ANDREA CANEVARO: un grande esempio di come aiutare senza imporre (MARIO FADDA)

ANDREA CANEVARO

ADDIO AD ANDREA CANEVARO, IL PEDAGOGISTA CHE CI HA INSEGNATO IL VALORE DELL’INCLUSIONE

(da “Corriere Romagna” del 26/5/2022)

   Andrea Canevaro ci ha lasciato. Il celebre pedagogista, padre fondatore dell’integrazione scolastica in Italia, maestro della pedagogia speciale, professore emerito dell’Università di Bologna e studioso di prestigio internazionale, è morto il 26 maggio scorso dopo una breve malattia all’ospedale di Ravenna. Era nato a Genova nel 1939. (…) Da otto anni viveva a Mensa Matelica, in provincia di Ravenna. Fino agli ultimi giorni la sua fervida mente era al lavoro per nuovi studi e nuove pubblicazioni.

   Canevaro ha cresciuto più generazioni di insegnanti, pedagogisti ed educatori. Tra le sue numerosissime opere ricordiamo Il ragazzo selvaggio. Handicap, identità, educazione (EDB Editore, 2017) e Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura (Bologna, EDB Editore, 2015), ma anche Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la logica del domino (Trento, Erickson, 2008), e Handicap e scuola. Manuale per l’integrazione scolastica (Roma, Carocci, 1983). Senza dimenticare la pietra miliare Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap (Milano, Bruno Mondadori, 1999), solo per citarne alcune. (…)

   Una fetta importante del suo lavoro si è sviluppata all’estero, dal Salvador alla Bosnia alla Tunisia.

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È morto ANDREA CANEVARO, noto pedagogista, ed io ho avuto la fortuna di frequentarlo nel suo periodo giovanile genovese (MARIO FADDA)

PER ANDREA

   Il distacco dal tempo di qualche amico induce, in quanti vi restano, ricordi e riflessione: in questo momento, chi mi aiuta a farlo è il passaggio fuori del tempo di Andrea Canevaro, del quale rimpiango solo la mancanza, da troppi anni, di occasioni di incontro.

   Per cui riparto dall’inizio, da quegli ultimi periodi del decennio del trambusto, che ci vide impegnati nel cambiamento epocale che si avviò e che ci fece incontrare, tra un doposcuola nei quartieri fuori del porto di Genova, lui impegnato nella Comunità del Molo, io attivo in Valpolcevera, dove iniziava la grande crisi di trasformazione economica e politica di Genova.

   Forse il suo trascorso, allora ancora recente, a La Tourette, gli rese più accettabile reggere da correlatore la mia tesi di architetto, peraltro ben discussa con lui, pedagogo, volendo guardare a fondo nel rapporto tra quanto il cervello esprime nel “progetto” e quanto la pratica consente di attuare nel “processo” di realizzazione: e qui lui, pedagogista, mi procurò la lode!

   Poi il trasferimento in Emilia, con il suo crescente impegno a Bologna, mentre Emanuela intensificava, a Reggio Emilia, le sue attività con John Jervis e quindi la poca sincronia con le mie nuove attività di cooperazione, hanno divaricato percorsi, che hanno trovato solo dopo tanto tempo, qualche coincidenza in don Benzi, ma ancora senza incontri personali.

   Pazienza: ci ritroveremo fuori del tempo! Per ora, grazie, Andrea, di essere durato oltre ottant’anni, buon esempio di quanto si può continuare a fare, per tutti noi che pratichiamo quei percorsi utilizzando il più grande capitale di cui disponiamo: il tempo! (MARIO FADDA)

COME DARE DIGNITÀ AL LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE (di Leonardo Becchetti)

Leonardo Becchetti, da LA VOCE.INFO del 24/5/2022 https://www.lavoce.info/

– La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a globali ha avuto effetti molto diversi lungo la “scala delle competenze”. La risposta è creare le condizioni per lo sviluppo della società civile e del mondo delle imprese –

