza di vita, reso possibile dai progressi della scienza e dalle migliori condizioni di vita (alimentari, igieniche, sanitarie).

   Ma non possiamo ignorare come questi numeri cambino anche e soprattutto per un costante declino delle nascite che, nonostante l’apporto positivo della popolazione straniera, prosegue ormai da anni. È infatti sempre Istat a mostrarci come nel 2008 abbiamo avuto 576mila nascite mentre nel 2019, l’ultimo dato appena aggiornato, il numero sia sceso a 420mila. Centinaia di migliaia di nati in meno che cambieranno (e stanno già cambiando, senza la nostra consapevolezza) il panorama demografico italiano.

   Perché il fattore demografico gioca in un campionato in cui i tempi sono profondamente diversi da quelli sposati oggi dall’azione politica. Un eventuale, per quanto improbabile, massiccia inversione di tendenza nei trend di natalità avrebbe impatti sul mercato del lavoro dopo almeno vent’anni, perché i nuovi nati dovrebbero crescere, formarsi e accedere al mercato. Questo dettaglio, che dettaglio non è, ci fa comprendere come nei prossimi decenni ci troveremo a pagare le conseguenze in termini di sostenibilità economica, finanziaria e sociale di quanto accaduto negli scorsi anni e di quanto sta accadendo oggi.

Meno tasse e meno contributi

Le conseguenze iniziamo a osservarle oggi con un rapporto tra coloro che percepiscono una pensione e coloro che versano i contributi (i lavoratori attuali) che si evolve nella direzione di uno squilibrio a vantaggio dei primi. Questo genera debiti che è difficile sanare se non si interviene sul sistema previdenziale. Allo stesso tempo meno forza lavoro significa meno occupati potenziali e quindi non solo meno contributi ma anche meno tasse da un lato e meno salari dall’altro, con conseguenze sulla sostenibilità delle casse dello stato, su Pil e consumi.

   Fino al paradosso più grande di un dibattito pubblico che si concentra sulla paura della fine del lavoro a causa dell’automazione senza preoccuparsi invece di un futuro in cui il rischio vero è quello di non avere, al contrario, un sufficiente numero di lavoratori.

   Non si può negare che dal punto di vista dell’azione politica la risposta alla sfida demografica sia a dir poco complessa. Da un lato abbiamo il dato temporale, ossia la necessità di porre in essere misure di sostegno alla natalità che per funzionare devono essere continuative nel tempo e non vittime dell’incertezza che sopraggiunge a ogni cambio di governo. Misure che porteranno, però, risultati concreti tra decenni e che nulla possono fare per supplire al vuoto generazionale determinato da quanto già accaduto.

   Dall’altro non si può ridurre la risposta a questa situazione drammatica a un investimento di lungo termine, proprio per la sua intrinseca incertezza. E qui entrano in gioco i nodi che spesso non vogliono essere affrontati poiché inversamente proporzionali agli impatti che essi hanno nelle urne. Parliamo in particolare di una seria riflessione, e un relativo investimento, su come rendere sostenibile il lavoro anche in età avanzata.

   Questo non significa solamente interventi sull’età pensionabile, sia aumentandola che diminuendola.  Senza dubbio la riforma Fornero ha contribuito, pur con i suoi limiti, a rendere molto più sostenibile finanziariamente il sistema pensionistico, ma qui è in gioco una idea diversa di sostenibilità molto più legata al lavoro in quanto tale. Perché è evidente che determinate mansioni non possono essere svolte oltre una certa età, ma non possiamo immaginare (come stiamo facendo) che l’unica soluzione sia individuare vie d’uscita dal mercato del lavoro per tutti coloro che svolgono lavori usuranti.

Percorsi alternativi

L’impegno a cui è chiamato il governo nel decidere come investire risorse pubbliche, ma anche imprese e sindacati nella progettazione concreta, è quello di immaginare percorsi alternativi per i lavoratori maturi che ancora possono contribuire ai processi produttivi se impegnati in mansioni diverse, magari per meno ore. Potrebbe sembrare utopia, ma le strade alternative portano a una realtà molto peggiore. (FRANCESCO SEGHEZZI, dal quotidiano “DOMANI”)

Giuseppe Amari: “ASPETTANDO GODOT ?”


