I NUOVI CONFINI DEI CONFLITTI (del 2023) E LE CONDIZIONI PER CONTENERLI (di PAOLO ALLI, fondazione De Gasperi, 30/12/2022; da SCENARI, settimanale di approfondimento di politica internazionale del quotidiano DOMANI)

I NUOVI CONFINI DEI CONFLITTI del 2023 (di Paolo Alli)

– Il mar Cinese meridionale, il quadrante Indo-Pacifico e il grande nord militarizzato pongono nuove sfide alla sicurezza globale. Tutte le crisi sono unite da un filo: la preminenza della politica interna su quella internazionale – Nel governo degli sviluppi di questi scenari, sono proprio le democrazie occidentali ad avere la più forte responsabilità, a partire da Stati Uniti d’America e Unione europea – Usa e Ue devono smettere di rapportarsi nella logica di contrapposizione politico-economica iniziata da Trump per tornare a concepirsi come due facce della stessa medaglia. – Questo articolo fa parte del numero di Scenari, del Quotidiano “DOMANI”: “I conflitti del 2023” –

   Nel domandarmi quali potranno essere le principali sfide geopolitiche 2023, non ho potuto non considerare l’imprevedibilità nella evoluzione degli scenari internazionali degli ultimi anni. Mi sono quindi imposto di non fare previsioni ma di limitarmi ad applicare una buona dose di osservazione e una qualche esperienza maturata nei contesti globali per individuare alcuni fronti che quasi certamente sarà necessario tenere sotto attenta osservazione nel prossimo anno.

   Escluderò volutamente quello della guerra tra Russia e Ucraina, del quale ormai sappiamo quasi tutto, partendo da realtà apparentemente lontane da noi ma legate come in un gigantesco domino a quanto accade attorno ai confini dell’Europa e dentro l’Europa stessa, Ucraina compresa.

Estremo oriente

Ritengo che uno dei contesti più critici sia quello del mar Cinese orientale e meridionale, da anni caratterizzato dalle mire espansionistiche cinesi. Il Quad (Quadrilateral Security Dialogue), nato tra Giappone, India, Australia e Usa come forum sulla sicurezza della regione indo-pacifica e allargato nel 2021 a Corea del Sud, Nuova Zelanda e Vietnam, aggrega oggi paesi che detengono circa il 30 per cento del Pil mondiale.

   Il cosiddetto Quad+, rappresenta una sorta di Nato dell’estremo oriente e costituisce uno strumento di deterrenza nei confronti della Cina, anche in vista di potenziali deterioramenti del suo rapporto con Taiwan. È auspicabile però che dalla deterrenza si passi a un detensioning nei confronti di Pechino. L’atteggiamento recente di Joe Biden, che – almeno sotto il profilo internazionale – si rivela meno debole di quanto potesse apparire all’inizio del suo mandato, sembrerebbe andare in questa direzione.

   Una tendenza alla normalizzazione dei rapporti tra Washington e Pechino indebolirebbe l’asse Cina-Russia, fatto potenzialmente decisivo anche per la risoluzione del conflitto tra Russia e Ucraina. Il quadrante del Far East, così geograficamente lontano da noi, è una delle tante dimostrazioni che in un mondo globale la sicurezza non può più essere concepita come un fatto solo locale o regionale.

India

Il peso dell’India crescerà in modo importante nel prossimo futuro e il posizionamento di questo grande paese nel contesto globale sarà cruciale. L’atteggiamento finora ondivago di Narendra Modi rispetto al conflitto in Ucraina non potrà continuare a lungo e se, come auspicabile, prevarrà la sua volontà di guardare a ovest, l’India potrà spostare in modo sensibile gli equilibri a favore delle democrazie occidentali.

Grande nord

Già da alcuni anni si assiste al posizionamento strategico dei principali attori geopolitici per il controllo di questa grande regione, nella quale lo scioglimento dei ghiacci rende accessibili immense risorse naturali e apre nuove vie di navigazione, destinate a spostare i traffici commerciali verso nord.

   L’Artico può diventare una opportunità per il pianeta o trasformarsi in luogo di nuovi conflitti. In questo momento l’elemento più inquietante consiste nel fatto che la maggior parte dello sviluppo costiero appartiene alla Russia.