Il fenomeno

Le patologie del mercato del lavoro italiano sono tante e non si limitano al fenomeno della disoccupazione.  Ci sono i lavoratori poveri, che un tempo erano un ossimoro perché avere un posto di lavoro equivaleva a disporre delle risorse economiche necessarie per sfuggire alla trappola della povertà. Abbiamo un numero molto elevato di part time involontari, ovvero persone che fanno lavoretti e lavorano molto meno di quanto vorrebbero. Ci sono gli scoraggiati che risultato statisticamente come non partecipanti al mercato del lavoro e sfuggono dunque alla stima ufficiale della disoccupazione.

   Ma il fenomeno per certi versi più paradossale è quello del mismatch, ovvero della contemporanea presenza di posti di lavoro vacanti (se ne stimano varie centinaia di migliaia a seconda delle diverse metodologie utilizzate) e di giovani che non lavorano né studiano, in Italia quasi 3 milioni, la quota più elevata sul totale della popolazione di quella fascia di età tra i paesi Ue.

Le cause

Per capire come curare questi mali bisogna risalire alla loro causa. Un meccanismo certamente in azione è quello della race-to-the-bottom nell’economia globalmente integrata, per il quale le aziende cercano di localizzare la produzione laddove possono minimizzare i costi di produzione (lavoro, ambiente, fisco) per realizzare il massimo profitto.

   La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a mondiali nella globalizzazione ha prodotto effetti molto differenziati lungo la “scala delle competenze”. Le persone con alte competenze (fino ad arrivare alle superstar) hanno tratto beneficio dall’allargamento del mercato del prodotto e, essendo scarsamente sostituibili, hanno visto aumentare le loro remunerazioni.

   Al contrario, le persone con basse competenze e altamente sindacalizzate dei paesi ad alto reddito hanno perso potere contrattuale nella concorrenza, diretta o indiretta, con un “esercito di riserva” di lavoratori a bassa qualifica provenienti da paesi poveri con salari di riserva molto più bassi. I lavoratori a bassa qualifica sono altamente sostituibili e dunque per definizione (nonostante la presenza dei sindacati nazionali) hanno meno potere contrattuale in un mondo dove le aziende hanno a disposizione l’opzione della delocalizzazione.

   La storia della Gnk di Campi Bisenzio, un’azienda in utile che chiude lo stabilimento in Italia licenziando più di 300 dipendenti per riaprire in Slovacchia dove il costo del lavoro è più basso, è l’esempio che spiega meglio queste dinamiche di fondo.

   È evidente, pertanto, che la race-to-the-bottom è un meccanismo che genera e amplifica diseguaglianze di reddito per qualifica, che a loro volta aumentano i divari interni nello stesso momento in cui la delocalizzazione riduce invece quelli tra paesi ad alto e basso reddito, per effetto della convergenza condizionata e dell’aumento della produzione e della domanda di lavoro laddove si delocalizza.

Le soluzioni

La risposta ai problemi che tutto questo comporta nel nostro mercato del lavoro è di due tipi: personale e politica. Quella personale, non dobbiamo stancarci di ripeterlo ai nostri giovani, è risalire la scala delle competenze per evitare di essere risucchiati nella corsa al ribasso del lavoro a bassa qualifica. Da questo punto di vista, è fondamentale, nel periodo della scuola, l’emersione di un desiderio, un pallino, una vocazione che crei nei ragazzi la volontà per affrontare la fatica di risalire la scala del talento.

   La risposta politica si gioca su diversi piani, ma deve partire dal presupposto che difendere la dignità del lavoro in un solo paese quando le aziende hanno l’opportunità di delocalizzare può paradossalmente aumentare il vantaggio della delocalizzazione, con effetti indesiderati. È più facile intervenire con misure dirette di tutela e garanzie in settori meno esposti alla concorrenza internazionale e alla minaccia di delocalizzazione (ad esempio i riders e la logistica) stabilendo che chi vuol ricorrervi nell’Unione europea deve rispettare alcune regole.

