AMBIENTE DA SALVARE: L’IMPEGNO DEL 2021 – Come incentivare le energie rinnovabili e non inquinanti? – L’importanza della COP26 a GLASGOW del novembre 2021

IL LIBRO – “(…) PER LA TERZA VOLTA NELLA STORIA UNA RIVOLUZIONE ENERGETICA CAMBIA IL MONDO. Incide radicalmente sulla traiettoria della crescita, modifica l’organizzazione dell’industria e la vita quotidiana degli abitanti del pianeta, altera gli equilibri geopolitici: apre così una nuova fase nel capitalismo del XXI secolo. La PRIMA GRANDE TRASFORMAZIONE energetica risale al CARBONE, che avviò la rivoluzione industriale in Inghilterra; POI fu la volta del PETROLIO grazie al quale si annullarono le distanze geografiche con la rivoluzione nei trasporti, mentre i prodotti della nuova industria petrolchimica entravano nelle case e nell’industria, introducendo la plastica, fertilizzanti agricoli, nuovi medicinali e persino nuovi alimenti. (…) OGGI sono le NUOVE FONTI RINNOVABILI, inesauribili e disponibili localmente – SOLE, VENTO, MAREE, GEOTERMIA, BIOMASSE – a cambiare il quadro: insieme alle innovazioni nel dominio digitale e all’uso di nuovi materiali generano una discontinuità con il passato. (…)” (introduzione al libro, qui sopra nell’immagine, di VALERIA TERMINI, testo ripreso dal quotidiano “DOMANI” del 9/12/2020 https://www.editorialedomani.it/)

……………………………………..

   Per cercare di limitare l’aumento del riscaldamento globale, quasi tutte le nazioni, alla conferenza di Parigi sul clima (COP21) del dicembre 2015, hanno firmato il cosiddetto ACCORDO di PARIGI con l’obiettivo, da raggiungere entro il 2050, di mantenere l’aumento della temperatura media al di sotto dei 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali, e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C attraverso piani d’azione per ridurre le emissioni.

   Un buon successo, ma questo, si è capito subito, non può bastare, è un obiettivo lontano; è ancora cosa del tutto insufficiente a salvare il nostro Pianeta. Tant’è che l’Unione Europea ha rilanciato il suo impegno, venendo a stabilire nel dicembre 2020 l’obiettivo aggiornato e rafforzato di ridurre almeno del 55% le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.

   Importante è poi che la nuova Amministrazione statunitense di Joe Biden, ha subito deciso di rientrare nell’Accordo di Parigi, rovesciando fin da subito la politica filo-petrolifera di Trump.

   E’ comunque un corsa a prendere provvedimenti, e individuare tecnologie ma anche perseguire stili di vita in grado di salvare il pianeta. Pertanto è sì necessario uscire dalla pandemia da Covid 19 che ci ha preso, ma una scommessa fondamentale resta l’emergenza climatica planetaria.

   Il 2021 è anno decisivo per dare concretezza agli impegni presi un po’ da tutti (anche aiutando i Paesi in via di sviluppo di stare nei termini dell’accordo); di vedere come e cosa fare.

   In questo senso l’occasione politica del 2021 è offerta dalla presidenza italiana e britannica della COP26 che si terrà in novembre a GLASGOW, dove appunto ci sarà la “CONVENZIONE DELLE PARTI SUL CLIMA” delle NAZIONI UNITE.

   Il Bureau della Conferenza delle Parti dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), insieme al governo britannico e a quello italiano, hanno concordato infatti le nuove date per la prossima Cop26, appunto in Scozia dall’1 al 12 novembre 2021.

   Consentono al governo britannico e quello italiano di mettere l’azione per il clima al centro dei lavori del G7 e del G20, dei quali i due Paesi (Gran Bretagna e Italia) hanno nel 2021 rispettivamente la presidenza di turno.

   È anche l’occasione per noi europei, per tutta l’Europa, di riprendere un ruolo guida nel processo di decarbonizzazione, riuscendo a convincere tutti gli Stati ed entità geopolitiche della necessità di tassare le emissioni inquinanti (una carbon tax) e abolire i sussidi ai combustibili fossili. Sussidi che adesso infatti vengono erogati ad attività inquinanti, che utilizzano il carbone, il petrolio….

   Su questo tema qui di seguito proponiamo un interessante articolo pubblicato sul quotidiano “Domani”, ripreso dal libro di VALERIA TERMINI “ENERGIA: la grande trasformazione” (s.m.)

…..

VERSO LA COP26 DI GLASGOW 

CONTRO L’INQUINAMENTO IL MERCATO NON BASTA, SERVE LA CARBON TAX

di VALERIA TERMINI economista, dal quotidiano “DOMANI” del 15/12/2020

   L’occasione politica è offerta dalla presidenza italiana e britannica della Cop26 nel 2021, la Convenzione delle parti sul clima delle Nazioni unite, rinviata di un anno. È l’occasione per l’Europa di riprendere un ruolo guida nel processo di decarbonizzazione, indicando la strada di una carbon tax globale e ottenere il risultato minimale della abolizione dei sussidi ai combustibili fossili. Non è una proposta irrealistica, politicamente.

