La TRANSIZIONE ECOLOGICA e il G20 sull’Ambiente di Napoli del 22-23 luglio scorso: la divergenza tra Paesi ricchi, in via di sviluppo, poveri, sull’eliminazione del carbone conferma la difficoltà ad accordarsi per la salvezza del pianeta

   “Una società prospera, inclusiva, resiliente, sicura e sostenibile che non lasci indietro nessuno”: è il contenuto e il senso del lungo documento che i ministri dell’ambiente e dell’energia dei grandi Paesi della Terra, riuniti dalla Presidenza italiana del G20 a Napoli il 22 e 23 luglio 2021, hanno sottoscritto.

   Nei rilievi complessivi (il documento mette insieme temi divisivi come la transizione energetica, i cambiamenti climatici e la necessità di tenere la temperatura del Pianeta sotto il grado e mezzo) si rileva che non c’è accordo mondiale; e che i Paesi più ricchi (Usa, Unione Europea, Gran Bretagna, Canada, Giappone) magari ci credono (con qualche differenza nazionalistica interna) mentre gli altri in via di sviluppo (Cina, India, Russia, Brasile e paesi poveri africani e latino-americani, pur differenziandosi tra loro: l’aggressiva economia cinese ben diversa dai paesi africani…) hanno altre priorità (o non se lo possono permettere)

   Si riconosce il problema indiscutibilmente, ma un conto è prendere decisioni dolorose (come eliminare l’uso delle fonti fossili, imporre sacrifici e riduzioni della richiesta energetica…).

   Pertanto si sono ritrovati al G20 di Napoli paesi tra di loro molto distanti, non solo geograficamente. Alla fine, pare, che l’accordo che riunisce tutti è che sì, si procederà con il privilegiare le fonti energetiche rinnovabili, ma senza “proibire” le fonti fossili (in particolare il carbone), e che in ogni caso la scienza dovrà risolvere tutto.

   Si capisce allora che si possono avere cambiamenti effettivi solo se sono convenienti socialmente e politicamente: la sostenibilità ambientale va coniugata insieme con una sostenibilità sociale. Che lo “sviluppo verde” ci potrà essere solo se creerà più posti di lavoro di quello tradizionale inquinante, se darà ricchezza, profitti ai privati e agli Stati.

   Pensare di volere un mondo che frena il surriscaldamento e i disastri climatici, è un “vecchio” discorso che veniva fatto dagli ecologisti del Paesi ricchi già trent’anni fa (la prima Conferenza importante sull’ambiente quella di Rio del Janeiro è del 1992). A cui veniva risposto dai dirigenti dei Paesi in via di sviluppo e/o poveri: “Voi non volete che si tagli la foresta, ma voi l’avete fatto in Europa più di due secoli fa per il vostro sviluppo. Voi non volete che si inquini con combustibili fossili come carbone e petrolio, ma l’epoca di sviluppo delle materie prime carburanti fossili a nostra disposizione voi l’avete già vissuta e ne avete avuto i vantaggi…”.

   Difficile individuare, anche alla luce delle più moderne tecnologie (l’idrogeno, auto elettriche e a minor consumo, impianti produttivi più sofisticati e risparmiosi di energia…) ora o prossimamente a disposizione, modi e metodi per un “riequilibrio sociale mondiale” da far condividere ai paesi in via di sviluppo che hanno livelli di consumo ben minori dei nostri (come sono i paesi africani, i latinoamericani, ma ancora Cina e India…). Lo faranno solo se sarà loro più conveniente socialmente al posto di usare come ora fanno materie inquinanti.

   Pertanto il documento finale sottoscritto a Napoli nel G20, raccoglie tante affermazioni e idee condivise da tutti. Come pericolo del cambiamento climatico, e che la scienza deve dare risposte…. È da crederci (che si condividono queste cose): con le continue emergenze climatiche e disastri ambientali…trent’anni fa, e anche di più, erano solo previsioni (ahinoi azzeccate) di scienziati ed ecologisti non allineati al progresso buono ed illimitato. Segnali allora ed iniziative, premonitrici più che mai. Andiamo a memoria: il Club di Roma negli anni 60, poi il Rapporto Brundtland nel 1987, la campagna “nord sud” di Alexander Langer nel 1988, il Summit di Rio del 1992, il protocollo di Kyoto del 1997, le associazioni ambientaliste e verdi degli anni ‘90, i sindacalisti seringueiros brasiliani come Chico Mendes (ucciso nel 1988) a difesa della foresta amazzonica…

