Significato e senso del PROGETTO PERSONALE (finalità, nodi storici, obiettivi) (di MARIO FADDA)

   Poiché la parola “progetto” si sta diffondendo provo a elaborarla un po’.

   Avere un progetto significa affrontare il cambiamento, cioè le dinamiche che guidano il percorso dal presente al futuro: credo che si debba provare a esprimere quali siano le idee che crediamo giuste e condivisibili e come esprimerle e come condividerle e come difenderle.

   Il punto di partenza che io trovo dentro di me e, dialogando con molti, dentro tutti è l’individuazione e l’esplicitazione di quali siano le finalità che ciascuno si dà come scopo della propria vita: taluni li chiamano “ideali”, parola che a me evoca riferimenti romantici, ma, se vogliamo capirci, va bene anche così.     Basta non volare nel cielo del “sarebbe bello, ma…..” e rimanere sulla terra, dove il cambiamento è possibile, se ciascuno si fa carico del proprio pezzo.

   Torno al progetto, che significa avere un fine e verificare le possibilità di realizzazione di quanto il fine comporta con le condizioni in cui si vive, che sono da leggere, a partire da me stesso, fino alla dimensione più ampia che la nostra cultura consente, possibilmente il mondo.

   Sembra una dimensione generica, dire “il mondo”, ma in realtà siamo quotidianamente sommersi da informazioni e condizioni politiche, economiche, sociali ormai definitivamente mondializzate.

   Darsi un fine, elaborare una propria idea di presenza e partecipazione attiva alle dinamiche di trasformazione in atto è un tema che dovrà essere inserito negli impianti formativi e comunicativi e qui chi si occupa di scuola può davvero cominciare a metterci sapere e costanza, oltreché capacità pedagogica.

   Bisogna che ciascuno possa e voglia esprimere quanto ritiene essere una finalità giusta e utile come espressione della propria presenza nel mondo, al massimo delle proprie idealità utopiche (sapendo che questa parola non significa né buonismo, né vaghezza, ma semplicemente capacità di andare oltre i limiti di veder solo quello che è realizzabile, subendo l’orizzonte e l’orologio come limiti).

   Questo punto comporta un passaggio non facile, che nella storia anche recente ha significato divisioni e conflitti, là dove le idee si sono trasformate in ideologie, sostenute da masse più o meno folte e violente.

   L’individuazione personale delle proprie condizioni e difficoltà nel raggiungere i propri fini, deve diventare un processo di integrazione collettiva/comune, attraverso il confronto: qui sta quanto usualmente chiamiamo “politica” a patto di liberare definitivamente questa parola dal significato conflittuale del prevalere di una maggioranza, perché “su quanto si concorda si governa e su quanto non si è d’accordo si continua a ricercare e si discutere”, come scrivevano due nostri Padri.

   Il terzo passaggio, conseguente all’esplicitazione dei fini e alla loro collocazione nelle dinamiche storiche in atto, significa individuare obiettivi, realizzabili con risorse culturali, economiche e organizzative ben definite, rimodulabili secondo necessità di cui quella “politica”, appena delineata, sa farsi carico.

   Finalità, nodi storici, obiettivi: tre parole che fondano il progetto personale, risorse ineludibili per non distruggere il giocatolo che abbiamo in mano, ma trasformarlo in un processo collettivo/comunitario, in modo che continui ad accogliere e sostenere gli otto miliardi di esseri che lo abitano. (MARIO FADDA)

UNA GUERRA CHE VIENE DA LONTANO

Intervista a RICCARDO PETRELLA di Simone M. Varisco, dal sito http://www.costituenteterra.it/ del 16/3/2022

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– L’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione.  Molti fattori precedenti all’esplosione del conflitto fra Russia e Ucraina –  

   La guerra in corso in Ucraina è una violenza inaccettabile. Si può dire il frutto di quasi un secolo di responsabilità incrociate, diffidenze reciproche, impegni disattesi e differenti interpretazioni delle relazioni internazionali. Eppure, per molti versi, è anche la conseguenza di un pensiero sorprendentemente comune ai due schieramenti: la guerra contro l’uomo. Fra aspirazioni imperiali, pace imposta con le armi e un mondo che sta cambiando. È «l’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione».