Pubblichiamo, con l’approvazione dell’autore, questo articolo pubblicato sul Blog srireset.it.

Amari, tra le altre cose, cura il catalogo informatizzato delle opere di Federico Caffè e ha curato, oltre a diversi volumi delle sue opere, anche In difesa dello Stato al servizio del Paese, la battaglia di Giorgio Ambrosoli, Paolo Baffi, Silvio Novembre Mario Sarcinelli e di Tina Anselmi (2010) e Le notti della democrazia, Tina Anselmi e Aung San Suu Kyi, due donne per la libertà (2012) entrambe nella collana da lui ideata “Gli Erasmiani” (Edizioni Ediesse).

Si ha l’impressione che, in attesa dei fondi europei, ognuno continui con i medesimi comportamenti in una sorta di inerzia. Anche con la illusoria fiducia che, una volta disponibili quei fondi, tutto si risolva automaticamente come prima e meglio di prima; una riproposizione della provvidenziale «mano invisibile», anche se questa volta ha un nome.
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Purtroppo non è così. E non è così nemmeno per le necessarie correzioni delle nefaste politiche europee dell’austerità deflazionistica, sulle quali c’è una recente resipiscenza che, ci si augura, non sia temporanea. E perché non lo sia occorrerà una dura battaglia.

Gli imprenditori hanno diritto a richiedere giusti ristori per le forzate chiusure e riduzione dell’attività, ma non potranno pensare domani di ripetere il solito modello della evasione ed elusione fiscale, dell’uso dei paradisi fiscali, della lesina delle retribuzioni, dei mancati investimenti in innovazione e formazione, della gestione autoritaria nelle relazioni sindacali. Inaccettabile prima, intollerabile ora e dopo quando si tratterà di rimborsare il notevole indebitamento pubblico, che non potrà gravare esclusivamente su chi le tasse le ha sempre pagate.

Il sindacato, da parte sua, ha aperto la stagione dei rinnovi contrattuali con le controparti pubbliche e private in alcuni casi fermi da anni, in una situazione di oggettiva grande difficoltà, e che vede da anni la mortificazione e il declino della distribuzione del reddito a danno del lavoro dipendente. Senza dimenticare il montante processo di precarizazione e l’esistenza di ampie e crescenti fasce di lavoratori senza coperture contrattuali.

Su tutto incombe il problema della disoccupazione che esploderà quando sarà allentato o eliminato il divieto dei licenziamenti. Un problema che va affrontato oggi e non domani con le adeguate misure e il concorso solidale di tutti compreso quello all’interno dello stesso mondo del lavoro. Concorso solidale, quest’ultimo, che è il carattere distintivo del sindacalismo confederale.

La sua tenuta confederale infatti è anche la migliore garanzia della tenuta sociale e unitaria del Paese.

Insieme alla inaccettabile e crescente divaricazione di reddito e di ricchezza, aggravata dall’attuale crisi, ne avanza un’altra non meno grave tra chi si trova in situazione di relativa sicurezza anche modesta e chi invece vive in condizioni di grave precarietà e incertezza, di povertà anche assoluta. Una divaricazione che passa trasversalmente tra diverse componenti sociali: imprenditoriali, professionali, del lavoro dipendente. E qui deve soccorrere il necessario richiamo alla solidarietà sociale. Chi ha più dia di più, ma anche chi dà avendo poco fornisce un grande esempio civile e morale.

Nel settore privato oggi e non domani il conflitto distributivo non può privilegiare la ripartizione delle risorse tra dividendi alla proprietà e retribuzioni al management da una parte e aumenti salariali dall’altra, ma deve convergere al mantenimento se non all’aumento dell’occupazione. Ciò significa che tutte le risorse disponibili interne ed esterne devono essere impiegate in innovazione e formazione in una logica gestionale di medio periodo. La stessa contrattazione deve ottenere convincenti «piani di impresa» forniti di adeguate risorse finanziarie, tecniche ed umane.

Nel settore pubblico, per un ragionamento analogo, si deve privilegiare oggi e non domani un grande piano di assunzioni, anche a tempo parziale per ragioni di urgenza. D’altronde è nota la carenza di organici in tante parti del pubblico impiego. A tempo debito si dovrà certamente procedere alla migliore ripartizione e al più razionale impiego e finalmente anche alla sua dignitosa retribuzione.