   In un sistema economico dove vige la centralità dei consumi il voto col portafoglio privato e pubblico può dare un contributo importante. Le scelte di consumo possono e dovrebbero essere orientate, a parità di altri fattori, verso imprese a maggiore qualità e dignità di lavoro. Il settore pubblico – i cui acquisti rappresentano circa il 20 per cento dei consumi – dovrebbe dare l’esempio estendendo l’utilizzo dei criteri minimi sociali e ambientali a tutti i settori, fino a muovere verso una concezione di “appalto generativo” dove la scelta massimizza gli effetti sociali e ambientali.

   Con la strategia FitFor55 l’Unione europea ha introdotto il concetto importantissimo del Border Adjustment Mechanism per prevenire forme di dumping di imprese che delocalizzano per andare a produrre in paesi che hanno standard ambientali al di sotto dei nostri, esportando poi a prezzi più bassi nell’Ue. Il meccanismo, in via di studio, dovrebbe prevedere una tassa d’ingresso che dovrebbe colmare il gap ed evitare che l’area mondiale che vuole essere leader in materia di sostenibilità sociale e ambientale ne debba paradossalmente pagare le conseguenze.

   La destinazione di parte delle risorse raccolte a fondi per finanziare investimenti nella transizione nei paesi terzi dovrebbe vincere le loro opposizioni e resistenze alla nuova politica comunitaria. È assolutamente necessario estendere questo approccio alla dimensione del mondo del lavoro, anche se è tecnicamente più complesso rispetto al caso della sostenibilità ambientale, dove indicatori e parametri (emissioni di CO2, water footprint, qualità dell’aria) sono comuni. Utilizzando le parità di potere d’acquisto e tenendo conto dei diversi contesti nazionali, sarebbe però possibile identificare i parametri da applicare a ciascun paese.

   In un mondo dove la creazione e distruzione di posti di lavoro dettata dall’ascesa e dal declino di interi settori è sempre più frequente, la connessione tra formazione e lavoro è altresì fondamentale. Si pensi all’esempio della messa al bando dei motori a scoppio prevista entro il prossimo decennio che farà perdere decine di migliaia di posti di lavoro nell’indotto della componentistica creandone altrettanti nel settore della transizione ecologica e dell’auto elettrica.

   Formazione permanente, diritto alla formazione dei lavoratori e percorsi di qualificazione e riqualificazione agili e flessibili diventano fondamentali, assieme allo sviluppo degli istituti tecnici superiori – il terziario professionale non universitario – dove la collaborazione tra scuola e impresa crea un canale diretto tra i due mondi.

   La logica dell’economia civile suggerisce che l’approccio da seguire su queste partite non è mai quello di sforzarsi di risolvere tutto con la mano pubblica, quanto di creare le condizioni per mettere in moto le ricchissime energie della società civile e del mondo delle imprese. Guardando a quelle buone pratiche ed eccellenze che già oggi, sul campo, fanno un lavoro egregio nell’affrontare il problema della formazione-lavoro sui nostri territori. (Leonardo Becchetti, da LA VOCE.INFO)

GIANPIER ci ha lasciato, e come spesso accade, troppo presto. Sarà da mettere assieme (e fare tesoro) dei ricordi di chi lo ha conosciuto, della sua complessità nelle molte attività che si dedicava

GIANPIER NICOLETTI (da Istresco)

LUTTO NEL MONDO DELLA CULTURA: È MORTO NELLA NOTTE GIANPIER NICOLETTI. IL RICORDO DELL’ISTRESCO

VENERDÌ, 20 MAGGIO 2022 (da https://www.qdpnews.it/)

   Lutto nel mondo della cultura e dell’insegnamento trevigiani e non solo. Nella notte si è spento all’età di 64 anni Gianpier Nicoletti, di Castello di Godego, storico, a lungo insegnante di Lettere al Liceo Giorgione di Castelfranco Veneto e per sette anni docente comandato all’Istresco (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, associazione di promozione sociale che a luglio festeggerà i 30 anni dalla fondazione).