   Pare poi che la Cina ci creda, alla crisi ambientale (pur allineandosi solo come principio) dal fatto che in queste settimane e mesi di ripresa veloce della produzione industriale dopo il blocco per la pandemia, stia subendo continui shock energetici: cioè blackout elettrici a ripetizione sulla rete industriale e urbana delle città; perché la richiesta di energia è superiore a quanto si riesce a produrre energeticamente (cose che accadono normalmente in India, ma in Cina non erano abituati…). Pertanto figuriamoci se Cina (e India) si impegnano ad eliminare il carbone e a non inquinare….

   E poi va bene in Europa cercare di convincere la Polonia così ricca di carbone di ridurre quella fonte energetica così inquinante, ma non si dirà mai niente (crediamo) dell’energia fossile rappresentata dal gas sotterraneo naturale. Per questo la stessa Germania si è messa d’accordo con gli Stati Uniti di “poter accettare” il gasdotto russo “Nord Stream 2” così importante per il suo sviluppo industriale; nel contempo impegnandosi ad aiutare l’Ucraina ad evitare economicamente il ritorno nell’orbita russa…….. Se questo è il contesto che “tutti hanno le loro buone ragioni”, è assai difficile pretendere di più da paesi come quelli africani, poveri, in via di sviluppo, a volte li possiamo definire “emergenti”, che hanno consumi energetici pro capite molto inferiori ai nostri e che per tentare uno sviluppo possibile usano combustibili inquinanti… (nonostante siamo arrivati a un punto di non ritorno globale).

   Qualcuno di quelli ecologisti premonitori di trent’anni fa ipotizzava allora che continuando così arriveremo a un governo mondiale dove a ciascuno verrà affidata (imposta) una tessera di emissione di anidride carbonica pro-capite oltre alla quale non è possibile andare, da utilizzare come meglio si vuole, e poi nulla più. Scenari apocalittici ma non tanto. Speriamo che non si arrivi a questo, e che scelte importanti e coraggiose (anche se dolorose) vengano concretamente prese. (s.m.)

In difesa dello snobismo (di Spartaco Tilandi)

Il termine “snob” viene considerato un’abbreviazione della locuzione latina sine nobilitate («senza nobiltà»); questa abbreviazione veniva posta accanto ai nomi, nelle liste degli studenti dei collegi inglesi, per evidenziare chi era un nobile e chi non lo era.
Questo termine è oggi connotato molto negativamente perché è diventato sinonimo di arroganza verso le persone ritenute inferiori culturalmente o economicamente. In origine era semmai l’ attributo  sottilmente dispregiativo con il quale venivano designati i non nobili che avevano l’ardire di frequentare una scuola di alto livello in Inghilterra. Doveva risultare davvero strano , addirittura imbarazzante, che persone di rango sociale inferiore, osassero penetrare nel tempio della cultura che aveva il compito di selezionare le élites del Paese. Certamente si trattava di persone estremamente preparate perché la selezione era durissima, ma ammettere in quei cenacoli questi “cafoni” ( si fa per dire ) evidentemente creava qualche imbarazzo. Dettaglio divertente è che anche John Maynard Keynes fu classificato “snob” . Oggi tutti conosciamo Keynes mentre molti suoi compagni di studi discendenti da avi imparruccati sono diventati polvere, non solo fisicamente, ma anche nella nostra memoria.
Non riesco a non provare simpatia per questi soggetti che grazie alle loro qualità e alla loro volontà seppero conquistarsi un ruolo nelle élites di quel paese.
Occorre anche dire che se oggi certi atteggiamenti altezzosi  della nobiltà inglese di allora possono indispettire, è anche vero che quella classe dirigente fu in grado, sia pure con qualche mal di stomaco, di accogliere energie nuove nelle élites per rinnovarle e rinvigorirle, accettò un “ascensore sociale” anche se non sempre amava l’ “odore” di quei giovani brillanti e meritevoli ma privi di servitù che uscivano dall’ascensore stesso.
Da noi l’aristocrazia ” di sangue ” ha cessato da lungo tempo di essere élite , ma chiunque di noi viva in una città italiana ( forse con la sola eccezione di Milano ) sa bene quanto pesino i “circoli chiusi” che tengono ( o vorrebbero tenere ) in mano le leve del potere. Mi sbaglierò, ma certi mondi accettano,  sia pur a malincuore, il “villico” solo quando sono ormai con le spalle al muro ( vedere il caso degli Agnelli con Marchionne ). Al potere dei circoli chiusi sovente si oppone solo la furia iconoclasta degli asini raglianti i cui pensieri sembrano essere suggeriti dalla materia contenuta in qualche angolo di intestino anziché dalla massa celebrale.   Decrepite élites si accompagnano alle pulsioni belluine di una folla scomposta, il passo verso una decadenza irreversibile è molto breve.
Con questo non voglio dire che le scelte proposte dai “meritevoli” sono sempre giuste, ma è molto ragionevole pensare che di solito sono molto meno sbagliate.
Si sente da qualche parte criticare la meritocrazia, può questa essere una giusta preoccupazione per quelle società/comunità che hanno estremizzato questo principio, mi pare una preoccupazione per gente “sazia”, noi invece abbiamo i problemi della gente “affamata”.
È giusto preoccuparsi anche della vita delle persone che non hanno molte doti ( tutti hanno una bocca sotto il naso diceva mia nonna ), ma occorre interiorizzare il principio della serietà del comportamento che trova la sua declinazione “organizzativa” nella meritocrazia ( vista la bassa incidenza percentuale dei santi sul totale della popolazione). Tale serietà del comportamento comincia dalla serietà delle analisi poste alla base delle nostre affermazioni. Tutte le volte che “tagliamo corto” su questi aspetti “noiosi” beandoci invece del lirismo delle nostre tesi facciamo un gran bene al nostro narcisismo, ma rendiamo un pessimo servizio al nostro prossimo.