   Ne parlo con RICCARDO PETRELLA, economista e politologo, professore emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e dell’Accademia di Architettura di Mendrisio. Dal 1978 al 1994 ha diretto il programma FAST (Forecasting and Assessment in the Field of Science and Technology) alla Commissione delle Comunità europee a Bruxelles.

   Nel 1993 ha fondato il Gruppo di Lisbona e nel 1997 l’Associazione internazionale per il Contratto mondiale dell’acqua. È presidente dell’Institut Europeen de Recherche sur la Politique de l’Eau (IERPE) di Bruxelles e dell’Università del Bene Comune (UBC), fondata ad Anversa e poi in Italia e in Francia. È dottore honoris causa di 8 università in Svezia, Danimarca, Belgio, Francia, Canada e Argentina. Collabora, fra l’altro, con il Wall Street International Magazine ed è autore di pubblicazioni sull’economia e il bene comune.

Prof. Petrella, si è detto che questo conflitto è la continuazione di quello iniziato nel 2014. È davvero così?

La crisi russo-ucraina non è all’origine di tutto quello che sta succedendo. Ci sono ragioni obiettive per avercela con Putin, sia chiaro! Ma non è solo l’agire di Putin che è determinante in questa situazione. Ci sono tanti fattori precedenti all’esplosione del conflitto fra Russia e Ucraina. Dopo l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, sono iniziate pressioni forti, locali e internazionali, soprattutto da parte di Stati Uniti ed Europa affinché l’Ucraina diventasse parte dell’economia occidentale e del sistema militare Nato.

   La crisi del 2014, con l’occupazione russa della Crimea e l’appoggio alla secessione – se si può dire così – delle province di Donetsk e Luhansk è una continuazione di qualcosa di molto più grande, di molto più lontano. L’attuale guerra in Ucraina non è, fondamentalmente, una guerra tra russi e ucraini. All’origine ci sono due grandi fenomeni, insieme ad un terzo raramente trattato dagli analisti.
Il primo è il grande errore commesso dagli Stati Uniti, dagli europei e da alcuni gruppi in Russia – gli amanti della visione pan-zarista di Putin – di non aver ascoltato quanto sostenuto nel 1991 da Michail Gorbaciov, cioè che il crollo dell’Unione sovietica non fosse avvenuto a causa della vittoria degli Stati Uniti o del capitalismo, bensì per ragioni interne, per una società mal strutturata, ingiusta, per un potere inegualitario ed oligarchico.
Il secondo fenomeno è lo scontro fra due “imperi”. Dopo la seconda guerra mondiale il mondo era governato da due grandi potenze: da un lato l’URSS, con la potenza militare e soprattutto la potenza ideologica, anche se in declino, e dall’altro gli Stati Uniti, con un’egemonia mondiale in tutti i campi. La Guerra Fredda era questo, l’opposizione fra due potenze mondiali imperiali. Con la crisi dell’URSS gli Stati Uniti hanno pensato di poter approfittare della debolezza della Russia per metterla fuori gioco sul piano della geopolitica e dei rapporti di potere mondiali. E da allora hanno fatto di tutto per ottenere questo. È chiaro, ormai, che la Nato non serve a difendere l’Atlantico. La Nato è uno strumento mondiale. Per gli Stati Uniti cedere sulla Nato, ritirarsi, è una bestemmia. Non lo faranno mai, se non obbligati.
Il terzo fenomeno: anche se non ne siamo sempre coscienti, c’è un profondo razzismo nella convinzione occidentale che sia “naturale” per la nostra società dominare il mondo. Noi pensiamo, come Churchill, che la democrazia, pur imperfetta, sia il sistema politico meno peggiore di tutti gli altri.  Che la nostra democrazia sia the ultimate form, la forma definitiva di organizzazione politica buona, anche solo perché meno peggiore delle altre. Ogni altro sistema politico è dal nostro punto di vista antidemocratico, totalitario. “cattivo”. Spesso il “difendere la democrazia nel mondo” si traduce nel difendere il potere che rappresenta oggi il nostro sistema politico.