   Proprio l’Istresco, questa mattina, ha voluto ricordare il suo docente con un lungo post su Facebook a firma del presidente Amerigo Manesso: “L’istituto di Treviso piange la scomparsa di Gianpier Nicoletti, per sette anni docente comandato e in pensione dal 1° settembre scorso. Come accade in realtà piccole come la nostra, l’Istresco era diventato la sua casa, il luogo dei suoi pensieri e lo spazio dove spendeva tutto il suo tempo, anche quello che uno dovrebbe riservare a se stesso”.

   Manesso e tutto l’Istresco ricordano anche l’episodio che ha fatto precipitare le condizioni di salute di Nicoletti: “L’11 aprile, durante una escursione ciclistica in Valbrenta, è stato colto da arresto cardiaco e le sue condizioni sono apparse subito molto gravi”. Il giorno seguente, Nicoletti era atteso come ospite alla rassegna culturale “I Martedì in Villa” a Trevignano per approfondire le cause del conflitto russo-ucraino.

   “Questa notte, alle 3.30 – prosegue l’Istresco – probabilmente per un ulteriore infarto, ci ha lasciati. Continueremo ad essere vicini alla moglie Lina e al figlio Max e faremo in modo che sia dato il giusto riconoscimento al suo valore di storico attento alla contemporaneità, di uomo della scuola e di persona dalla straordinaria leggerezza, sempre sorridente e disponibile”.

   Numerosi i messaggi di cordoglio già arrivati alla famiglia e all’Istresco.

(Foto: Facebook Istresco).
#Qdpnews.it

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https://nuovoconfronto.wordpress.com/

GIANPIER NICOLETTI ci ha lasciato, stanotte, dopo più di un mese di agonia dovuta ad un infarto (il 12 aprile scorso).

   Insegante di Lettere di Liceo, e negli ultimi sette anni nell’Istresco -Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea-, studioso, storico, impegnato in gruppi di “persona e comunità”, attivo europeista nel MFE -Movimento Federalista Europeo-…… 

   Almeno per ora non siamo in grado di elencare compiutamente, e fare sintesi, delle sue molteplici attività e dei suoi variegati interessi. Per questo, qui, per ora, ci limitiamo a riportare un articolo che aveva scritto due anni fa su questo blog, sul 25 aprile (solo per ricordarlo con una Sua scrittura). Inutile dire quanto Gianpier ci mancherà….. (s.m.)


25 APRILE. METAMORFOSI DI UNA CELEBRAZIONE

di Gianpier Nicoletti, 28 aprile 2020

   25 aprile 1945. Da quella data ci separano 75 anni, tre generazioni, e oramai ben pochi dei protagonisti di quei giorni, di quei 20 mesi di lotta resistenziale, sono ancora fra noi e quei pochi sono molto in là con l’età.