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LA CINA NON È PIÙ VICINA – Nei 100 anni del partito comunista la Cina rivendica i suoi progressi – E la élite di governo proclama un più forte neo-totalitarismo interno e la GUERRA FREDDA con gli USA – E’ la fine della VIA DELLA SETA?

   Se è vero che in questi ultimi decenni le popolazioni all’interno dell’immenso territorio cinese hanno avuto un progresso sociale notevole, e centinaia di milioni di persone sono uscite dall’estrema povertà, è pur vero che le contraddizioni dello “sviluppo” cinese esistono: e si esprimono in una comunità collettiva fatta di molteplici culture, etnie, desideri di vita, che si sono “conformate” a un modello di società che “non può” tollerare alcuna dissidenza; modello di società improntato a uno stato totalitario che per questo è aiutato anche dalla rivoluzione informatica capace di controllare uno a uno i propri sudditi.

   L’anniversario dei 100 anni di fondazione del partito comunista cinese, festeggiato il primo luglio 2021 (anche se pare che la “vera” fondazione sia stata il 23 luglio, 1921) è stato usato dal leader Xi Jinping per mettere in guardia la comunità internazionale (gli USA, ora grandi nemici, in particolare) che la Cina non si fa “metter sotto” da nessuno, e che la sua grande crescita internazionale continuerà più che mai; ed è servito, il discorso di Xi, anche a fini “interni”: per ribadire che ogni pur minima dissidenza non sarà tollerata. In nome del partito comunista, del marxismo.

   Ma di questo discorso di Xi Jinping c’è assai poco di marxismo come lo possiamo intendere noi, e tutto invece di nazionalismo. Anche se non è un puro e semplice nazionalismo come avviene in Europa: vuole ribadire il magnifico passato della civiltà cinese millenaria, il passaggio al marxismo dal 1949 con l’avvento al potere in Cina del partito comunista, e adesso il grande progetto di “prosperità comune”. Pertanto una Cina  potenza nazionale, e una Cina che non solo rivendica l’eredità maoista ma si riconosce nella continuità di una storia millenaria, un tempo criticata come feudale e oggi esaltata.

   Come dicevamo la Cina ha bisogno di modernizzare ancor di più di quanto è stato fatto il Paese, di aumentare la prosperità comune… prosperità che, a una visione superficiale potrebbe far vedere che è stata raggiunta; e invece non lo è; e anche le masse di centinaia di milioni di cinesi a reddito medio uscite dalla povertà, poco hanno a che vedere con il reddito medio che possono vantare gli europei, gli occidentali….