Iran

Le tensioni mai sopite, anzi crescenti tra il mondo sciita e quello sunnita rischiano di costituire nuovamente un terreno fertile per il terrorismo islamista di diverso segno e rappresentano un fattore di forte preoccupazione per la sicurezza di Israele. Tuttavia stanno emergendo nella società iraniana nuove istanze che potrebbero disegnare uno scenario nuovo nella complessa regione medio-orientale.

   Se il desiderio di libertà che sta emergendo da parte di frange sempre più ampie della popolazione iraniana dovesse – nonostante le terribili forme di repressione del regime – dare vita a una nuova stagione non più improntata al fanatismo religioso, certamente ne beneficerebbe l’equilibrio dell’intera regione, oggi condizionata dalla sanguinosa guerra in Yemen e dalle drammatiche situazioni di Paesi come Siria e Libano.

Afghanistan

Il mondo sembra aver rapidamente dimenticato il dramma che l’Afghanistan sta vivendo con il ritorno al potere dei Talebani, frutto di un ritiro delle truppe occidentali voluto da Trump per ragioni elettorali e concluso frettolosamente da Biden per motivi della medesima natura. Aver chiuso gli occhi di fronte a uno scenario ampiamente prevedibile è una grave responsabilità dell’occidente. Oltre a un ormai vistoso arretramento sul fronte dei diritti umani e della modernizzazione che era in atto, il paese rischia di diventare nuovamente il rifugio del terrorismo internazionale, oltre che fonte di continue fughe di disperati verso l’Europa.

Conflitti congelati

Le situazioni di Georgia, Transnistria, Nagorno-Karabakh, le tensioni crescenti nei Balcani occidentali, in particolare tra Serbia e Kosovo, e la stessa presenza russa in Siria e nel Mediterraneo rappresentano serie minacce ai confini dell’Europa. Esse sono state volute o favorite da Putin, nel suo intento di esportare instabilità ai confini del proprio impero ed egli è in grado di controllarle o di influenzarle pesantemente.

   L’imprevedibilità delle mosse dello stesso Putin, ormai messo alle strette da una guerra in Ucraina che gli si sta ritorcendo contro, lancia inquietanti ombre sul destino di questi conflitti locali o regionali, che potrebbero riaccendersi in modo rapido e violento.

Africa

Il fronte africano è sempre più caldo, politicamente ed economicamente. Solo l’Europa può contrastare la dilagante manovra neo-coloniale che ha come protagonista principale la Cina, ma che negli ultimi anni ha visto un crescente protagonismo della Turchia e della stessa Russia.

   Se gli scandali che stanno minando la credibilità delle istituzioni europee – e che coinvolgono proprio paesi della regione mediterranea e persino ong umanitarie – dovessero rallentare ulteriormente il già faticoso processo di sostegno europeo allo sviluppo dell’Africa, la situazione di dominio geopolitico sul continente da parte del blocco orientale potrebbe diventare irreversibile.

   Mi rendo conto di aver spaziato su fronti molto variegati che, tuttavia, presentano un denominatore comune: la contrapposizione tra democrazie e autocrazie. Nel governo degli sviluppi di questi scenari, sono proprio le democrazie occidentali ad avere la più forte responsabilità, a partire da Stati Uniti d’America e Unione europea.

Tre condizioni

In questo senso, vedo – tra le altre – tre condizioni importanti, se non essenziali:

1- Usa e Ue devono smettere di rapportarsi nella logica di contrapposizione politico-economica iniziata da Trump per tornare a concepirsi come le due facce della stessa medaglia: quella di alfieri dei valori democratici. In questo senso c’è un buon punto di partenza, ed è quella Alleanza Atlantica che costituisce una delle poche certezze di oggi: nonostante alcuni inevitabili limiti, la capacità della Nato di adattarsi a scenari in continua evoluzione ne consolida l’autorevolezza, facendone probabilmente il più importante security provider presente oggi sulla scena globale;

2- il multilateralismo deve cominciare a reinventarsi, rinnovandosi profondamente nelle proprie regole e nelle proprie strutture, a partire da ONU e UE, prigioniere rispettivamente del diritto di veto e del principio del consenso, che troppo spesso ne rendono scarsamente efficace l’azione;

3- la terza condizione è certamente la più difficile: le nostre democrazie devono uscire dalla logica, non scritta ma purtroppo reale, secondo la quale la politica internazionale di un paese subisce pesantemente il condizionamento dei problemi di politica interna, si tratti delle elezioni o del gradimento dei leader. Il combinato di pandemia e guerra dovrebbe ormai aver fatto capire che deve accadere il contrario, cioè la situazione internazionale deve guidare le scelte di politica interna di un governo degno di questo nome.