   Fra non molto non avremo più i testimoni viventi di quei fatti, anche se – per fortuna – la tecnologia ci aiuterà con registrazioni audio e video, filmati, immagini. Ma non sarà la stessa cosa. Sappiamo bene quale effetto pregnante possano avere sugli studenti le parole vive di un testimone diretto di fatti ed eventi storici.
   Di quel 25 aprile ci restano le immagini: un giorno di festa, con tutti (o quasi) nelle strade e nelle piazze ad accogliere i partigiani che scendevano dalle montagne o confluivano dalla pianura e gli alleati che arrivavano. Tutti sorridono, tutti sono contenti. Non possiamo sapere cosa passava per la testa di quegli italiani che erano nelle strade. Credo però che chi aveva attivamente partecipato alla lotta partigiana (sia pur con ruoli diversi: combattenti, staffette, patrioti, collaboratori, ecc.), ma anche chi era rimasto guardingo ad attendere gli eventi e, forse, anche molti di coloro che solo qualche mese prima si sarebbero dichiarati fascisti, fossero lì a festeggiare.
   Nelle immagini che ritraggono i partigiani in posa leggiamo sui loro visi atteggiamenti di composta sicurezza, di dignità, sguardi che guardano avanti. Sono i segnali che in quel momento si sta percependo che qualcosa di nuovo sta per iniziare: il 25 aprile è una data fondativa. Forse veramente per la prima volta il popolo (la gente, le masse, le folle, non ho un termine giusto per dirlo) ha conquistato la piazza sua sponte e non perché lo hanno convocato le istituzioni e il potere (vedi le “adunate oceaniche” del ventennio). In quei luoghi la gente voleva esserci perché da lì ripartiva qualcosa di nuovo.
   Certo i problemi rimanevano: le macerie e le distruzioni, i morti, i prigionieri di guerra che tornavano (e non tutti), la borsa nera, l’inflazione, la disoccupazione, ecc. Già il giorno dopo la Liberazione occorreva fare i conti con la dura realtà.
   Anche le disillusioni furono cocenti. Durante la Resistenza le aspettative erano molto diverse e ogni gruppo politico si aspettava un’Italia che era diversa da quella degli altri. Una qualche sintesi la si trovò, grazie all’opera dell’Assemblea costituente, ma le differenze rimasero, sia pur all’interno di un quadro condiviso (l’ambito di quello che si chiamerà l’”Arco costituzionale”). Inoltre le forze della conservazione non erano sparite: le strutture burocratiche, le gerarchie militari, la grande finanza e la grande industria… (oggi li chiameremmo “i poteri forti”) ben prima che la guerra finisse (almeno dal 25 luglio ’43) erano all’opera affinché la crisi del fascismo non si trasformasse in una rivoluzione politica e sociale. E, occorre dirlo, ci sono in parte riuscite.
   Sergio Luzzato, 15 anni fa (ne La crisi dell’antifascismo, Einaudi) parlava, a ragione, di una crisi del 25 aprile, visto lo svuotamento di significato del termine antifascismo (a cui si correlava un analogo processo che investiva il termine fascismo). Pertanto la festa della Liberazione era sempre meno sentita e sempre più lontana dalla sensibilità di molta parte della popolazione. Negli ultimi anni le cose sono mutate e l’evento 25 aprile, forse proprio perché sono venuti meno i protagonisti e i reduci di quella stagione, sempre più viene vissuto come scelta.

   Ovvero chi scendeva in piazza – almeno fino all’anno scorso o quest’anno ha partecipato agli eventi on line – lo faceva e lo ha fatto in ragione di una scelta, decidendo che esserci ha un significato forte e pregnante. Questa scelta non deriva da un puro e semplice retroterra culturale e politico: ho studiato cos’era il fascismo e quindi scelgo l’antifascismo! Oppure sono di sinistra e quindi vado alla manifestazione! Nasce piuttosto dalla necessità di definire un noi. Come dicevamo, le date proposte dalle istituzioni si sono fortemente indebolite; a rendere meno chiara la situazione c’è stata anche la proliferazione delle giornate in cui si ricorda qualcosa (Giovanni De Luna le elenca – ma forse c’è ancora da aggiungere qualcosa – in La Repubblica del dolore, Feltrinelli), tutti eventi e situazioni degni certamente di memoria, ma, come si sa, l’inflazione di memorie disgrega la memoria piuttosto che rafforzarla.

   Poi, per quanto riguarda il 25 aprile, c’è il tentativo sempre riproposto di stingere, di annacquare: basta con “Bella ciao”, via le bandiere delle associazioni partigiane, mettiamoci anche il ricordo dei morti da Covid-19, ecc. ecc.
   Tutte le istituzioni cercano di presidiare la memoria, ad esempio, lo Stato italiano lo faceva con alcune ricorrenze, quali il 4 novembre e il 2 giugno. Ma si tratta spesso di momenti in cui le istituzioni mettono in mostra se stesse: le forze armate sfilano, i politici si mostrano dalla tribuna e il popolo è chiamato a fare da spettatore, ad applaudire e a sventolare bandierine.