   La border carbon tax per internalizzare il prezzo dell’inquinamento ambientale nei costi delle fonti fossili è già nello European Green Deal e da anni l’introduzione di una carbon tax è al centro delle raccomandazioni di policy di Janet Yellen, allora banchiera centrale, oggi segretaria al Tesoro nel nuovo corso di Joe Biden; mentre il presidente cinese Xi Jinping ha già espresso l’obiettivo di portare la Cina verso una crescita a emissioni zero al 2060.

   Negoziare una tassa uniforme sul carbonio il cui ricavato fosse trattenuto dai singoli stati, compatibilmente con la loro posizione nell’economia globale, sarebbe un modo efficace di superare comportamenti opportunistici nazionali nei confronti di un bene pubblico globale quale è il clima. LA COP26 DI GLASGOW DEVE TORNARE A FAR SPERARE IL MONDO.

Siamo noi l’asteroide

   Sessantasei milioni di anni fa un enorme asteroide colpì la penisola dello Yucatan uccidendo 75 per cento delle specie viventi sulla terra. Si fa risalire ad allora l’estinzione dei dinosauri. Nel 2013, il 15 febbraio, un asteroide di 20 metri esplose in cielo sopra la città russa di Čeljabinsk. In quell’occasione si tornò a parlare del rischio di estinzione dell’umanità e di distruzione del pianeta dovuto all’esplosione di asteroidi.

   «Oggi siamo noi l’asteroide», scrive Elizabeth Kolbert, in Sesta Estinzione, premio Pulitzer 2015; mettiamo a rischio la sopravvivenza dell’umanità in un ambiente divenuto ostile, di cui il cambiamento climatico è il principale responsabile. Il mondo ha colto il rischio di questa catastrofe e finalmente reagisce.

   L’inversione di tendenza rispetto al Novecento, il secolo del petrolio, pare ormai segnata. Ma i tempi sono stretti. L’urgenza di una governance globale in grado di affrontare questo problema è evidente.

   La Cop26 delle Nazioni unite è un ottimo punto di ripartenza per definire indirizzi cooperativi, dove gli Stati Uniti saranno rappresentati da John Kerry, che da segretario di Stato firmò con Barack Obama gli Accordi di Parigi.

Il vero costo del carbonio

   È anche evidente che il carbonio deve avere un costo per chi lo genera, nell’uso o nella produzione, nel sistema di mercato in cui viviamo. Lo illustrò bene l’economista ARTHUR CECYL PIGOU (nel 1920) che introdusse il principio “CHI INQUINA PAGA” e definì gli strumenti per minimizzare l’inquinamento del carbone che allora intossicava le città industriali.

   Studiò l’impatto di una tassa da imporre sulle emissioni Continua a leggere “AMBIENTE DA SALVARE: L’IMPEGNO DEL 2021 – Come incentivare le energie rinnovabili e non inquinanti? – L’importanza della COP26 a GLASGOW del novembre 2021”

Conversazione su Armenia e dintorni

Photo by Withsonya_ on Pexels.com

Il 15 gennaio 2021 Il professor Aldo Ferrari di Ca’ Foscari ed I.S.P.I. ha intrattenuto il gruppo di conversazione “Guido, i’ vorrei” sulla storia del popolo armeno con particolare riferimento al genocidio del 1915 fino ad arrivare alle vicende più recenti del conflitto in Nagorno-Karabakh. L’occasione si è rivelata utile anche per alcune puntualizzazioni sulla situazione geopolitica del Caucaso. Il profondo interesse suscitato dalla narrazione di queste vicende drammatiche, avvincenti e tristissime ha avviato un dibattito durato quasi due ore con 38 persone presenti su zoom a causa della pandemia in corso.

Uno dei temi di rilievo emersi è stato sicuramente l’effetto di “collante identitario” svolto per questo popolo da religione, alfabeto e letteratura. L’effetto identitario del cristianesimo apostolico armeno è quasi paragonabile a quello dell’ebraismo, un armeno che si converta ad un culto non cristiano cessa di essere armeno. L’affermazione attribuita ad un antico generale armeno, VartanMamikonian,  recita che per un armeno la propria religione è come la propria pelle e non come un vestito che si può cambiare. In effetti gli armeni hanno mantenuto la loro religione adottata nel IV secolo, mentre i loro vicini occidentali sono passati sovente dal paganesimo al cristianesimo per poi convertirsi in massa all’islam<, mentre> e il percorso dei loro vicini sud-orientali (attuale Iran) è stato dallo zoroastrismo all’Islam.Malgrado questo forte carattere identitario i rapporti fra Chiesa Apostolica Armena e Cattolicesimo Romano non sono mai stati conflittuali, diversamente da quanto accaduto con le confessioni protestanti e con quelle ortodosse.