   Per affrontare questi difficili scenari servono leader veri. Giova sempre ricordare che la più celebre frase di Alcide De Gasperi fu proprio quella pronunciata davanti ai potenti del mondo nella conferenza di pace di Parigi il 10 agosto 1946. Egli si presentò come leader di un paese nemico e sconfitto con un discorso storico, aperto da un commovente incipit: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me». Solo un gesto spezzò il gelido silenzio che aveva accolto la fine del suo intervento: una stretta di mano, l’unica. Ma la più importante: quella del segretario di Stato americano James Byrnes. Da quelle parole e da quella stretta di mano ebbe inizio la ricostruzione dell’Italia.

   Che il 2023 porti al mondo il dono di statisti all’altezza dei tempi, che, come De Gasperi, sappiano anteporre l’interesse per il bene comune ai propri, sempre egoistici e spesso miserevoli, obiettivi personali. (PAOLO ALLI)

IL LAVORO GUARDANDO AL FUTURO (di MARIO FADDA)

   Il lavoro è sempre stato una sfida, dal “guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte”, come dichiarato nel libro del Genesi, fino all’essere riconosciuto come diritto, cioè possibilità di libertà, ma sempre al fine di costituire una garanzia di sopravvivenza, consentendo l’accesso all’uso di mezzi economici.

   Come tale, il lavoro è sempre stato considerato – vorrei dire vissuto – come contrapposizione alla libera espressione della persona, che infatti ambisce a disporre di “tempo libero”.

   La persona vuole tempo libero per soddisfare i propri desideri, fra i quali il più elevato è quello di poter esprimere la propria creatività, accettando impegni e fatica che ne possano derivare: come se ciò non significasse e comportasse lavoro, come se ogni nostro agire non fosse realizzato, come invece avviene, lavorando.

Dunque?

Il lavoro può essere espressione di libertà, come tale deve essere pensato e garantito, perché è possibilità e occasione di libera espressione della creatività personale.

   Questo richiede il passaggio a nuove forme di relazione tra quanto scopriamo, studiamo, capiamo e siamo in grado di comunicare ad altri (la nostra cultura) e quanto, di conseguenza, siamo in grado di fare, di produrre di utilizzabile da noi e da altri, che usano quanto di noi e da noi diventa economico.

   Insomma: lavorare deve essere possibile per tutti, mettendo ciascuno in condizione di esprimere quanto sa, pur accettando – più o meno temporaneamente – la riduzione ad essere capito solo attraverso quanto sa produrre di utilizzabile.

   Si disegna così una scena dove la persona produce non sotto il ricatto della sopravvivenza, ma esprimendo quanto di meglio sa pensare e fare.

   Ed ecco un problema: nei due ettari di cui ciascuno di noi dispone nello spazio delle terre emerse (basta una semplice divisione tra abitanti e spazio disponibile per accorgersi a quanto poco siamo giunti!) dobbiamo impegnarci a realizzare quanto di più bello e utile sappiamo produrre, perché chiunque ne possa godere.

   Quindi il lavoro non è più solo una merce che ci dà esiti a seconda di come sappiamo collocarci nel mercato, ma è la nostra possibilità di esprimerci al meglio e quindi come tale deve anche essere garantito.

   Modo di vedere, da cui deriva il modo di procedere, adottando regole che ci consentano di vivere bene nella propria casa: oikos, per usare una parola antica.

Quale vita dobbiamo scegliere per vivere bene e quali regole di convivenza adottare?

Oikos logos, dicevano i greci, da cui derivare oikos nomos: ecologia da cui derivare economia, modo di vedere le cose da cui derivare il modo di usarle, non il contrario a cui ci siamo ridotti, adattando la prima a modesta giustificazione della seconda.

   Per ora siamo giunti alla prima consapevolezza che dobbiamo produrre – almeno! – senza fare danni.     Di qui hanno preso le mosse le logiche cosiddette ambientaliste.

   Dobbiamo operare un passaggio di valore: qualsiasi attività noi svolgiamo, deve ispirarsi al principio universale, che produrre non significa consumare e scartare, ma utilizzare, anche se solo in parte e riscattare il rimanente.