   La fine della campagna contro la “povertà assoluta”, proclamata in pompa magna lo scorso novembre, ha coinciso con un nuovo incremento delle disparità economiche dopo otto anni consecutivi di declino. Un discreto numero di super ricchi (4 o 5 milioni?) e centinaia di milioni di “poveri relativi”. E viene ora sancito il primo passo verso la realizzazione, nel 2035, della “prosperità comune nel suo insieme”. E questo secondo il governo cinese dovrà avvenire con la digitalizzazione dei servizi, riformando il sistema di redistribuzione del reddito, migliorando le politiche di integrazione urbano-rurale e promuovendo l’uguaglianza dei servizi pubblici (cioè sanità e istruzione in primis).

   Questo irrigidimento “autoritario” che vi è nel discorso del primo luglio del centenario del partito comunista cinese di Xi Jinping, di palese minaccia rivolta all’esterno a chi secondo lui vorrebbe fermare la corsa cinese, si denota un’affermazione da “guerra fredda” che forse non era mai stata sancita così ufficialmente come in quella solenne occasione. E vien da pensare che anche i nostri motti di entusiasmo per quella “VIA DELLA SETA” che in senso modernissimo ripercorreva il tragitto dei commerci tra Oriente ed Occidente (e a noi ricordava Marco Polo…), che quando è stata proposta è stata vista da molti come una via di pace che si esplicava con gli scambi culturali assieme al commercio, e alle nuove infrastrutture di trasporto per avvicinare i popoli….ebbene ora quel clima di scambio pacifico di qualche anno fa sembra riposto definitivamente nel cassetto. Gli eventi di una Cina autoritaria nel suo suolo, con la repressione del popolo degli Uiguri, con l’assimilazione anti libertaria di Hong Kong, con le mire di dominio sul Tibet e poi su Taiwan, con il ribadire ogni repressione a individuali dissidi interni…. Tutto questo fa vedere la Cina come un soggetto politico, un’area geopolitica, cui sì pacificamente confrontarsi, però chiedendo chiarezza nel proporre e far rispettare diritti umani dentro e fuori quel grande Paese che è.

   E’ pur vero, purtroppo, che i troppo grandi paesi come la Cina (che conta 1 miliardo e 400 milioni di persone) non si fanno tanti scrupoli nel reprimere i dissensi. Vale la pena, per questo, raccontare un episodio. Nel mai dimenticato tragico avvenimento di “PIAZZA TIENANMEN” (la stessa piazza del trionfo adesso di Xi Jingping nella commemorazione dei 100 anni del PCC del 1° luglio…), dove la protesta in quella piazza di Pechino avvenuta dal 15 aprile al 4 giugno 1989, protesta per motivi molto simili al desiderio di libertà di adesso di Hong Kong, quella protesta che si chiuse il 4 giugno con il massacro di 2.600 studenti da parte dell’esercito cinese (i dati del massacro sono della Croce Rossa), ebbene in quell’occasione il leader cinese di allora Deng Tsiao Ping, disse che se anche i giovani che protestavano fossero stati 10 mila (erano probabilmente di meno), nel rapporto tra popolazione cinese di allora di 1 miliardo, sarebbe stata un’opposizione al governo di un centomillesimo della popolazione, una minoranza di opposizione neanche da prendere in considerazione…. discorso terribile che esclude ogni libertà di opporsi formulata “sui numeri” statistici degli oppositori…..

   E allora, che atteggiamento avere con la Cina, in una reciproca collaborazione economica e politica di pacificazione di cui il mondo ha estremo bisogno? Se, in questo contesto, ogni libertà individuale, nei Paesi autoritari, ogni dissenso non vale niente?…. Il punto è che non si può lasciar correre, far finta di niente: ci dev’essere un megafono internazionale, che l’informazione ne parli; e gli Stati, le entità sullo scenario mondiale (come dovrebbe e deve essere l’Unione Europea), devono porre paletti e condizioni di rispetto dei diritti umani nel rapporto con Stati che praticano illibertà e repressioni al loro interno. (s.m.)

(PARLIAMO DI DEMOCRAZIA DIRETTA) – INSIEME: TRE PASSI AVANTI E DUE INDIETRO (di Mario Fadda)

– Dopo la partecipazione al congresso di lancio di “insieme”, propongo alla Vostra attenzione questa mia riflessione (Mario Fadda) –

   In due giorni di dialogo e confronto, il percorso di “insieme” (www.politicainsieme.com) ha avuto un impulso di idee e un perfezionamento della forma organizzata.