La lingua e l’alfabeto sono decisamente originali e sono stati il veicolo di una produzione letteraria estremamente rilevante. La letteratura armena disponibile è quasi estesa come quella che ci ha lasciato in eredità l’Impero Romano d’Oriente che noi chiamiamo bizantino.

Grazie al “combinato disposto” di questi elementi, gli armeni della diaspora (cominciata nell’ XI secolo periodo nel quale l’Armenia ha cessato di essere uno stato significativo) hanno potuto conservare in larga misura la propria identità tanto in Europa quanto in Persia e in India. Il fenomeno della diaspora ha acquisito un rilievo del tutto particolare dopo il 1915 a causa degli armeni che riuscirono a sfuggire al genocidio abbandonando la Turchia.

      Altro tema doloroso e tristissimo che ha animato la discussione nel gruppo di conversazione e che è stato oggetto di molte domande poste al relatore, è stato naturalmente quello del genocidio perpetrato dai turchi ai danni del popolo armeno.

Il relatore ha rilevato come gli armeni vivessero nella condizione di “dhimmi” nell’ambito dell’Impero Ottomano al pari di altre minoranze etnico/religiose con tutte le limitazioni che questo stato comportava in termini di tutele e diritti. A questo fatto si aggiungeva che il loro sviluppo culturale ed economico li poneva mediamente al di sopra del resto dei sudditi dell’Impero e le loro aspirazioni li rendevano molto più prossimi agli europei occidentali o alla Russia,acerrima nemica degli ottomani. Le vessazioni subite dagli armeni abitanti l’attuale Turchia orientale ad opera soprattutto di bande di curdi seminomadi non potevano che aumentare la disaffezione nei confronti dell’autorità statale.E’inoltre da rilevare che la minoranza armena era molto numerosa. Tutti questi elementi spingevano gli armeni a separarsi dall’Impero già in disfacimento come peraltro era già avvenuto per diversi popoli balcanici.

Questa situazione incandescente era già stata all’origine di feroci e sanguinose repressioni alla fine del XIX secolo, ma durante il primo conflitto mondiale tale situazione precipitò verso un epilogo ancora più tragico.

I Giovani Turchi, sostanziali detentori del potere, si resero conto che la guerra era persa e sarebbero stati persi tutti i territori mediorientali. Valutarono che la perdita dell’Anatolia orientale a favore di un futuro stato armeno avrebbe ridotto la nuova Turchia a ben poca cosa e quindi decisero di eliminare fisicamente tutti gli armeni. L’operazione, in tutta la sua brutalità, riuscì perfettamente e i pochi superstiti fuggirono in occidente o in quella parte della Russia popolata da armeni.

Nel primo dopoguerra le potenze vincitrici tentarono di costituire uno stato armeno nell’Anatolia orientale, ma fu materialmente impossibile perché non c’erano più armeni per popolarlo.

      L’attuale Repubblica Armena è un piccolo stato ex sovietico grande all’incirca come Piemonte e Liguria messi assieme che confina ad ovest con la Turchia, ad est con l’Azerbaigian, a nord con la Georgia e a sud con l’Iran. I rapporti con Turchia ed Azerbaigian sono pessimi, non molto buoni quelli con la Georgia e discreti quelli con l’Iran. Di fatto la sua estensione corrisponde circa agli ex possedimenti armeni dell’impero zarista.

Il livello di vita degli abitanti della Repubblica Armena è molto basso ( P.I.L. pro capite prossimo a quello dell’ Algeria ). Lo stato consacra una parte rilevante del P.I.L. al bilancio militare stante la situazione di insicurezza vigente e comunque il paese vive sotto una pesante ma inevitabile tutela russa (truppe di Mosca presidiano la frontiera armeno-turca a tutela della piccola repubblica).

La situazione di questo stato è estremamente precaria e senza le rimesse della diaspora armena difficilmente riuscirebbe a sopravvivere. L’indispensabile protezione russa pone ovviamente molti limiti all’affermarsi di una piena democrazia almeno come la intendiamo nei paesi occidentali.

A mio modestissimo avviso è emersala riconferma di come ben difficilmente una comunità/popolopossa rivendicare con successo i propri diritti o presunti tali utilizzando il “soft power ”quando si trova in conflitto con una potenza sostanzialmente autocratica priva anche delle forme più embrionali di un sistema di governo democratico/pluralista, come era la Turchia in quel momento. In questa triste circostanza, a chi non è in grado di autotutelarsi facendo leva sui rapporti di forza, non resta che accodarsi a qualche altra potenza egemone (gli armeni ci hanno provato con la Russia,vista come il “male minore” , che però è stata in grado solo di limitare molto parzialmente gli effetti della catastrofe). L’altra alternativa è la scomparsa o una sottomissione, prodromica comunque ad una scomparsa futura, magarimeno traumatica, con la magra consolazione di poter modestamente “contaminare” culturalmente il soggetto “assimilante”. In conclusione e più generalmente, mi pare sia emersa  la valenza quasi paradigmatica di una vicenda come questa per poterci aiutare ad interpretare i fatti storici e per ispirare l’azione  di ciascuno partendo dalla concretezzae con il sommesso desiderio che le teorie alle quali ispirarsi siano coerenti con la realtà per quanto terribile essa possa essere in certe circostanze e non siano invece le nostre idee astratte e precostituite ad “addomesticare” troppo detta realtà ( “wishfulthinking” direbbero gli anglofoni).