   Bel problema per gli interessi e gli scopi di una ricerca scientifica e tecnologica abituata a essere premiata solo su quanto scopre di nuovo, mentre qui si richiede un salto di qualità nel saper compensare anche chi si occupa di saper riutilizzare quello che oggi chiamiamo scarto.

C’è molto lavoro da fare!

Troppe volte ancora il riconoscimento del valore avviene con ritardo, troppe volte il quadro del pittore che in vita patì la fame, dopo diventa, magari in breve tempo, oggetto di scambio milionario.

   Il lavoro non può continuare a subire il ricatto del mercato, necessitando inoltre di modalità di valutazione idonee a evitare pigrizie intellettuali.

Questo costituisce la nuova frontiera su cui operare.

“Lavoratori di tutto il mondo unitevi” cantava la speranza di conquistare dignità e riconoscimento per il lavoratore, ma non è stato chiaro lo scopo di tale unione: adesso si ripropone questa prospettiva, che costituisce un vero salto evolutivo per la specie e ne impone la consapevolezza.

   Stiamo attenti a imboccare la strada giusta e farlo in tempo. (MARIO FADDA)

LA RIFORMA CHE SERVE ALL’EUROPA (di ANGELO PANEBIANCO), da “il Corriere della Sera” del 16/12/2022

IL CASO QATAR E I SUOI INSEGNAMENTI – È una celebre affermazione di James Madison, un padre fondatore della democrazia americana, quella secondo cui gli esseri umani necessitano delle istituzioni di governo perché «non sono angeli». Fra quelle istituzioni vanno anche comprese polizie e tribunali.

   E poiché gli esseri umani non sono angeli, in tutte le democrazie si registrano, periodicamente, episodi di corruzione. Intendendo per corruzione l’attraversamento illegale, ossia in violazione di leggi vigenti, dei confini fra sfera pubblica e sfera privata.

   Ci sono però circostanze che possono rendere il fenomeno particolarmente pesante. La democrazia bloccata in Italia durante la Guerra fredda, col tempo, favorì uno sviluppo molto consistente di quegli attraversamenti illegali.

   Si scopre ora che anche il Parlamento europeo era esposto allo stesso virus. Forse hanno contribuito alcune caratteristiche di tale istituzione. Prima di tutto: ma davvero il Parlamento europeo è, in quanto eletto, un organo «rappresentativo»? Certo, formalmente, lo è. Ma lo è anche sostanzialmente? Dal 1979 i cittadini europei eleggono, divisi per Paesi, i membri dell’assemblea di Strasburgo. Quanto basta perché si dica che il Parlamento europeo è una istituzione «democratica» (secondo i principi della democrazia rappresentativa), l’unica i cui membri vengano scelti direttamente dai cittadini.

   Il problema però è che quando i cittadini «scelgono» i loro (supposti) rappresentanti non lo fanno perché, attraverso quel voto, intendano condizionare le attività del Parlamento europeo. Per due ragioni strettamente collegate. In primo luogo, perché, a schiacciante maggioranza, ignorano quali siano le competenze del suddetto organo. E, in secondo luogo, perché pensano che il loro voto non sia collegato alle sorti di un governo. Quando un cittadino vota per il rinnovo del Parlamento nazionale lo fa, prima di tutto, per influenzare la formazione del governo. Egli sa che esiste una connessione stretta fra i risultati delle elezioni e il tipo di governo che si formerà, sa che, a seconda di quei risultati, nascerà un governo coerente con i suoi interessi oppure un governo che li avversa.

   Persino in una repubblica presidenziale (o semi-presidenziale), quando si vota per il rinnovo del Parlamento non si vuole solo premiare un candidato o un partito. Si intende anche sostenere o contrastare il presidente in carica. Nel caso europeo non c’è nulla di tutto questo. Tranne gli addetti ai lavori che sanno come la forza dei vari raggruppamenti parlamentari europei incida – ma insieme ai governi nazionali – sulla composizione della Commissione, i cittadini comuni non ne sanno nulla.