   Non è così con il 25 aprile. Certo c’è lo Stato, i discorsi ufficiali, le uscite del Presidente e del Premier (non sempre), i sindaci con il tricolore (non tutti), ma c’è soprattutto la gente: è festa di popolo, com’era stato nell’aprile del ’45. I reduci, ormai ridotti a pochissimi, sono stati sostituiti dai giovani e molti che non sono né giovani né vecchi sono tornati nelle piazze (oggi 25 aprile 2020 sono sulle dirette streaming e Facebook).

   Questo 25 aprile ha visto l’impegno di partiti (non tutti), sindacati, associazioni culturali e di volontariato, istituti storici ecc. che hanno prodotto un’infinità di video, di interventi, di dibattiti. Sta forse rivivendo lo stesso clima, che possiamo immaginare abbia caratterizzato quella giornata del 1945, ovvero un momento che produce e rafforza un “noi” in cui identificarci.
   Chi “noi”? Certo gli antifascisti, ma anche molte altre cose che possiamo essere. Proprio per questo suo contenere tante altre cose il 25 aprile è ancora vivo. Cosa contiene? La Costituzione, la democrazia, i diritti, l’accoglienza e l’inclusione, ma anche la difesa dell’ambiente, il diritto alla bellezza, del diritto di poter respirare aria pura e mangiare cibo… E oggi, con più forza, il diritto ad avere servizi sociali efficienti e per tutti (scuola e sanità soprattutto). “Noi” siamo quelli che credono in questi valori-pratiche-prospettive.
   Tuttavia, perché il 25 aprile possa vivere ancora a lungo, occorre anche costruire delle narrazioni. Ogni società, ogni civiltà ha le sue narrazioni. I Greci avevano l’Iliade e gli Ebrei l’Antico Testamento; l’800 italiano ha avuto I promessi sposi.

   Ognuna di queste narrazioni tratta di un evento ritenuto fondamentale e che fa da spartiacque (la guerra di Troia, il rapporto di Jhavè con il suo popolo, una storia di normale sopraffazione nel caso del romanzo di Manzoni), un evento che segna un passaggio, un prima e un dopo, e che identifica appunto un “noi” (i greci, gli ebrei, gli italiani risorgimentali). Queste narrazioni hanno la capacità di saldare assieme il passato e il futuro, con la mediazione del presente.

   La narrazione serve per stabilire un inizio e una prospettiva. C’è stato un tempo in cui le vicende della guerra tra Greci e Troiani erano racconto di testimoni, poi sono diventate narrazioni e infine un testo che racchiudeva e definiva delle radici comuni.
   Anche per la Resistenza c’è stato un tempo della testimonianza, ma per ragioni biologiche questa stagione sta finendo. Occorre pertanto utilizzare altri strumenti per far continuare a vivere il 25 aprile. Possiamo riferirci, come esempio, alla canzone “Bella ciao” per capire la forza che può avere una narrazione. Oggi questa canzone è cantata in tutto il mondo: perché questo successo? Certo è una bella canzone, ma soprattutto racconta una storia di amore e morte. La canzone simbolo della Resistenza (lasciamo da parte il fatto che questo accostamento sia posteriore alla Resistenza e che i partigiani durante la Resistenza non l’hanno mai cantata) non parla di imprese belliche, non parla nemmeno dei nemici; per certi versi abbassa la vicenda resistenziale ad un ambito individuale e personale.

   Tutto ciò però crea un’aura particolare che crea forte condivisione ed empatia. Di questo abbiamo bisogno, di parlare con le emozioni, per coinvolgere anche chi quegli eventi, se va bene, li ha sentiti nominare solo a scuola, non avendo una generazione più grande in grado di raccontarglieli.