Marco Cardinaletti

QUEL NEMICO OCCULTO E POTENTE. Dalle teorie del complotto alla psicologia del fascismo: percorsi storici e problemi presenti. – Nicolas Guilhot (Alias – Il manifesto 9-1-21).

Personalmente sono molto perplesso e insoddisfatto per come il tema del “complottismo” viene affrontato nel discorso pubblico.

Nei media, nelle dichiarazioni dei politici e intellettuali inquadrabili in un’ottica di sinistra, ma non solo di sinistra, il “complottismo” é uno strumento della destra populista e contemporaneamente una visione del mondo distorta espressa da una massa di individui sottoacculturati, cui sarebbe bene togliere magari il diritto di voto.

In realtà molte analisi indipendenti rivelano che la questione é ben più articolata e sfumata. Le ricerche del gruppo di lavoro sulle Fake news del prof. Quattrociocchi a Cà Foscari (vedi anche: Migliorare la comunicazione della scienzaDisinformazione online: ‘smontare’ i falsi non giova alla scienza) sembrano indicare 1) che l’estremismo “complottista” produttore e divulgatore di Fake news nasca dalla contrapposizione prodotta artificialmente dai social, 2) che le parti contrapposte “complottisti” e “pro-scienza” siano molto simili dal punto di vista dei comportamenti e persino dal punto di vista argomentativo e infine 3) che vengono assimilate al “complottismo” anche posizioni articolate e scientificamente fondate. Vedi ad es. Le perplessità emerse a diversi livelli nelle pubblicazioni mediche internazionali sui vaccini anticovid (vedi ad es. Peter Doshi: Pfizer and Moderna’s “95% effective” vaccines—let’s be cautious and first see the full data).

L’articolo qui proposto di Nicolas Guilhot, studioso di Storia delle idee, ora docente all’Istituto Europeo di Fiesole, propone una analisi utile a questo proposito, che si può in parte almeno, così riassumere:

La prima definizione e condanna del “complottismo”, nasce da due dei fondatori dell’ideologia neoliberista, Hayek e Popper, ancora nel primo dopoguerra.

Secondo costoro, dato che NON esistono un ordine sociale e una società ma solo individui e azioni individuali imprevedibili, qualsiasi tentativo di cercare un disegno razionale nei fatti umani é equiparabile ad una visione “complottista”, simile a quella dei popoli antichi e delle religioni che vedono nei fatti umani il prodotto dell’intervento degli dei.

Storia, sociologia, antropologia, etnografia, nella prospettiva di Popper e Hayek sono visioni che si avvicinano pericolosamente, se non coincidenti, ad una percezione complottista della realtà, che non ha un ordine riconoscibile e identificabile.

La condanna attuale dei “complottisti” e del “complottismo” segue -dice Guilhot- il percorso di Popper e Hayek, che vedevano nell’ideologia (ad es. nazista, socialista e comunista) la riproposizione di una visione ideologica e complottista della storia. Chiunque pensa sia possibile intervenire nella realtà per modificarla, persino per migliorarla, è o un creatore di una visione “complottista” (l’elite che inventa il complotto) oppure una sua vittima (le persone intellettualmente deboli che credono al complotto e seguono le direttive dell’elite).

Ed infatti il “complottismo” viene inquadrato come un problema di “ignoranza” di chi crede al complotto e di chi lo fabbrica (vedi le critiche a Trump), da “curare” contrapponendo la “verità” portata avanti dagli avversari dell’elite complottista.

Lascio alla lettura dell’articolo per leggere le argomentazioni con cui Guilhot smonta questa visione e ne mostra il fallimento, come risulta sempre più evidente: la fine ingloriosa di Trump (almeno per come si prospetta), non può nascondere nè il crescente sostegno alla sua visione “complottista” di gran parte della popolazione USA, nè l’indubbia abilità nel far crescere e maturare durante il suo mandato questo sostegno e la diffusione ormai incontrollabile delle cosiddette fake news..

Andrea Mattarollo


Teorie del complotto, quel nemico occulto e potente

Nicolas Guilhot , 09.01.2021 (Alias – Il Manifesto)
L’intervento. Mondi paralleli, cospirazioni segrete, psicologia del fascismo: percorsi storici e
problemi presenti

Nel 2018, il Metropolitan Museum di New York proponeva una mostra intitolata Everything is Connected: Art and Conspiracy. Per chi visitava la rassegna, l’impressione era soprattutto quella di un certo estraniamento: sembrava contemplare un passato distante, in cui le teorie del complotto erano un fenomeno marginale radicato soprattutto nella controcultura degli anni ’60 e ’70 e collegato a forme di indagine critica e artistica. Ma è proprio il contrasto con il contesto in cui veniva proposta questa mostra che suscitava riflessioni.
Oggi, il complottismo non è più un fenomeno marginale ma fa parte del mainstream politico e tende a collocarsi in una ben determinata area ideologica. Dal movimento anti-vaccino al diffondersi delle teorie di QAnon tra i sostenitori di Trump o alle elucubrazioni sul piano di sostituzione etnica in Europa, le teorie del complotto sono diventate un aspetto fondamentale del discorso politico dell’estrema destra e si collegano spesso a fenomeni di stampo fascista. Il fenomeno, ovviamente, non è nuovo, e il fascismo del ‘900 fece ampio uso delle teorie del complotto, a cominciare dalla più famosa, il falso documento dei Protocolli dei savi di Sion.