   Un’altra convinzione occidentale è che il capitalismo non sia buono, ma che non ci sia alternativa al capitalismo, al mercato, alla competitività, all’ineguaglianza. Finché queste due convinzioni regoleranno l’agire dei nostri governanti non ci sarà pace nel mondo. Sono idee talmente metabolizzate in noi, che ad esempio durante la pandemia abbiamo ritenuto ovvio non fidarci dei vaccini russi o cinesi, perché non fatti dalle nostre università, non fatti dalle nostre imprese. Ancora meno potremmo dare fiducia al prodotto di un popolo ritenuto da sempre soltanto sottomesso: i vaccini cubani. Ancora, non pensiamo che l’Africa o il Vicino Oriente siano luoghi dove possono emergere nuove idee, nuovi stili di vita, nuovi sistemi economici.

In effetti, è un fatto che in 8 anni di tensione non si è fatto abbastanza per evitare una nuova escalation. La sensazione è che gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, siano incapaci di evitare l’innescarsi di conflitti armati e crisi umanitarie. È così?

Perché non si è fatto nulla per fermare i conflitti fra Russia e Ucraina, che sono anche antistorici rispetto alla storia plurisecolare dei due Paesi? Perché, per l’appunto, non è solo una questione russo-ucraina. Si tratta, invece, dell’accentuazione negli ultimi anni di quel conflitto fra due potenze imperiali, con esiti sempre più a favore degli Stati Uniti. Ricordiamo sempre il concetto tipicamente statunitense di peace through strength, pace attraverso la forza militare, secondo alcuni attraverso la guerra. Per questo non si è fatto nulla, soprattutto non ha fatto nulla l’Occidente, per evitare la guerra. I politici europei si sono dimostrati subalterni, senza una visione a lungo termine del loro ruolo, anche come Unione Europea.
Beninteso, non si è fatto nulla non solo da parte occidentale: Putin fa parte di quella categoria di russi che rimpiange il crollo dell’Unione Sovietica, non perché rimpianga il crollo di una società che si diceva socialista e comunista – e che invece era autocratica, classista e ineguale – ma perché l’URSS rappresentava, in certo senso, una continuità con la Grande Russia, la Madre Russia, la Russia messianica, la Russia dell’ortodossia, della tradizione slava, dello zarismo. Da parte sua, Putin non può permettersi un ulteriore indebolimento.

Dal canto loro, Nato e Unione Europea non hanno trovato di meglio che armare uno dei due contendenti, l’Ucraina. Da un lato, è evidente l’intenzione di circoscrivere il conflitto ad una “trincea” lontana dal cuore dell’Europa, dall’altro la presunta soluzione non può che suscitare interrogativi. Con tutte le differenze del caso, non si può fare a meno di pensare all’Afghanistan di Osama Bin Laden e del Maktab al-Khidmat o all’Iraq del regime baathista di Saddam Hussein contro i Curdi iracheni e l’Iran. Come la vede?