   Allora, per scendere in piazza oggi, quali sono le nostre bandiere? A mia opinione sono tre.
   Quella italiana, perché comunque facciamo parte di una comunità di destino sancita soprattutto dai grandi drammi, più che dalla retorica talvolta utilizzata. Gli italiani si ritrovano uniti soprattutto quando c’è qualcosa da salvare: dopo Caporetto, nella ritirata di Russia, a seguito dell’8 settembre, nei drammi dovuti ad eventi catastrofici e, da ultimo, all’epidemia da Coronavirus. Nel bene e nel male apparteniamo a questo sentire comune, nazionale (che è importante non lasciare alla retorica nazionalista e sovranista).
   La seconda bandiera è quella dell’Europa. Se l’Italia ha il 25 aprile, tutti i paesi europei, che hanno subito l’occupazione nazifascista, hanno i loro 25 aprile. La lotta e la resistenza contro i nazifascisti sono state un evento europeo. Su ciò si fonda il tentativo di costruire una casa più grande, quella europea, che come primo obbiettivo si diede quello di realizzare la pace.
   La terza bandiera è, appunto, quella della pace. É una bandiera che travalica i confini e i continenti. Attorno al valore della pace ci possono stare tutti e tutti possono vivere nella pace.


   Ho scritto queste considerazioni stimolato dall’essere stato coinvolto, attraverso l’Istituto storico della Resistenza, per cui lavoro, in molte attività realizzate in vista e durante questo 25 aprile 2020.
25 aprile 2020

Gianpier Nicoletti

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Gli interventi su NuovoConfronto di Gianpier in questo link:

https://nuovoconfronto.wordpress.com/author/gianpiernicoletti/

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Gianpier Nicoletti

IL NUCLEO FEDERALE CHE SERVE ALLA UE, ALL’EUROPA (di Alessandro De Nicola, da “La Stampa” del 11/5/2022)

   L’aggressione russa all’Ucraina ha certamente creato un sussulto di consapevolezza all’interno dell’Unione Europea, ancor maggiore di quanto non avessero fatto la Brexit e la pandemia. La politica estera, quella di difesa e dell’energia non sembrano più gestibili efficacemente se non in un contesto europeo. Il Recovery fund è già stato un grande passo in avanti in tema di bilancio e di gestione in comune delle risorse, ma i carri armati di Putin hanno sicuramente scosso coscienze e intelligenze.

   Enrico Letta ha parlato di “Confederazione Europea” per offrire una specie di associazione ai paesi in lista di attesa per entrare nella Ue. Mario Draghi al Parlamento Europeo ha invece ammonito che «le istituzioni europee (…) sono inadeguate per la realtà che ci si manifesta oggi» e che «il quadro geopolitico è in rapida e profonda trasformazione. Dobbiamo muoverci con la massima celerità».

   Infine, Macron sempre da Strasburgo ha lanciato la proposta di una Comunità Politica Europea per soddisfare le legittime aspirazioni di quelle nazioni che vogliono essere ammesse nell’Unione ma il cui iter potrebbe durare anni se non decenni(!). Questa Comunità Politica sarebbe aperta pure a chi ha abbandonato la Ue (Londra) e dovrebbe creare delle regole di cooperazione in settori come «energia, trasporto, infrastrutture, investimenti e la libera circolazione delle persone, specialmente i giovani».

   Bene: a questo afflato inclusivo di chi è ancora fuori, si aggiunge altresì il desiderio di un’unione più stretta di quegli stati che condividono valori comuni e federalismo: una specie di nocciolo duro che assomigli agli Stati Uniti d’Europa che erano negli auspici dei Padri Fondatori della Comunità.