Per la maggior parte degli studiosi, le teorie del complotto vengono considerate soprattutto come un fenomeno di ordine epistemologico e cognitivo. Questa posizione è stata riassunta in modo esemplare una decina d’anni fa da due studiosi di Harvard, Cass Sunstein e Adrian Vermeule: le teorie del complotto, secondo loro, rappresenterebbero «a crippled epistemology», cioè una epistemologia «zoppa», incapace di distinguere tra causalità e intenzionalità. Gli studi di psicologia cognitiva hanno provveduto ad approfondire questa ipotesi, collegando questi modi di pensare a determinate distorsioni delle funzioni cognitive, considerando l’attribuzione di intenzionalità o di non-casualità a determinati eventi una modalità spontanea, innata, dell’attività cerebrale che viene superata dallo sviluppo delle funzioni superiori del ragionamento logico nel corso dell’educazione.
In questa prospettiva, contrastare le teorie del complotto diventa fondamentalmente una questione di rieducazione cognitiva, che può prendere varie forme: evitare gli effetti di «bolla informazionale» ed esporre gli individui a punti di vista alternativi, correggere le distorsioni del ragionamento rinforzando i contrappunti critici, mantenere una vigilanza epistemologica sui social network, ecc.
Questa concezione sta oggi dietro le politiche pubbliche di lotta contro il complottismo, che prendono quasi tutte la forma del «debunking», cioè dell’esposizione della falsità o dell’illogicità dei discorsi complottisti – politiche che, come ormai si sa, non funzionano.
Per certi versi, la riduzione delle teorie del complotto a una questione epistemologica è stata coestensiva alla nascita dell’idea stessa di «teoria del complotto». La nozione di conspiracy theory nel suo senso odierno è stata coniata dal filosofo Karl Popper in due conferenze del 1948 dedicate alla questione del razionalismo nelle scienze sociali, che incluse più tardi nella seconda edizione di
La società aperta e i suoi nemici, pubblicata nel 1952.
Quello che Popper chiamò la «teoria complottistica della società» (conspiracy theory of society) rappresentava secondo lui una forma di superstizione, simile all’idea secondo la quale ciò che accade nel mondo degli uomini accade perché è stato deciso dagli dei. Nel mondo moderno, non ci sono più gli dei, ma per chi continua a vedere nelle guerre, nelle sciagure e nelle catastrofi il risultato di un’intenzione e di un disegno nascosto, il posto degli dei «era ormai occupato dai Savi di Sion, dai monopolisti, dai capitalisti, e dagli imperialisti».
Per Popper, lo storicismo moderno, pur essendo secolarizzato, rimaneva una forma di pensiero mitologico rivolto verso delle entità invisibili. Popper non negava che i complotti esistessero, anzi: passiamo il nostro tempo a cercare di controllare, individualmente o in coordinazione con altri, la nostra realtà sociale e il comportamento degli altri. Eppure i risultati che raggiungiamo non sono mai esattamente quelli scontati. Se «niente risulta esattamente come inizialmente previsto», secondo Popper è perché la società rappresenta una realtà molto complessa, il risultato imprevedibile dall’intrecciarsi costante di miriadi di azioni individuali che non sono calcolabili e quindi sfuggono ai tentativi di controllarle.
Il complotto è per certi versi il modello dell’agire umano, ma lo è proprio perché – come Machiavelli aveva già detto – è quasi sempre destinato a fallire. La teoria del complotto non poteva quindi essere una teoria che spiegava i fenomeni sociali. L’unica scienza sociale possibile, per Popper, si doveva limitare allo studio delle «conseguenze non intenzionali dell’azione».
A ben guardare, però, le osservazioni di Popper sull’epistemologia delle scienze sociali racchiudevano un argomento politico. Le sue riflessioni sul complotto si basavano su un’immagine della società direttamente ispirata ad alcuni scritti di Friedrich Hayek, pubblicati sulla rivista Economica durante la guerra, e da The Road to Serfdom, che uscì nel 1945 e che Popper aveva letto.
Per Hayek, l’ordine sociale era il risultato spontaneo, quasi organico, di un’infinità di azioni individuali, un ordine che per definizione era imprevedibile e quindi sfuggiva a qualsiasi tentativo di manipolazione razionale. Le ragioni per le quali i complotti di solito non hanno l’esito scontato erano le stesse ragioni per le quali la pianificazione economica era, secondo Hayek, destinata a fallire: l’imprevedibilità fondamentale di un ordine sociale basato sulla libertà individuale.