Mai come oggi, e più in generale, va recuperato il concetto, caro a Federico Caffè, dello «Stato occupatore di ultima istanza».

In tempi di scarsità di risorse si è keynesiani intervenendo anche sul lato dell’offerta e non solo su quello della domanda aggregata. E’ la tesi di un keynesiano doc e premio Nobel Lawrence Klein.

In sostanza occorre intervenire, insieme alla domanda anche selettiva, sui vari settori della produzione di beni e servizi per correggere insufficienze e strozzature, comprese quella sul mercato del lavoro. A proposito che fine hanno fatto i Centri per l’impiego?

Abbiamo riscontrato, ancora una volta in questa fase, la grave e ben nota carenza nel funzionamento dell’apparato amministrativo a tutti i livelli centrali e periferici e di settori importanti dell’economia e della società come le banche, i trasporti soprattutto urbani, le banche, la sanità.

Oltre alla lezione keynesiana va recuperata quella del New Deal; ma quella vera, poco conosciuta ed apprezzata in Italia.

Per Roosevelt e i «new dealers» il New Deal era soprattutto riforme civili e sociali, prima che politiche di ripresa economica.

Lo rende bene la seguente frase del presidente americano:

«Progrediremo realmente? Il vero problema è se dobbiamo permettere che le nostre difficoltà economiche e la nostra imperfetta organizzazione frustrino il sano e sostanziale sviluppo del nostro governo civile».

Il suo programma, tradotto nei numerosi provvedimenti di legge («Acts») dei primi frenetici 300 giorni, affrontava i problemi della riforma dello Stato e del Governo, i problemi della tassazione, della riforma agraria, della sanità, delle ferrovie e dei trasporti, della energia, della finanza, dei monopoli e del loro strapotere, della riforma giudiziaria e delle carceri denunciando le condizioni disumane soprattutto di giovani condannati a pene severissime, delle condizioni e degli orari di lavoro compresi quelle donne e dei fanciulli.

Come ha potuto condurre questa battaglia civile e democratica contro le forti concentrazioni di potere che sovrastavano i singoli Stati? Rafforzando il Governo federale e alleandosi con il movimento sindacale che rafforzò con provvedimenti di legge.

Purtroppo la sua lezione non è stata recepita perché da decenni alle crisi e recessioni fa seguito una regressione sul piano civile e sociale.

Come hanno insegnato Bobbio e Ferrajoli, Stato sociale e Stato di diritto sono strettamente connessi. All’impoverimento del primo segue inevitabilmente quello del secondo.

Il welfare universale, e non quello aziendale, unica risposta razionale in un mondo pervaso dall’incertezza, è anche la principale manifestazione della solidarietà sociale e garanzia della tenuta sociale e unitaria del Paese.
E lo vediamo, al contrario, dalla moltiplicazione in Europa e nel mondo di spinte autoritarie, demagogiche e populiste, sovraniste e, sul piano interno centrifughe, il risorgere di movimenti e partiti di estrema destra.

Se è principale compito della politica affrontare quelle riforme civili e sociali oltre che economiche, non meno importante è il ruolo del sindacato perché il funzionamento di quei settori decisivi non può avvenire senza il concorso partecipato e attivo, anche propositivo del mondo del lavoro. Anche per quella politica dell’offerta congiunta alla domanda di cui parlava Lawrence Klein.

Un funzionamento che non può prescindere da una estensione della democrazia nel mondo del lavoro e nelle aziende, che va oltre quella dimensione se è valida la considerazione di Guido Calogero che «la più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie…» (aziendale, economica, sociale, politica): le democrazie come le libertà sono tra di loro solidali.

In altri tempi il movimento sindacale, in assenza o debole presenza politica, ha affrontato il problema delle riforme e dello stesso funzionamento di settori economici pubblici e privati.

E mai come oggi tale ruolo sarebbe importante anche con il coinvolgimento esterno delle migliori risorse intellettuali e tecniche.

Per tornare alla politica e alla lezione di Roosevelt, è necessario riconquistare la sua piena indipendenza e assumere la preminenza sugli interessi costituiti, siano economici, finanziari e oggi della informazione.

Va riconquistata la capacità programmatoria e rivalutato l’intervento pubblico, insieme ovviamente alla correlata piena valorizzazione del lavoro pubblico.