In Ucraina si fa fare ad altri la guerra, così come si è fatta fare ad altri in Iraq, in Afghanistan, in Vietnam e nelle decine di altri interventi militari diretti o indiretti in America Latina, secondo la dottrina Hoover di America is ours, tutta l’America è nostra. Il pericolo è che, in fondo, sia World is ours, il mondo intero è nostro. Per questo, oggi, dobbiamo avere paura tanto di Putin come degli europei occidentali e degli Stati Uniti. L’invio di armi è una pazzia, una follia. Sanno benissimo che questo metterà alle corde Putin e lo costringerà a continuare ad essere presente in Ucraina. Armare gli ucraini significa anche creare l’accadibilità dell’incidente nucleare.
Spero che per gli Stati Uniti non sia il colpo di coda del coccodrillo ferito, che sta morendo. Trump è quello: un “visionario” alla Putin, che rimpiange la perdita del potere egemonico degli Stati Uniti. La forza imperiale statunitense non è più così forte come lo era all’epoca della Guerra Fredda, sia per motivi interni sia per l’opposizione di altri Paesi e soprattutto per l’emergere della Cina, una potenza certamente ambigua, ma che dà fastidio soprattutto sul piano economico.

Alcuni analisti hanno indicato il presidente russo Putin come psicologicamente instabile e più di una volta le dichiarazioni del presidente ucraino Zelensky sono sembrate sopra le righe. C’è molta propaganda da ambo le parti, ma la situazione non fa ben sperare. Sono elementi che hanno un peso in questa guerra?

Qualche giorno fa ho ascoltato il ministro dell’Europa e degli affari esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che ha detto sorridendo che “soffocheremo” l’economia russa. Ridendo, come se parlasse di un gioco. Far morire economicamente la Russia significa condannare 144 milioni di persone. È pazzia, pazzia “sana”, non malattia. Si punta ad ottenere la morte economica e militare della Russia e l’inabilitazione della Cina a continuare la sua crescita sul piano economico. Biden, come Trump, vuole la fine della Russia. Biden, come Trump e come gli europei occidentali, vuole l’indebolimento della Cina.
Siamo educati a pensare ad un nemico: oggi la Russia di Putin, ieri l’Unione Sovietica, i movimenti islamisti. E già si delinea il nemico del futuro, la Cina, considerata un “rivale sistemico” dall’Unione Europea. Con in parte delle verità, in questo, ma dev’essere chiaro il motivo per cui siamo educati a questo pensiero: difendere l’egemonia dell’Occidente. Noi occidentali crediamo che il nostro potere, la nostra supremazia mondiale siano un fatto naturale, inevitabile, giusto e buono. Ogni minaccia alla mono-supremazia del mondo occidentale, e in particolare degli Stati Uniti, diventa il nemico.

Da una pandemia globale ad una guerra che rischia di esserlo. In entrambi i casi, al di là della retorica, sembra mancare una risposta comunitaria, realmente condivisa, agli eventi. Ci sono aspetti che accomunano queste due tragedie?

Intanto, l’economia oggi spesso si traduce in guerra. L’economia dominante, il capitalismo di mercato ad alta tecnologia e ad alta finanziarizzazione, è sostanzialmente un’economia di dominio, un’economia di potenza, dell’ineguaglianza, un’economia della guerra: guerra per conquistare il mercato dei vaccini, guerra per la proprietà e i brevetti, guerra per conquistare il mercato delle intelligenze artificiali. Viviamo un continuo stato di guerra: i contadini ai quali a decine e decine di migliaia nel mondo è sottratta la terra o i lavoratori ai quali è tolta l’occupazione sono vittime della guerra dell’economia contro di loro.
La totale digitalizzazione della nostra società è anch’essa una guerra, una guerra contro gli esseri umani. C’è una grande priorità, teorica e pratica, in molte attività scientifiche e tecnologiche oggi: l’autonomizzazione dei sistemi artificiali. Si arriverà al dominio degli esseri umani attraverso il dominio delle macchine? La tecnologia non potrà che aumentare le guerre di potere. Il militare, oggi, è tecnologie di reti e gestione dei dati, come l’economia.
E poi c’è l’individualismo. Putin, anche se non è vero, è considerato “comunista”. E noi, società occidentale, siamo fondamentalmente educati all’interesse individuale, all’io, non al noi. Lo si vede con la guerra e lo si è visto con la pandemia: il principio multilaterale non funziona. È un fallimento, solo che è difficile andare al di là del multilateralismo. Lo si vede con il Consiglio di Sicurezza: anche allargato è impotente.
Questo per dire l’immensa complessità di ciò che sta attorno alla guerra in Ucraina e la difficoltà di trovare una soluzione. Per questo dobbiamo favorire tutte le forme di trattativa: se quelle attualmente in corso falliranno, si dovrà ricominciare fino ad arrivare ad un cessate il fuoco. Dobbiamo preservare il concetto di trattativa, vivo e forte. C’è una speranza se continuano le manifestazioni in tutte le città. Non solo contro Putin: contro Putin, contro gli Stati Uniti, contro il regime capitalista e l’occidentalismo individualista ed esclusivista.