   Mentre il Consiglio europeo, essendo organo intergovernativo, fa storia a sé. Da qui l’inesistenza di incentivi ad informarsi sulle attribuzioni della assemblea di Strasburgo. Da qui, soprattutto, il carattere sui generis delle elezioni del Parlamento europeo. Elezioni che hanno una doppia caratteristica. La prima è l’elevato astensionismo (molti cittadini europei, da sempre, non votano perché non capiscono che senso abbia quel voto). La seconda è che coloro che votano lo fanno per ragioni che nulla c’entrano con l’elezione in questione: lo fanno per manifestare consenso o dissenso nei confronti del governo nazionale. Usano il voto europeo per mandare un «messaggio» a governo e partiti nazionali. Le elezioni europee sono soprattutto un grande sondaggio in cui le forze politiche dei vari Paesi misurano il consenso di cui godono.

   Si spiega così perché il legame fra gli elettori e gli eletti al Parlamento europeo sia debole. O inesistente. Non c’è un’opinione pubblica qualificata attenta a ciò che fa il Parlamento europeo. Mentre c’è, più o meno, in sede nazionale. In ambito europeo, una volta depositate le schede, la maggior parte dei cittadini non saprà nulla di ciò che accadrà in quella assemblea. Date le vere motivazioni del voto, non avrà alcun interesse ad informarsi.

   È ovvio che ciò dipende dalle caratteristiche della costruzione europea. L’ortodossia europeista ne trae la conclusione che occorra creare un vero governo democratico dell’Unione. Ma nell’attesa (campa cavallo) che ciò si realizzi che si fa? Sono sempre esistiti (legittimi) dubbi sulla possibilità di una democrazia europea. Per la distanza psicologica, e per le barriere linguistiche, che separano i cittadini dalle istituzioni dell’Unione. Nonché per le differenti tradizioni culturali.

   Un grande sociologo, Ralf Dahrendorf (era un europeista, membro della Commissione negli anni Settanta) sosteneva, per queste ragioni, che la democrazia può esistere all’interno degli Stati nazionali europei ma è difficilmente trasferibile sul piano continentale. Possiamo non condividere lo scetticismo di Dahrendorf ma non possiamo sostenere che egli agitasse un falso problema.

   Torniamo al Qatargate e alla corruzione. L’inesistenza di un’opinione pubblica qualificata che possa esercitare un controllo sull’attività del Parlamento europeo, a sua volta conseguenza dei caratteri di tale istituzione, rende assai difficile immaginare che si possano accendere riflettori in grado di restare puntati in permanenza su quell’assemblea assicurando così una certa trasparenza ai suoi lavori e ai comportamenti degli eletti. Certamente, ora verrà usata la scopa per fare pulizia. Ma senza che si possa risolvere il problema «strutturale» che ne spiega le tante opacità.

   Dato che ciò non costa nulla, si può mettere al lavoro l’immaginazione. In attesa della mitica democrazia europea, forse le cose migliorerebbero un po’ se i governi si accordassero per una riforma che faccia dell’elezione del Parlamento europeo, anziché la somma di tante elezioni quanti sono i Paesi-membri dell’Unione, una vera elezione su scala continentale. Nella quale i cittadini votino per liste europee, per raggruppamenti europei. Resterebbe l’assenza di un collegamento stretto fra l’elezione del Parlamento e il governo dell’Unione. Ma forse finirebbe l’epoca delle elezioni-sondaggio. Con possibili benefici effetti sulle relazioni fra cittadini e Parlamento europeo.

   Ovviamente, ciò non accadrà, per lo meno nel breve-medio termine. Ma sollevare il tema può almeno impedire che si cada dalle nuvole quando si scoprono le opacità e i comportamenti illeciti che ne discendono. Sarebbe bello che lo fosse ma il Parlamento europeo, nonostante le opinioni correnti, non è (ancora?) una vera «istituzione democratica». (ANGELO PANEBIANCO)

“SCUOLA E MERITO” di GRAZIA BARONI (1/12/2022)

Barbiana, Don Lorenzo Milani (foto da https://www.donlorenzomilani.it/)

(da https://www.demospiemonte.it/ )

   Chiamare il Ministero della Pubblica Istruzione Ministero anche del Merito, rivela la mentalità che sottostà a questa definizione, che è una mentalità elitaria e discriminante che non solo non risolve il problema della qualità del servizio scolastico, ma ne conferma il limite strutturale: quello di attribuire alla scuola il compito di certificare la conformità degli studenti al modello di cittadino di cui essa è garante.