   La nuova realtà culturale e politica si sta consolidando ed è giunta alla sua prima espressione congressuale di formazione anche di un partito, dotato di adeguati organi istituzionali, con un carattere non usuale, nella forma che si riconduce alle idee base dichiarate, orientate a valorizzare prevalentemente il lavoro in comunità, piuttosto che affidarsi a servizi garantiti individualmente.   Infatti, uno dei nodi affrontati, con scelte espresse alla fine dei lavori, ha fatto prevalere l’idea di una struttura mai personalizzata su cariche individuali (per esempio: il segretario di partito), ma risolta con gruppi di lavoro.

   Questo costituisce certamente un primo passo avanti rispetto alle strutture tradizionali di partiti, fondati sulla cultura della delega a essere rappresentati, dove troppo spesso tale orientamento si esaurisce in un capovolgimento del rapporto tra elettore e sua rappresentanza politica, dove il primo da persona che sceglie diventa supporto della volontà del rappresentante, sicché all’elettore, in caso di dissenso, non resta che la possibilità di cambiare partito o, come ormai accade diffusamente, lasciar perdere con la “politica”, con gli esiti disastrosi che viviamo da più di un ventennio.

   L’espressione di una proposta, delineata in diversi interventi, che si radica in tre posizioni da considerare i caposaldi di una articolazione politica permanente, ha proposto di passare dall’attuale schema duale tra società e strutture di governo (ormai ridotto a dialettica tra chi nella società esprime il maggior potere – cioè i vertici del mondo economico – e il partito di maggioranza) evolva in uno schema più ampio, dove un terzo soggetto è chiamato a interagire, attraverso le molte strutture che concorrono a determinarne il campo: il “terzo settore”.

   E’ un’idea che ha una certa storia – dovrei tornare a Giovanni Gozio e all’Ispes – che non è il caso qui di riprendere, ma che mi consente di cercare di risolvere almeno un equivoco che si è determinato sul concetto di democrazia diretta.

   Il termine è stato strumentalizzato da chi ha usato la parola “diretta” gridandola dal palco con il rombo dell’altoparlante, su una folla di scontenti, disposti però a diventare gregge elettorale.

   Brutta cosa la strumentalizzazione, come avvenne già una volta nella breve storia d’Italia (mi tocca tornare indietro di un secolo) dove il simbolo dello “stare insieme” dei contadini siciliani fu strumentalizzato da chi lo assunse a insegna di potere di una nuova oligarchia, aggiungendo al “fascio” dei siciliani l’aggettivo “littorio”.

   L’idea di “democrazia diretta” appare nei dialoghi promossi da chi lavorava a nuove prospettive culturali e politiche, nel pieno dei tentativi di rinnovamento avviati in quella ricca, controversa, talvolta drammatica fase che ebbe inizio con la grande stagione – tra la fine degli anni ’50 e il decennio successivo – fase di rinnovamento dei contratti di lavoro dell’“autunno caldo”, della “contestazione giovanile”, contrappuntata dal dramma del terrorismo.

   Era un’idea supportata dal diffondersi di nuovi strumenti di comunicazione, in quel tempo innovativi e oggi in fase più avanzata, seppure tecnologicamente ancora molto evolutiva.

   Nel clima di confusione, dove la politica fondata sul principio della rappresentanza evolveva verso forme sempre più clientelari, nel tramonto delle ormai superate ideologie guida su cui si erano fondati i partiti di governo e di opposizione nati dal processo di liberazione dal fascismo; l’idea di democrazia diretta, dunque, degenerò.

   La strumentalizzazione dell’idea di democrazia diretta si ammantò di parvenze culturali attraverso l’azione di chi concepì l’idea di un affiancamento dell’azione di diffusione delle idee (il palco!) con una strumentazione di tipo imprenditoriale, dove la necessaria elaborazione delle idee e delle proposte si confondevano in una struttura supportata da varie forme di finanziamento pubblico e privato, illusoriamente definita autofinanziamento.