Da politologo, come interpreta l’atteggiamento finora mostrato da papa Francesco? Si condanna il peccato – la guerra – ma non si vuole interrompere il dialogo con i molti “peccatori” di questo conflitto?

Papa Francesco è una delle poche personalità al mondo che sia a livello istituzionale che per sue scelte personali sta tentando di fare ciò che può. Non possiamo attribuire al Papa poteri che non può avere. Può tentare di sensibilizzare un miliardo di cattolici, peraltro non tutti praticanti. E certo non può mobilitarli come fosse una polizia politica. Ma ha un enorme potere morale e di influenza. Spero che nella Chiesa cattolica si spinga sempre di più per le trattative. Lì papa Francesco può giocare un ruolo molto importante. Non parla per i propri interessi, gli altri sì e si accusano a vicenda di essere miscredenti. Papa Francesco è tra le poche persone che non sta parlando con la testa in mano né con il cuore in mano, ma con l’umanità in mano.

(14 Mar 2022: intervista a RICCARDO PETRELLA di Simone M. Varisco, dal sito http://www.costituenteterra.it/)

JUS SCHOLAE, IL VALORE DELLE NUOVE GENERAZIONI (di GRAZIA BARONI)

   In questi giorni tremendi in cui l’umanità sembra aver perso il senso del valore di sé e della storia, c’è una luce di speranza che viene dalla Commissione Affari Costituzionali che ha finalmente accolto la proposta di legge presentata dal suo presidente, il deputato Giuseppe Brescia. Questa riconosce ai bambini e ai ragazzi stranieri, nati in Italia da genitori stranieri e residenti in Italia da più di cinque anni di acquisire il diritto di cittadinanza a condizione di avere compiuto almeno un ciclo del servizio scolastico nazionale.

   I mezzi di informazione dovrebbero non solo limitarsi a riportare questa notizia, ma darne ampio risalto sottolineandone il valore, affinché gli Italiani non ne siano solo informati ma che comprendano l’importanza di questa legge e ne prendano piena consapevolezza, comprendendone il valore civile e democratico.

   Oltre ad aprire una strada per una vita più degna e responsabile nei riguardi delle nuove generazioni di italiani e di quelle esistenti, questa proposta di legge conferisce automaticamente alla scuola un irrinunciabile ruolo: il ruolo di creare dei nuovi cittadini, di armonizzare le culture non per appiattirle o negarle o uniformarle, bensì per valorizzarle reciprocamente in un intento di obiettivo condiviso e di convivenza armoniosa.

   Si riconosce di fatto all’istituzione scolastica il ruolo di essere strumento di formazione civile, di essere l’organo preposto a informare dei principi su cui si fonda la repubblica italiana e a costruire un legame sociale, e non solo attraverso l’insegnamento della lingua, mezzo principe di trasmissione e interazione.

   Gli avvenimenti dei tempi recenti, dal cambiamento climatico, all’emergenza sanitaria, e adesso alla guerra, dovrebbero averci insegnato che quando si riconosce di aver raggiunto il limite di un certo modo di vivere, perché se ne vedono le carenze e i difetti, si deve immediatamente rinnovare il sistema.