   La forma democratica delle istituzioni italiane è stata scelta per risolvere il problema dell’ingiustizia della “casualità della nascita”. Inoltre la scuola è stata pensata pubblica (costituzionalmente la scuola privata è accettata, ma non deve costituire oneri per lo stato) per togliere la necessità del merito, in modo da dare a ogni cittadino gli strumenti necessari ad autodeterminarsi.

   Questo era il progetto; la sua realizzazione ha dovuto fare i conti con la cultura diffusa, che doveva ancora superare il limite della logica aristocratica dei privilegi e dell’idea meritocratica del fascismo. Altro ostacolo da superare è stato quello di non aver considerato che il progetto di partenza indicava anche l’obiettivo da raggiungere. Infatti c’erano ancora problemi prioritari da risolvere legati alla sopravvivenza: problemi legati alla disponibilità di vitto e alloggio per tutti, alla sanità pubblica e un analfabetismo che colpiva più del 70% della popolazione italiana. Queste condizioni sono state superate, in Italia e non solo, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

   Passata la fase di emergenza, intervenuta la possibilità di pensare al di fuori della dimensione della necessità, cosa che è ancora da fare, è emerso il pensiero del Socialismo Reale che non dà valore all’essere umano in base alla propria singolare diversità: i cittadini sono considerati uguali misurandoli sul bisogno, idea ereditata dal marxismo. Scontrandosi con la diversità innegabile e irriducibile degli esseri umani, i rappresentanti del Socialismo reale in Italia hanno pensato che, per includere tutti, il livello della scuola dovesse essere abbassato, in modo che anche i poveri ce la potessero fare.

   In questo modo hanno veramente espresso una forma di pregiudizio di pensiero assolutamente razzista: il povero è inferiore e questa sua condizione è la conseguenza del fatto che è meno intelligente e vale meno. Per dirla in termini luterani, filosofia alla base del capitalismo, il povero non si merita di essere riconosciuto da Dio, perciò la qualità della sua vita corrisponde al livello della sua pochezza e malvagità.

   L’altro pregiudizio che sottostà a questa idea è che ci sia un unico modo per “arrivare”, è una mentalità che esiste ancora oggi: ritiene che ci sia un punto di arrivo uguale per tutti, un unico modo per essere riconosciuti, quello del successo. Ma successo rispetto a che cosa? Una volta rispetto al potere, al comando e alla supremazia sugli altri e oggi rispetto alla ricchezza. La cultura umanista alla base del trentatreesimo articolo della costituzione, pretende che la scuola abbia il dovere di dare i migliori strumenti a ciascuno affinché possa autodeterminarsi, essere libero di scegliere se e come partecipare alla creazione della società. Per questo nell’articolo è usata la parola “meritevole” perché è intrinseco, nel lavoro del pedagogo e dell’educatore, il riconoscere l’impegno dei singoli.

   La valutazione, in voti o giudizi, è l’unico modo che si è escogitato, fino ad ora, per consentire ai giovani di misurarsi e di crescere nelle risorse e qualità, come metro di misura perché il bambino, l’adolescente, il giovane e l’adulto abbiano un riferimento comune per capire di che pasta sono fatti, per conoscersi nelle proprie potenzialità, da quelle fisiche, a quelle emotive e razionali, a quelle immaginifiche. È un processo di consapevolezza di sé sia nel numero delle risorse che uno si riconosce, sia nella loro profondità. La valutazione però non dovrebbe bloccare il percorso scolastico e precludere quindi il suo avanzare nell’apprendimento. Non è nella paura e nell’avvilimento che si apprende, ma nel gusto e nella consapevolezza del valore di ciò che si impara.

   Il metro di misura dell’operato dell’insegnante dovrebbe essere proprio l’aver suscitato negli allievi la curiosità e il gusto di apprendere la sua disciplina. L’unica regola assolutamente ineludibile è quella del rispetto di sé e degli altri, affinché si impari a vivere la propria libertà assieme alla libertà di tutti. Questa è la cosa più difficile, il traguardo più alto della scuola. E bisogna avere la consapevolezza del fatto che la responsabilità di scegliere deve essere adeguata all’età, perché si può scegliere su quello che si conosce. Se non si sceglie sul noto, la scelta è indotta e non rispetta la libertà dei singoli.