E non sembri retorico il richiamo all’art. 54 della Costituzione che vale la pena riproporlo per i tanti veri e finti immemori, ma sempre pronti all’ipocrito omaggio:

«Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore».

Federico Caffè, a metà degli anni settanta scriveva:

«Si va alla ricerca nominalistica di un ‘nuovo modello di sviluppo’, ma esso .nelle sue ispirazioni ideali, si trova nella prima parte della Costituzione, nei suoi aspetti tecnici nei lavori della Commissione economica per la Costituente».

Ispirazione ideale che non vale solo per gli aspetti economici, ma investe l’intera vita civile sociale e democratica del Paese.

Ma come valutare una classe politica che mantiene nel suo seno ed anzi volentieri collabora e intriga con coloro che offendono palesemente quell’articolo, compresi quelli che, condannati per evasione fiscale, il reato peggiore di un politico o peggio di un governante, hanno tradito il Paese e i suoi concittadini?

Quale lezione civile e morale viene fornita ai giovani e quale e quanto degrado etico collettivo ne consegue?

Gustavo Zagrebelski commentando l’art. 54 affermava:

«[…] Se ci pensiamo è la norma fondamentale, sulla quale tutto si regge (o tutto crolla) … La prima riforma di cui abbiamo bisogno è il rinnovamento civile. La Costituzione senza di ciò, è solo un falso obiettivo».

Quanto poco «tutto si regge» lo stiamo amaramente constatando.

• * Sindacalista. Fondazione Giacomo Matteotti.

(giusamari45@gmail.com

NOTE:

i Cfr. Lawrence Klein, La teoria economica dell’offerta e della domanda, Giuffrè, Milano 1983. Traduzione e prefazione di Federico Caffè.

ii In G. Amari, M.P. Del Rossi (cura), Franklin D. Roosevelt, Guardare al futuro. La politica conto l’inerzia della crisi, Castelvecchi, Roma. Prefazione di James Galbraith, p. 89.

iii Ivi. I problemi affrontati sono articolati in altrettanti capitoli del volume. I provvedimenti legislativi si trovano elencati in Appendice.

iv Se ne argomenta bene in AA.VV., La grande regressione. Quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017. Nella introduzione di Geiselberger si legge: «[…] Siamo testimoni di un declino rispetto a un determinato livello di “civilizzazione”, che credevamo irreversibile… La grande regressione che oggi si dispiega davanti ai nostri occhi sembra dunque essere il risultato di un’interazione tra i rischi della globalizzazione e quelli del neoliberismo. I problemi generati dalla incapacità della politica di far fronte alle interdipendenze globali trovano infatti delle società impreparate ad affrontarli sul piano delle istituzioni come su quello culturale [corsivo mio]».

  1. v  Norberto Bobbio, “Stato liberale e ‘Stato di benessere’. Alcune critiche”; Luigi Ferrajoli, “La crisi dello Stato di diritto nella crisi dello Stato sociale”. Ambedue in Ester Fano et al. (a cura), Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato, Bari, 1983, rispettivamente alle pp. 373-376 e alle pp. 419-429.
  2. vi  GuidoCalogero,Difesadelliberalsocialismo,Conalcunidocumentiinrditi,Atlantica,Roma1945,p.60.
  3. vii  F. Caffè, “Storia e impegno civile nell’opera di Giovanni Demaria”, In Tullio Biagiotti, Giampiero Franco (eds), Pioneering Economics: International Essays in Honour of Giovanni Demaria, Cedam, Pavia 1978, pp.184-189.

viii Gustavo Zagrebelsky, “Sessant’anni della Costituzione”, Introduzione al testo costituzionale allegato al

cofanetto con n. 2 DVD: La nascita della Costituzione italiana. Le idee, i protagonisti, la storia, del Gruppo Editoriale L’Espresso di Rai Trade, per i sessanta anni della Costituzione.