Ma ciò implicava un’eccezione importante: laddove l’agire non era libero le cose andavano diversamente. L’ingegneria sociale poteva funzionare a partire dal momento in cui poteva contare su un certo livello di coercizione. Ovvero: se la teoria del complotto era inaccettabile come teoria sociologica nel mondo democratico, offriva invece una descrizione corretta delle società totalitarie, nelle quali gli avvenimenti sociali potevano essere ricondotti a un potere centrale tentacolare che sovrastava alla società e ne controllava il funzionamento. La critica della teoria del complotto ricopriva in realtà una sua parziale validazione.
Le considerazioni di Popper riflettevano senz’altro l’emergere di una corrente «neo»-liberale che trovò nella lotta contro il totalitarismo un cavallo di battaglia ideologico durante la Guerra Fredda. L’assimilazione del totalitarismo a una forma di complotto era già stata proposta da Alexandre Koyré in uno scritto pubblicato nel 1943 durante l’esilio a New York, che trattava di ciò che oggi chiamiamo le fake news (di complotti, Koyré s’intendeva assai: mandato a Odessa dopo la fine della prima guerra mondiale, era verosimilmente stato allo stesso tempo agente dei servizi francesi e responsabile bolscevico della commissione stampa e propaganda della città).
Secondo Koyré, se la menzogna era uno stratagemma da sempre usato in tempo di guerra, era diventato il perno dell’organizzazione sociale dei regimi totalitari. Per un gruppo che si crede circondato da forze ostili, era naturale ricorrere alla dissimulazione. Le parole dei suoi membri e dei suoi capi servivano allora soprattutto a nascondere i loro scopi e le loro opinioni: diventavano «l’unico modo di nascondere il proprio pensiero». La verità era riservata agli insiders e diventava «esoterica». I movimenti totalitari erano quindi simili a delle «società segrete», ma la loro particolarità era che anche una volta conquistato il governo mantenevano le strutture delle società segrete: il potere di un gruppo di iniziati, il sospetto costante, l’alterazione del linguaggio fino al punto di oscurare la realtà… Koyré li definì «complotti a cielo aperto».
La formula fu ripresa da Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo, libro sul quale l’articolo di Koyré ebbe un’influenza profonda. Per la Arendt, credere nei complotti determinava degli effetti organizzativi reali: «i Nazisti cominciarono con la finzione di un complotto e presero esempio, più o meno coscientemente, dalla società segreta dei Savi di Sion». Ogni complotto fittizio finisce col produrre un contro-complotto reale. Ma ciò significa paradossalmente che, in determinati casi, il rapporto tra ideologia e realtà si rovescia, e l’ideologia diventa fonte e spiegazione dei fenomeni sociali: le teorie del complotto diventano causa del fascismo o del populismo e quindi li spiegano.
È difficile separare gli aspetti epistemologici da quelli politici in una nozione intrisa dai conflitti ideologici della seconda metà del ’900. Quanto sono rilevanti oggi queste idee e quanto ci permettono di decifrare il passaggio storico che stiamo attraversando? Sicuramente va accolta l’intuizione che vede nelle teorie del complotto un formidabile strumento di coordinazione ideologica e di organizzazione politica dal basso e a basso costo, che, capitalizzando sul risentimento, apre nuovi spazi politici fuori dai vecchi partiti, spostandoli completamente o, come nel caso del partito repubblicano negli Stati Uniti, prendendone il controllo. E senz’altro elementi di stampo fascista si ripropongono oggi attorno a questi discorsi.
Ma è sufficiente denunciare il fascismo latente o esplicito delle teorie del complotto?

Il rischio di ridurre una questione politica a una questione psicologica o ideologica – e quindi di offuscarla – è reale. Nel suo tentativo di definire uno «stile paranoico» che si esprimerebbe regolarmente nella storia americana, lo storico Richard Hofstadter finì col dipingere una forma mentis sradicata da qualsiasi contesto storico, una specie di essenza pericolosa, da tenere a bada. Non a caso il suo famoso saggio del 1964 viene oggi riscoperto (e ripubblicato questo anno nella prestigiosissima collana «Library of America») come chiave di lettura del «populismo» contemporaneo.
Le debolezze dell’approccio di Hofstadter sono palesi: a ridurre certi fenomeni politici alla loro retorica paranoica, di certo non si capisce in quali condizioni storiche e sociali questa retorica si ripropone come strumento ideologico efficace. Sono proprio questi limiti che spiegano oggi il ritorno a Hofstadter: se, come suggerivano Koyré o Arendt, le teorie del complotto producono estremismo politico, la critica epistemologica del complottismo fa presto a sostituirsi all’analisi e alla lotta politica. Se è compito degli storici e degli scienziati difendere la verità e la razionalità, richiamarsi a questi valori a sostegno di un orientamento ideologico o equipararli alla difesa dello status quo politico è rischioso. Si tratta di una vera e propria mistificazione ideologica che, lungi dall’essere efficace, non fa che confermare i peggiori sospetti dei complottisti, oltre a costituirsi anch’essa come forma di anti-politica.