   Il merito è un elemento discriminante, non è democratico. Bisogna formare gli insegnanti alla pedagogia nuova che si basa sul gusto della condivisione di ciò che interessa, che conosci e che ti piace, perché è dal gusto della conoscenza che si apre la meraviglia dell’ignoto che nel suo mistero nasconde le risposte a nuove curiosità.

   Per questo trovo assolutamente indispensabile formare gli insegnanti alla nuova finalità dell’istituzione scolastica, attraverso corsi di formazione capaci di far acquisire la concezione di un essere umano che è, nella sua singolare creatività e nelle sue potenzialità trasformative e relazionali, il vero valore per l’intera umanità e non una persona continuamente misurata, nel dover essere, nel limite e nel senso di colpa per il suo non adattamento al modello, come è oggi.

   È una cultura che bisogna praticare perché è quella che il nuovo millennio aspetta, altrimenti si torna al paleolitico con un essere umano pieno di necessità e paure. Per questo c’è bisogno di adeguati finanziamenti alla scuola pubblica e non a quella privata e parificata, come detta la nostra Costituzione. (GRAZIA BARONI)

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Un commento a ‘SCUOLA E MERITO’ di Grazia Baroni di ANDREA MATTAROLO (2/12/2022)

   Bell’articolo, complimenti a Grazia. Però non capisco una cosa e ho un dubbio su un’altra.

   Non capisco dove Grazia scrive “Passata la fase di emergenza, intervenuta la possibilità di pensare al di fuori della dimensione della necessità, cosa che è ancora da fare, è emerso il pensiero del Socialismo Reale che non dà valore all’essere umano in base alla propria singolare diversità: i cittadini sono considerati uguali misurandoli sul bisogno, idea ereditata dal marxismo. Scontrandosi con la diversità innegabile e irriducibile degli esseri umani, i rappresentanti del Socialismo reale in Italia hanno pensato che, per includere tutti, il livello della scuola dovesse essere abbassato, in modo che anche i poveri ce la potessero fare.”

   E cioè se immagino che per rappresentanti del socialismo reale intenda i vertici del PCI negli anni 60 e 70, non comprendo però in che modo questi abbiano voluto abbassare il livello della scuola per permettere ai poveri di accedervi. Quelli sono stati gli anni della contestazione, di un movimento globale anche contraddittorio ma che non risparmiava critiche ai partiti e ai governi e non fu certo promosso dal PCI, anzi.

   Eppure ricordo negli anni 70 le riforme che hanno abolito le classi ghetto differenziali prospettando l’inclusione scolastica, la partecipazione dei genitori e degli alunni… Di sicuro i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative. Ma quando penso a un Rodari, iscritto e attivo nel PCI, non lo vedo certo come un livellatore al ribasso della scuola… Quindi forse ho inteso male il suo discorso…

   Il dubbio è invece …sul paleolitico, come luogo della necessità e paura. Di questi 2 milioni di anni noi sappiamo pochissimo, però abbiamo proiettato i nostri preconcetti, del resto senza scrittura e senza memoria questi popoli sono per noi muti. Eppure rare ma significative testimonianze ci parlano anche di gruppi umani solidali, che si prendevano cura degli anziani e persino delle persone disabili. Che dunque avevano risorse, le sapevano sfruttare, e non vivevano nella disperazione. È solo una riflessione… Grazie. (ANDREA MATTAROLO)

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RISPOSTA di Grazia Baroni su “Scuola e Merito” (2/12/2022)

   Volevo prima di tutto ringraziare perché trovate il tempo non solo di leggere ciò che scrivo, ma anche di fare commenti, perciò grazie.

   Adesso però devo chiarire il mio pensiero che è detto in modo molto superficiale e sbrigativo e che necessariamente dà per scontato che il mio punto di vista sia un possibile punto di partenza già conosciuto e invece devo fermarmi e ricordare i fatti veri, come si sono svolti e come sono stati tramandati, secondo me in modo almeno ideologico e mai chiariti veramente. Posso fare queste mie affermazioni perché in quei giorni ero, non solo presente, ma anche attiva nel movimento studentesco e non in modo schierato, non avevo infatti nessuna tessera di partito, né di destra né di sinistra, e per di più figlia di partigiani che la nascita del partito comunista hanno vissuto.