Scene di caccia neoliberale

Dal Manifesto, articolo di Marco Bascetta, 11.12.2020
Tempi presenti. «Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi» di Marco d’Eramo, edito da Feltrinelli. Armi, astuzie e strumenti ideologici di un’offensiva osservata nel suo teatro
esemplare: gli Stati uniti. Cartografia di una contro-rivoluzione: dai magnati che la finanziano, ai
think tanks che ne mettono a punto le narrazioni, al Premio Nobel per l’economia che promuove la
scuola di Chicago. Come al superamento del sistema di produzione fordista si è accompagnata una
ridefinizione di spazi e orientamenti politici
Nel 2009 i due studiosi francesi Pierre Dardot e Christian Lavalle battezzarono l’affermazione
pressoché planetaria del neoliberismo una «nuova ragione del mondo». Con questa espressione non
si intendeva solo la forma assunta dal modo di produzione capitalistico, nemmeno il successo di un
pensiero egemonico o la convinzione dominante di aver raggiunto la miglior forma di organizzazione
sociale immaginabile, una nuova fede o uno strumento infallibile di governo degli umani. Piuttosto
tutte queste cose insieme. Ancora più semplicemente la «nuova ragione del mondo» poteva definirsi
come la ragione dei vincitori in quanto vincitori. Di che cosa? Di una lunga guerra dei ricchi contro i
poveri, dei dominanti contro i dominati, del capitale contro qualunque ostacolo alla sua
accumulazione.


È QUESTA GUERRA, i suoi condottieri e le sue armi, le sue astuzie e i suoi strumenti ideologici che
Marco d’Eramo ci racconta attraversandone il teatro più decisivo ed esemplare: gli Stati uniti
d’America (Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, pp. 254, euro 19,00).
Perché «invisibile», intanto, come recita il sottotitolo del libro, visto che i suoi effetti sono
macroscopici e i suoi protagonisti ne sbandierano il trionfo: «certo che c’è guerra di classe, e la mia
classe l’ha vinta. L’hanno vinta i ricchi», proclama lapidario come il Gallo Brenno del «guai ai vinti!»,
il miliardario americano Warren Buffet.
Invisibile però per due ragioni. La prima è che la sinistra socialdemocratica, (la più consistente e
longeva in Occidente), tanto nelle sue forme più radicali quanto in quelle più estese e moderate ha
deposto le armi già prima di combattere assecondando passo dopo passo l’affermazione del mercato
come principale regolatore non solo degli scambi, ma di ogni fatto sociale. La seconda è che gli
sconfitti, ossia le classi subalterne che non si riconoscevano più come tali, hanno in larga misura
interiorizzato il modello antropologico imposto dai dominanti. La classe è stata convinta di non
esistere più e non grazie a quella riuscita integrazione di cui scriveva Herbert Marcuse negli anni
Sessanta. Certo, perché questo potesse accadere c’è voluta una profonda trasformazione del modello
produttivo e delle sue forme di organizzazione, di innovazione tecnologica e di quelle «metamorfosi
del lavoro», analizzate già decenni fa da André Gorz, in breve il superamento del sistema di
produzione fordista e del suo contesto sociale. Ma tutto questo non è accaduto nei termini di una
evoluzione del sistema in qualche modo implicita nelle sue premesse di illimitata accumulazione.
C’è voluta appunto una guerra, o una controrivoluzione, come anche è stata definita da chi poneva
l’accento sulla reazione ai rapporti di forze che le lotte operaie erano riuscite a determinare dalla
fine del primo conflitto mondiale agli anni Settanta del Novecento. E dunque una forte soggettività,
abilità tattica, visione strategica. Nonché una potente offensiva ideologica che, mentre il movimento
operaio era impegnato nel redimersi giurando su un pragmatismo subalterno scevro da ogni
ideologia, agiva come una poderosa forza materiale sui comportamenti sociali e sugli orientamenti
politici.