Prendendo le distanze da questa critica, non si tratta di sottovalutare il pericolo che rappresentano le teorie del complotto. Si tratta invece di ritrovare un quadro politico entro il quale questi fenomeni si collocano. Non è solo nell’impoverimento culturale o nelle bolle informazionali dei social che ne vanno cercate le cause, bensì nell’incapacità di dare una risposta politica alla crisi che sta attraversando il neoliberalismo. Le sue politiche economiche e sociali creano delle disuguaglianze senza precedenti e rappresentano gli interessi di una parte sempre minore della popolazione. Ciò vuol dire che le forze politiche che rappresentano questi interessi possono sempre più difficilmente vincere elezioni senza assicurarsi il sostegno di chi subisce queste politiche. È in questo contesto che le teorie del complotto diventano sempre più centrali, offrendo una razionalizzazione del disagio sociale e trasformandolo in energia politica. Da Trump a Salvini, questa è ormai diventata la formula ideologica del tardo-neoliberismo, che ha rotto definitivamente con le sue vecchie radici
anti-autoritarie.

Paradossalmente, è nella psicologia che si possono trovare gli strumenti per andare oltre la patologizzazione del complottismo e costruire una prospettiva storica e politica, e in particolare nella corrente della psicologia esistenziale che ha cercato di porre il problema della paranoia in termini di rapporto dell’individuo con il mondo. Il giovane Lacan o Binswanger, per esempio, hanno concepito questa condizione non come il sintomo di una personalità morbosa o di una patologia individuale, ma come un fenomeno relazionale legato al collasso del rapporto dell’individuo con la società e con il mondo, che può verificarsi in certe situazioni di crisi. Il sentirsi in balìa di potenze invisibili e oggetto di manipolazioni, la perdita del senso dell’agire e il vanificarsi del mondo come realtà agibile e ospitale, riflette un’ansia esistenziale – ciò che Ernesto De Martino definì «la paura di non esserci più». Come aveva intuito, le teorie del complotto danno una forma a questi sentimenti.


In una situazione di precarietà economica sempre più diffusa, di rischio ambientale generalizzato e di pandemia globale, questa paura di non esserci sta diventando la condizione antropologica del nostro tempo. In questo contesto, la lotta contro il complottismo e contro i suoi risvolti politici non può limitarsi a una lotta culturale sulla scienza e sulla verità, ma per diventare una vera lotta contro il fascismo deve essere anche una lotta politica sulle garanzie della vita.


Note bibliografiche
Arendt, H. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009.
De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino,
2019.
Hayek, F. «Scientism and the Study of Society», articolo pubblicato in tre parti, Economica vol. 9, n.
35, 1942, pp. 267-291; vol. 10, n. 37, 1943, pp. 34-63; vol. 11, n. 41, 1944, pp. 27-39.
Hayek, F. La via della schiavitù, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.
Hofstadter, R. «Lo stile paranoico nella politica americana», Rivista di politica, n. 1, 2012.
Koyré, A. Riflessioni sulla menzogna politica, De Martinis & C., 1994
Popper, K. La società aperta e i suoi nemici, 2 vol., Armando Editore, Roma, 2004.
Sunstein, C. & A. Vermeule, «Conspiracy Theories: Causes and Cures,» The Journal of Political
Philosphy vol. 17, n. 2, 2009, pp. 202-227.
Zambelli, P. Alexandre Koyré in Incognito. Leo S. Olschki, Firenze, 2016.
© 2021 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

CAMBIARE TUTTI PER CAMBIARE VERAMENTE (di Grazia Baroni, 31/12/2020, dal quotidiano “Ferrara Italia”)

CAMBIARE È UNA SCELTA DI LIBERTÀ E RAGIONEVOLEZZA

di Grazia Baroni, 31/12/2020, da https://www.ferraraitalia.it  

   È molto preoccupante verificare che chi avrà l’onere di investire le risorse messe a disposizione dall’Europa per rilanciare lo sviluppo del nostro Paese, non abbia alcuna visione di futuro da trasformare in progetti strutturali e lungimiranti.
Questa mancanza di visione è evidente perché le proposte di soluzione fatte dalla classe politica, governo e opposizione, fino ad ora, sono legate solo all’urgenza. Infatti, non c’è ancora stato un tentativo di formulazione di un progetto di investimenti a lungo termine, se non in forma di annuncio roboante quanto indefinito. I casi sono due: o non si ha idea di una strategia o, se c’è, non è condivisa con il parlamento e con gli Italiani e questo non è democratico. Mi dispiace criticare chi ci governa, perché se cadesse il governo adesso l’alternativa sarebbe peggiore. Però non posso tacere e devo sollecitare un cambiamento reale e democratico, quindi di effettiva comunicazione e condivisione.