   Nei primi anni settanta si è svolto a Roma un convegno di livello internazionale promosso da un’organizzazione di cui uno dei relatori era Vittorio Zucconi una indagine conoscitiva su quale modello scolastico fosse migliore a livello mondiale secondo comuni criteri di valutazione. Bene, era risultato che fosse il modello italiano quello migliore per formare alla creatività e al possedere la padronanza del pensiero critico e che quella qualità era rappresentata dal modello dei licei classici e scientifici e in particolar modo l’insegnamento del latino nelle medie inferiori si era verificato che fosse uno degli aspetti più incisivi e significativi sulla formazione e preparazione di persone capaci di autonomia di pensiero e di possedere le strutture necessarie a comprendere i testi.

   Queste affermazioni erano fatte su dati e sperimentazioni condotte a livello internazionale e indipendenti tra loro, bene, risultato in Italia di questo convegno è che si è tolto il latino obbligatorio nelle medie inferiori e si è incominciato a livello di informazione diffusa a criticare la scuola italiana descrivendola come la peggiore al mondo e che perdeva il tempo scolastico a insegnare una lingua morta come il latino, a far usare la memoria come metodo didattico e a far studiare mille volte la storia per tre cicli di scuola perché così non si insegnava il novecento.

   Prima di tutto devo dire l’importanza del libro di don Milani che in quel momento aveva riscontrato un notevole successo tra i giovani ma non tra gli adulti. In secondo luogo devo ricordare che il movimento studentesco è stato, secondo me di proposito, strumentalizzato per incidere sulla scuola italiana per ridurne la qualità umanistica.

   Tutto questo è stato portato avanti per molti anni accusando il movimento studentesco universitario di essere stato quello che ha richiesto questo cambiamento al ribasso. Posso smentire questa affermazione perché io e i miei compagni di corso siamo stati vittime di questa strumentalizzazione mediatica, perché chi chiedeva il 27 politico nei lavori di gruppo all’università, Architettura, erano una decina di studenti su l’intera università e la maggioranza di noi è stata vittima di questo giudizio che faceva di noi degli ignoranti laureati con frode, che non era assolutamente la realtà perché i nostri esami erano approfonditi e seri come tutti quelli dati fino a quel momento. Basta andare a verificare le tesi di laurea corrispondenti a quegli anni e si potrebbe capire quanto le ricerche dei gruppi universitari siano stati all’origine della ricerca degli anni successivi.

   Poi Luigi Berlinguer ha fatto la riforma che ha trasformato la scuola in aziende per la conoscenza, ha creato i POF che hanno trasformato il linguaggio pedagogico e didattico in un insieme di frasario economicistico e merceologico della conoscenza.

   Anche questa mia risposta è sommaria ma potrebbe essere l’occasione per fare chiarezza una volta per tutte del valore della conoscenza e della scuola che è alla base di tutto il processo dell’evoluzione civile e democratico di una società e per quanto riguarda l’Italia della sua, forse ancora ma per poco, qualità creativa dei nostri lavoratori a tutti i livelli; e della nostra peculiarità che è proprio ancora conservata e possibile attraverso i nostri licei a partire da quello classico che secondo me dovrebbe essere reso un passaggio conoscitivo e formativo per tutti i nostri giovani, per possedere la padronanza del pensiero critico. (GRAZIA BARONI)

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Un commento a ‘SCUOLA E MERITO’ di Grazia Baroni di MARIO FADDA (3/12/2022)

   Aggiungo qualche considerazione alla vicenda della scuola e dei cambiamenti avvenuti con la riforma anni ‘60/70 che vissi insegnando nella media inferiore dal ’68 al ’73.

   La volontà di rendere equiparabili tutti gli insegnanti tra di loro fu attuata portando il laureato in lettere o matematica a livello equivalente al tecnico di laboratorio della soppressa scuola di avviamento; equivalente come livello retributivo e quindi da giustificare nell’equivalenza di impegno didattico.

   Insomma, alla mia scuola media dove le 24 ore settimanali erano dominio della professoressa di lettere, cioè italiano, latino, storia e geografia, e poi solo 2 in matematica e 2 di lingue ma solo dal secondo anno, e poi ancora due di ginnastica e una di religione, si sostituì una nuova distribuzione dove le “educazioni” artistica, tecnica, musicale, fisica, religiosa (!!?!!) mangiarono lo spazio del latino, troppo vecchio e inutile.

   Poi ci sono molte altre questioni riguardo al livello di formazione degli insegnanti…. (MARIO FADDA)