COME UN VERO PARTITO bolscevico i grandi capitalisti d’oltreatlantico affermavano senza
esitazioni e con ogni mezzo necessario il loro «punto di vista di parte» come unico e indiscutibile
«interesse generale». A partire da quel terreno di scontro che i tedeschi avevano definito
Kulturkampf e che d’Eramo ricostruisce nella versione americana come contro-intellighentsia,
termine mutuato dalla dottrina militare della counterinsugency. Una guerra ideologica destinata ad
incidere sulla rappresentazione stessa che l’avversario di classe ha di sé, fino a riconoscersi nella
narrazione imposta dai vincitori.
Di questa guerra controrivoluzionaria l’autore rintraccia e descrive attraverso un imponente lavoro
di ricerca, armi e strumenti, comandanti e truppe. I ricchissimi magnati che la finanziano, le
fondazioni e i think tanks che ne elaborano le strategie e ne mettono a punto le narrazioni,
colonizzando le Università e istituendo gli indirizzi di studio più funzionali alla diffusione e
all’affermazione del punto di vista neoliberista e politicamente conservatore. Il premio Nobel per
l’economia, inventato di sana pianta dalla Banca centrale svedese nel 1968, nella seconda metà degli
anni Settanta promuove a ripetizione i monetaristi della scuola di Chicago discepoli
dell’ultraliberista von Hayek, a partire da quel Milton Friedman che fu ispiratore e collaboratore del
golpe cileno del 1973 e della conseguente dittatura di Augusto Pinochet. Già, perché la dottrina,
quando si tratti di convincere i riottosi, non si tira certo indietro di fronte a un bagno di sangue.
D’ERAMO si sofferma in particolare su due dei pilastri ideologici sui quali poggia la reazione
neoliberale: il «capitale umano» e il rapporto tra debitore e creditore. Come è noto il primo istituisce
una forma perversa di eguaglianza, riconducendo la distinzione tra classi a un unico tipo
antropologico: il possessore di un capitale personale da investire e far fruttare facendosi
«imprenditore di sé stesso» in un regime di universale concorrenza. In questo schema ogni
distinzione tra un grande capitalista e un lavoratore povero si ridurrebbe a una questione
quantitativa determinata dal maggiore o minore successo imprenditoriale.
NONOSTANTE contraddica patentemente qualsiasi esperienza reale, questa rappresentazione trae
la sua forza dal solido fondamento dell’individualismo proprietario. Quello canonizzato da John
Locke nel XVII secolo che attribuiva ad ogni individuo un diritto assoluto di proprietà su sé stesso,
sul proprio corpo, sul proprio lavoro e sulle proprie capacità mentali facendo discendere da questo
principio l’estensione pressoché illimitata dell’appropriazione privata. Certo, questa idea conteneva
una spinta liberatoria (rispetto alla schiavitù, alla servitù della gleba, all’appartenere ad altri) e alla
fissità invalicabile delle condizioni sociali. Gli ideologi neoliberali si sono abbondantemente serviti
della trappola insita in questa formulazione destinata più a garantire la sacralità naturale della
proprietà privata che non l’autonomia dei soggetti. Fino al ripristino liberista della schiavitù
attraverso il diritto di vendere la propria persona (in quanto proprietà privata) rivendicato da Robert
Nozick.


Il secondo pilastro è il rapporto di potere costituito da «una relazione asimmetrica di
credito/debito». Relazione destinata a conservarsi in perennità poiché «instaura una servitù il cui
riscatto è posto a un livello troppo alto per poter essere saldato nel corso di un qualunque orizzonte
storico immaginabile». Anche in questo caso non si tratta di un puro e semplice rapporto economico,
ma di un assetto complessivo e articolato, di un poderoso sistema di controllo non privo di assurde
pretese morali, estraneo a qualunque ragione contabile. Qui la minaccia di «fallimento» non incombe
sui singoli «imprenditori di sé stessi», ma sugli stati, su intere società, imponendo condizioni di vita
e norme comportamentali. Cosicché soprattutto ai più deboli e poveri può essere rivolto l’indecente
rimprovero di «vivere al di sopra delle proprie possibilità». Appunto che nessuno si sognerebbe di
fare a proposito dello stratosferico debito pubblico statunitense.
COME REAGIRE a questa disastrosa sconfitta? Una risposta immediata non sembra all’ordine del
giorno. Tuttavia non vi è narrazione che alla fine non si scontri con l’esperienza, soprattutto quando
questa viene ampiamente condivisa. E riesca a generare una soggettività politica abbastanza potente
da scardinare l’universo ideologico del neoliberalismo, le sue regole e i suoi dispositivi. Così come
quest’ultimo è riuscito negli ultimi quarant’anni a far passare i suoi antagonisti come patetici e
infantili sognatori del paese di Cuccagna.


© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

La questione di un REDDITO DI BASE UNIVERSALE, con le difficoltà e insufficienze in Italia del REDDITO DI CITTADINANZA, tra lotta alla povertà e mercato del lavoro in declino (un dibattito sulla soluzione da trovare)

IL REDDITO ILLUSIONE PERDUTA

di Dario Di Vico, da “il Corriere della Sera” del 3/12/2020

   Forse la cosa più giusta a questo punto sarebbe cambiargli nome. Dopo che il papà del Reddito di cittadinanza, Luigi Di Maio, ha pubblicato sul Foglio una corposa autocritica sul provvedimento-bandiera del Movimento Cinque Stelle («credo che sia opportuno ripensare alcuni meccanismi») possiamo dire che il figliolo non esiste più. Perlomeno con i connotati descritti a suo tempo. E allora varrebbe la pena abbandonare anche quella pomposa citazione che rimanda alla Rivoluzione francese.

   E accettare che si chiami reddito minimo, come quasi tutti gli altri fratelli sparsi per il mondo.

   Al momento del suo concepimento le teste d’uovo grilline vollero che il Reddito avesse due obiettivi, la lotta all’indigenza e l’attivazione sul mercato del lavoro. Dietro c’era l’idea di riscrivere il welfare socialdemocratico spianando la strada dell’occupazione all’intero popolo della povertà relativa, all’incirca il 15% degli italiani.

   La mancanza di lavoro era infatti vista come la principale causa della povertà non cogliendo come la Grande Crisi del 2008-15 avesse cambiato le carte in tavola con l’avanzata della figura dei working poor, stipendiati che non riescono ad arrivare alla famosa quarta settimana. Per tentare l’operazione, lo stanziamento iniziale previsto dai 5 Stelle era di 16 miliardi, in parte erogati direttamente e in parte destinati a rafforzare i Centri per l’impiego.

   Chi già dalla prime battute criticò il doppio obiettivo della lotta alla povertà e alla disoccupazione venne coperto di improperi e dovette inghiottire lo snaturamento delle politiche attive previste per i disoccupati e la nascita dei navigator.

   Prendeva corpo così la rielaborazione grillina del welfare italiano firmata all’inizio da Nunzia Catalfo, attuale ministro del Lavoro e affidata per l’attuazione al giovane professore Pasquale Tridico e a un italo-americano di nome Mimmo Parisi. Un elemento di forza quell’iniziativa ce l’aveva: infilzava la pigrizia della sinistra e del sindacato, che pur avendo in Italia un radicamento e una tradizione invidiabili, avevano dimenticato gli ultimi (tranne ravvedersi in extremis su pressione dell’Alleanza contro la povertà).

   Tra il dire e il fare anche per i populisti però c’è distanza. E pur avendo il Movimento 5 Stelle vinto le elezioni, alla fine è nato un governo di coalizione e anche i leghisti avevano la necessità di tener fede alle promesse della campagna elettorale. Il risultato è stato che le risorse da distribuire sul sociale sono andate in parte al Reddito e in parte a finanziare il provvedimento di quota 100 e così i 16 miliardi che i grillini avevano sognato sono diventati 6 con l’aggiunta dei 2 miliardi del “piccolo” Rei, eredità del governo Gentiloni.

   Ma oltre a subire i leghisti i 5 Stelle hanno dovuto toccare con mano che il mito populista dell’avvicendamento al potere della Casta con gli Onesti non equivale a una bacchetta magica, chi va nella stanza dei bottoni si scontra con molti dei problemi che avevano angustiato i predecessori.

   In concreto se i Centri per l’impiego non avevano funzionato fino ad allora non bastava Di Maio al governo per farli diventare “tedeschi”. E poi comunque le riforme hanno bisogno di tempo, la loro implementazione non può essere piegata ai calcoli politici solo perché c’è alle porte una campagna elettorale dove raccontare di aver abolito la povertà.

   Ma anche in questo caso a tradire i 5 Stelle è stato un deficit di conoscenza del Paese: per migliorare veramente i saldi occupazionali non basta cambiare l’offerta ma bisogna agire sulla cronica debolezza della domanda di lavoro, bisogna sporcarsi le mani e fare i conti con il mercato e le scelte delle imprese.  Possibilmente non come lo stesso Di Maio ha voluto fare con la legge Dignità, un provvedimento orfano che nessuno più rivendica e che ha complicato i già difficili flussi di occupazione giovanile.