   I giovani del mondo, con il movimento “Friday for future” hanno sollecitato i potenti a pensare non più in maniera localistica, o per settori limitati della società, ma a guardare il mondo e l’umanità come un unico soggetto che abita un unico ambiente. La crisi pandemica ha rapidamente trasformato questa dimensione globale da concetto ideale possibile in tangibile esperienza quotidiana che coinvolge tutti. L’unico documento ufficiale da parte di un capo di stato ad aver risposto a questa sollecitazione dei giovani è stata l’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco che ha saputo dare una progettualità concreta a questa domanda altrettanto concreta e urgente. L’Europa e il nostro governo potrebbero prendere spunto da questo documento per iniziare la nuova realtà politica e sociale che da tempo il mondo attende.
Infatti, questa crisi non è solamente un problema ecologico, climatico o economico: è una convergenza di questi tre mondi. La pandemia, conseguenza della crisi ecologica, ha accelerato e fatto emergere il limite del pensiero unico economico-liberista, che ha svelato a sua volta e acuito le mai risolte ingiustizie sociali che impediscono l’attuazione di una vera democrazia. Ne è un esempio l’insufficienza del servizio sanitario e, forse ancora peggio, la spietata concorrenza fra i diversi gruppi di ricerca scientifica per arrivare primi alla creazione di un vaccino che ancora una volta non sarà per tutti ma vedrà alcuni gruppi di popolazioni scartati, con costi enormi economici e sociali.
Questo non vale solo per l’Italia o l’Europa: ci troviamo per la prima volta ad un punto di rottura storico che riguarda tutto il mondo. La sollecitazione a pensare in modo universale necessariamente richiede di partire da un nuovo punto di vista che abbia le stesse caratteristiche del fattore di crisi: che sia contemporaneo e globale, cioè complesso.

Il nuovo luogo da cui guardare è il futuro dell’umanità.

   Dunque, si dovrà scegliere se questo futuro avrà la durata limitata a qualche decina di anni e dovrà riguardare poche migliaia di persone, abitanti una più o meno grande porzione di terra, oppure se deve riguardare l’intera umanità e la terra come pianeta nell’universo e perciò prevedere un tempo illimitato. La prima scelta richiede di mantenere l’attuale modo di vivere: in continua emergenza, cercando di arginare le conseguenze, via via sempre più profonde e complicate, sempre più impellenti e in costante accelerazione, come questi ultimi decenni ci hanno mostrato. Ci sono dati recenti che rilevano che i fenomeni dei cicloni e degli uragani che si sono verificati in Italia e nel mondo sono aumentati di frequenza e in potenza distruttiva.
Oppure si può decidere di fare un salto evolutivo: cambiare decisamente la scala di valori e mettere al primo posto la persona e la comunità come progetto comune. Questa scelta comporta il costruire una nuova qualità della vita che vede l’ambiente naturale come luogo comune di convivenza e condivisione della realizzazione delle singole potenzialità.
Questa seconda opzione non si verifica in maniera automatica: ci vogliono un atto di volontà, una visione ed un progetto. Bisogna imparare a pensare in modo nuovo e questo richiede un investimento per la formazione di tutti, per darsi gli strumenti culturali e di confronto adatti ad acquisire la consapevolezza del valore dell’essere umano che dobbiamo ancora oggi definire sia nella sua natura sia nelle sue potenzialità.

   Un atto di volontà viene compiuto solo se è finalizzato a qualcosa di concretamente raggiungibile e di cui valga veramente la pena, perché quello che si deve abbandonare è la sicurezza e il conforto del già conosciuto in favore di ciò che è desiderabile ma ancora del tutto ignoto e non sperimentato. Questo atto di volontà, perché non sia un salto nel buio, deve essere ragionevole, perciò bisogna dare credito a sé stessi, ai propri desideri, che anche se incompiuti come pensiero, nascono da ciascuno di noi per cui rispecchiano la nostra stessa natura, non ci lavorano contro, non creano attrito, anzi danno forma e senso a ciò che era ineffabile e indeterminato prima di essere da noi nominato.

   Così si incomincia a costruire un pensiero che origina dall’essere umano e si apre alla relazione con l’altro. In questo confronto si sviluppa il linguaggio per una nuova antropologia, non più basata sulla sopraffazione e sullo scontro, ma che si definisce nella rivelazione di sé all’altro, perché si è diversi. Si realizza nel gusto di conoscere ciò che ci è ignoto, dove la diversità e l’unicità delle persone sono la ricchezza, il valore aggiunto, pur nel desiderio della condivisione di una realtà comune.
Se si vuole rallentare fino a modificare il cambiamento climatico da noi provocato per abitudini sociali e scelte economiche incoscienti e poco lungimiranti, dobbiamo cambiare i nostri comportamenti, quindi dobbiamo usare tutte le risorse possibili e immaginabili per creare occasioni e spazi dove iniziare a sperimentare questo nuovo modo di conoscersi e relazionarsi. Questa è l’unica visione che permetterebbe di invertire il processo distruttivo dell’ambiente e di trasformare questo momento di crisi in occasione di aprire ad una nuova vita. (Grazia Baroni)