   Un esempio chiaro è proprio il cambiamento climatico: già dagli anni 70 si erano intravisti i punti critici di un sistema basato sul consumo (“Rapporto sui limiti dello sviluppo” commissionato al MIT dal Club di Roma) ma si è continuato come se nulla fosse, giungendo alle urgenze che stiamo vivendo ora, a cui è ormai molto difficile rispondere senza drastici cambiamenti.

   Da tempo ci si è resi conto che il motore che porta allo sviluppo democratico di una società è la formazione culturale, a partire dalle istituzioni scolastiche, compresa l’università, fino alle diverse sfaccettature dei servizi culturali come teatri, cinema, biblioteche, organizzazioni artistiche, musicali e sportive, che sono tutti servizi che riguardano la cura della persona e delle relazioni sociali nella loro complessità. Questa consapevolezza, però, non si è tradotta in un indirizzo governativo. Al contrario, si sono sempre sottratti dei finanziamenti alla cultura. Se individui lo strumento fondamentale affinché la società possa svilupparsi nelle sue qualità civili e democratiche, questo deve essere messo al primo posto negli interessi nazionali, e gli si deve dedicare il supporto, anche finanziario. Confacente all’importanza del compito che è chiamato a svolgere.

   Di conseguenza, lo stato deve mettere ad un posto molto più alto nella scala dei valori non soltanto l’investimento nelle strutture fisiche delle istituzioni culturali, ma soprattutto la formazione degli insegnanti e della dirigenza che garantiscono una qualità del servizio adeguato alla sua immensa responsabilità. È necessario investire sulla formazione degli insegnanti perché il servizio scolastico per essere efficace, deve essere sempre all’altezza, se non un passo avanti, della società che si evolve, che è rappresentata dai giovani, senso stesso della scuola. Di conseguenza deve essere duttile, agile e capace di accogliere la novità.

   Attraverso le sue discipline, in particolare la lingua italiana e la storia, la scuola permette alle generazioni nuove di integrarsi con quelle precedenti dando loro gli strumenti per entrare in una società già strutturata e, senza scontri generazionali, dar loro lo spazio per rinnovarla e renderla migliore. La scuola è il luogo fisico dell’interscambio generazionale e culturale di umanità e maturità civile.

   La formazione deve essere continua; dedicare denaro e risorse ai servizi culturali. E’ sbagliato considerarla un costo, spesso e volentieri da tagliare. È un investimento che rende, in termini di sviluppo di risorse creative e in riduzione del disagio sociale. La mancanza di investimento, invece, porta all’ignoranza, all’imbarbarimento, all’abbandono scolastico, che è il reale costo della scuola, in quanto spreco. La pandemia lo ha dimostrato. La chiusura sia pure temporanea delle scuole sta mostrando i suoi effetti: in questi ultimi mesi sta emergendo il problema delle bande giovanili che, private di socialità e confronto umano, fanno delinquenza sul territorio con l’aiuto dei mezzi informatici, duttili, agili e veloci, e per questo rispondenti alla vitalità giovanile.

   La democrazia è forte perché non teme la libera scelta dei suoi destinatari: mette a disposizione tutti gli strumenti che possiede perché ciascuno possa realizzare la propria libertà. L’accoglienza e il riconoscimento di questi nuovi cittadini del nostro paese diventa quindi un punto di forza, di nuova vitalità in una società libera che non teme confronti e dibattiti e accoglie le differenze come un valore capace di renderci più forti nella nostra stessa cultura e non come una minaccia.

   Quindi il Parlamento, approvando questa legge, farà un passo nella direzione di quel processo democratico tracciato dalla nostra costituzione nei suoi principi fondamentali. Costituzione che è stata scritta per costruire un mondo di pace permanente. (GRAZIA BARONI)