   Se non bastasse anche nel mezzo del cammino il Reddito ha incontrato altri ostacoli. Non si è costruita una rete di amici, potremmo dire. E ancora per una carenza di cultura politica dei 5 Stelle che non conoscevano la complessità dei livelli di governo nell’Italia del Titolo Quinto. Comuni e Regioni che, avrebbero dovuto essere associati alla straordinaria operazione di riscrivere il welfare dei Paesi occidentali, si sono messi di traverso o non hanno trovato i giusti link. E alla fine il bottino del doppio obiettivo che aveva mosso il Reddito è magro.

   Calcolando che ne hanno beneficiato 1,1 milioni di famiglie per complessivi 3,1 milioni di persone, hanno trovato un’occasione di lavoro – non si sa se autonomamente o tramite il collocamento, per quale durata e se siano ancora occupati – circa 200 mila italiani. Un risultato che gli stessi grillini hanno considerato poco spendibile sul mercato del consenso nella fase finale della legislatura. Da qui l’inattesa autocritica di Di Maio: i grillini hanno scoperto che la società non è come loro l’avevano pensata e che la cultura amministrativa e tecnica non è un trastullo per burocrati conservatori. (Dario Di Vico)

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COSA NON HA FUNZIONATO CON IL REDDITO DI CITTADINANZA

da IL POST.IT, 4/12/2020, www.ilpost.it/

– Non solo non è servito a dare un nuovo lavoro ai beneficiari come si sperava, ma ora anche chi lo ha progettato vuole cambiarlo –

   A un anno e dieci mesi dalla sua introduzione, il reddito di cittadinanza non è riuscito a centrare uno dei due obiettivi per cui era stato pensato: l’attivazione del mercato del lavoro. L’altro obiettivo, parzialmente raggiunto, è il contrasto alla povertà.

   L’ambizione di raggiungere entrambi i risultati non è stata soddisfatta: lo dicono i dati e lo dicono soprattutto alcuni dei politici che hanno sostenuto con forza questa misura approvata a metà gennaio 2019 dal primo governo Conte, formato grazie a un’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega. L’autocritica non arriva dalla Lega, ora all’opposizione, ma da Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e capo politico del Movimento 5 Stelle fino a gennaio 2020.

   Di Maio ha inviato al Foglio un lungo intervento in cui ha spiegato il suo “piano trasversale per l’Italia del futuro”, cioè una serie di proposte politiche per rilanciare l’economia italiana dopo l’emergenza coronavirus.

   Nel punto intitolato “Lavoro e welfare”, Di Maio ha scritto che è «opportuno in questa fase ripensare alcuni meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione. Già in più di una occasione ho ribadito la necessità di affinare lo strumento del reddito di cittadinanza, motivando i percettori a svolgere lavori socialmente utili».

   Le parole più importanti di questo passaggio sono “separando nettamente”. Sono parole importanti perché sconfessano l’obiettivo originario e “duale” del reddito di cittadinanza, da sempre definito “una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà”.

   Negli ultimi mesi non sono mancate altre critiche. A fine settembre, in collegamento con il festival dell’economia di Trento, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva detto che l’Italia era «assolutamente in ritardo sul progetto di inserimento nel mondo del lavoro». Il 30 novembre, invece, il presidente dell’INPS Pasquale Tridico ha detto di vedere «il reddito di cittadinanza come uno strumento di sostegno al reddito, di lotta alla povertà, piuttosto che di politiche attive».

   Ma i limiti del reddito di cittadinanza non sono una novità. Già durante la fase di approvazione della misura, infatti, molti esperti avevano avvertito che sarebbe stato necessario riformare il rapporto tra regioni, comuni, centri per l’impiego e ANPAL, cioè l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. I problemi più grandi, infatti, sono emersi a causa del mancato coordinamento tra questi enti. Insomma, non si riesce ancora a capire “chi-fa-cosa”. La crisi dell’occupazione, aumentata con l’arrivo dell’epidemia da coronavirus, ha aggravato una situazione già difficile.

Tutti i numeri del reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza è un sussidio di disoccupazione pensato per le famiglie che Continua a leggere “La questione di un REDDITO DI BASE UNIVERSALE, con le difficoltà e insufficienze in Italia del REDDITO DI CITTADINANZA, tra lotta alla povertà e mercato del lavoro in declino (un dibattito sulla soluzione da trovare)”