   Su tali equivoci, la riproposta oggi della democrazia rappresentativa come soluzione, in una fase dove il ruolo delle impostazioni ideologiche è ampiamente superata, né sostituibile da un richiamo a “valori” che necessitano di ampia diffusione culturale e un nuovo radicamento in sistemi organizzati, oggi tutti da ripensare, appare decisamente fuori dalla storia: occorre passare a una democrazia partecipata con il migliore utilizzo di strumenti di comunicazione che stanno cambiando radicalmente la relazione tra conoscenza/decisione/azione e costituendo una sorta di barriera intergenerazionale, avendo rapidamente determinato nuove modalità di comprensione e partecipazione, molto esplicite nei comportamenti della generazione più giovane, a cui però viene fornito solo un sovrabbondante prodotto commerciale di intrattenimento e orientamento al consumo.

   Tutto ciò indica possibili percorsi da strutturare in maniera adeguata, a sostegno di una nuova fertilità nell’esprimere idee, in attività di formazione che non si risolvano in “scuole” con qualche esibizione del “noto politico” di turno, ma nello scegliere e formare operatori che non siano dei “rappresentanti” adibiti alla contrattazione tra fazioni, ma degli attuatori di programmi fondati sull’idea che su “quanto ci unisce si governa e su quanto ci divide si continua a ricercare e discutere” (questa frase ha una lunga storia, da Felice Balbo a Ernesto Baroni, nel percorso verso una democrazia diretta!) sostenendo permanentemente gruppi e sedi di ricerca e formazione.

   Qui si pone una terza questione (che nell’incontro di Roma è apparsa appena delineata, ma già con radici in iniziative che localmente si stanno esprimendo); è il tema dello sviluppo di una cultura del “fare politica” non solo delineata al fine di formare possibili nuove masse elettorali, ma persone capaci di aderire a logiche di partecipazione, quindi di servizio.

   Si può dire che comincia a delinearsi un orizzonte dove appare sempre più definita una forma di democrazia partecipata che emargina la figura del “politico-leader”, con percorsi che non si chiudono su modesti esiti misurati in percentuali di successo elettorale, ma che concepisce la politica come dialogo, confronto, crescita della capacità di scelta e decisione, con tre pilastri istituzionalizzati, nel mondo economico, nei partiti, nel terzo settore, capaci di coinvolgere non solo nel consenso, ampie parti della società.

   Due punti critici, che possono diventare negativi.

   L’idea di essere già anche un partito si sta riducendo a un percorso che a me pare troppo ripido e in discesa, una discesa di valore e una calata di capacità di coinvolgimento.

   Nel dibattito è apparso molto chiaro che, in una parte dei partecipanti, l’avvio di un partito è visto come vero e unico progresso verso una forma più concreta di presenza nel confronto tra le forze in gioco, significando così la riduzione della politica a percorso dialettico ed elettorale e con ciò ripetendo l’errore commesso dal mondo cattolico, che nella sua parte più istituzionale, per meglio qualificarsi, impose l’aggettivo “cristiana” alla nuova via della democrazia.

   Con il rischio – direi la certezza – di diventare l’ennesimo piccolo partitino, ben che vada destinato a contrattare una presenza parlamentare utile solo come punto di osservazione, peraltro altrettanto ben realizzabile stando fuori dalle Aule.

   Punto negativo che mi è parso altrettanto chiaro nel breve riferimento alla vera dimensione politica – quella europea – significativa nell’ipotesi di saper contribuire a modificare la pericolosa rotta politica mondiale, oggi totalmente percorsa senza una bussola alternativa a quella usata dai poteri economico-finanziari.

   Il cenno all’Europa è stato svolto come idea di inserimento nello schieramento del PPE: con quale ruolo, mi chiedo, se non essere l’ennesima piccola frazione destinata solo a collocare qualche occhio osservatore, con compito di alzare la mano a comando?

   Andremo in Europa e nel mondo, se “insieme” sapremo cogliere quanto di politico c’è nelle esigenze e nei desideri di tanti (ecco dove ci sono anche tante nuove forze di generazione più giovane!).

   Il terzo settore è la miniera che può alimentare una macchina che potrà percorre un lungo itinerario, a patto che la politica ritorni a essere confronto, discussione, capacità di scelta e di indirizzo, con il partito come strumento per una parte importante, ma non unica, di espressione di presenza storica.

   Tre a due: si progredisce anche così, anche se tutti ci auguriamo di accelerare l’andatura, superando metodi vecchi di confronto, come il voto su mozioni! (MARIO FADDA)