   Andiamo con ordine. L’Unione Europea è oggi una creatura proteiforme. Ci sono in primis i 27 Stati membri, ma al loro interno c’è già una prima divisione tra i 19 che hanno adottato l’Euro e gli altri 8, tra cui la Danimarca che ha un regime cosiddetto di “opt out”, un’esclusione permanente. Sempre tra i 27 ci sono le nazioni che aderiscono al Trattato di Schengen (libertà di movimento delle persone) e chi ne sta fuori (Danimarca, Irlanda, Cipro…); stesso dicasi per la cooperazione in materia di sicurezza interna e giustizia (sono fuori Danimarca e Irlanda).

   I Trattati prevedono poi delle aree di “cooperazione rafforzata” attivabili se almeno nove stati membri ne facciano richiesta e purché sia diretta a rafforzare il processo di integrazione, promuovere la realizzazione degli obiettivi dell’Ue e non ostacoli il mercato interno. Per ora non c’è un granché: abbiamo la cooperazione rafforzata in materia di legge applicabile al divorzio e alla separazione legale, in materia di brevetto europeo e sui regimi di proprietà per le coppie internazionali cui recentemente si è aggiunto l’Ufficio del pubblico ministero Europeo con competenze comunitarie.

   Anche la politica di sicurezza e difesa potrà rientrare in un accordo di cooperazione rafforzata, ma per ora non se ne è fatto niente e bisogna rammentarsi che 4 paesi Ue non sono membri della Nato (Austria, Cipro, Malta, Irlanda), mentre Svezia e Finlandia si apprestano ad entrarvi. A ciò si aggiunge l’Area Economica Europea che unisce Lichtenstein, Norvegia, Islanda con la Ue, mentre la Svizzera ha un trattato di associazione a sé stante ma che comporta molti obblighi.

   Inoltre, il 9 maggio la Conferenza sul Futuro dell’Europa, cui hanno partecipato rappresentanti del Parlamento Europeo, del Consiglio dei ministri degli Stati Membri, della Commissione, dei parlamenti nazionali e una selezione di cittadini, ha approvato 49 raccomandazioni per riformare l’Europa su temi che vanno dal clima all’economia ma con tre punti che potrebbero cambiare il processo decisionale: potere di iniziativa legislativa del Parlamento Europeo, voto a maggioranza nel Consiglio, elezione diretta del Presidente della Commissione.

   Come si vede la situazione è già oggi intricatissima, senza contare che per cambiare i Trattati europei è prescritta l’unanimità. Per non rimanere avviluppati nel ginepraio giuridico appena descritto è allora necessaria una grande iniziativa politica, che parta dagli stati fondatori (e da chi vorrà starci) e metta al centro la necessità di un nucleo federale dell’Europa, basato su sussidiarietà e libertà, pronto sia ad accogliere chiunque aderisca agli stessi valori sia a lavorare nella cornice degli attuali trattati per chi voglia preservare una fetta più consistente di sovranità. Il momento è questo: perdere 4 o 5 anni solo per decidere se si potranno formare liste transazionali alle elezioni europee non ci porterà lontano. (Alessandro De Nicola, da “La Stampa” del 11/5/2022)

LA STORIA E LA PACE (di Grazia Baroni)

   Mentre la pandemia e il cambiamento climatico hanno fatto riflettere sulle scelte economiche e sull’uso delle risorse e sul modo di gestire la vita in generale, questa guerra fa riflettere sulla storia: indica il livello storico che l’umanità ha acquisito, a che punto di civiltà siamo arrivati.

   Una volta la guerra era considerata un’attività nobile oggi, invece, non è più accettabile da nessun punto di vista: anche un dittatore come Putin, anche i terroristi, devono legittimare le loro azioni militari.

   È a partire dalla la Guerra del Golfo che si è dovuti ricorrere ad altri metodi quali le informazioni false, per legittimare l’aggressione all’Iraq. Ora non bastano più le false informazioni puntuali, ci vuole una disinformazione diffusa, graduale, per creare una sufficiente confusione che indebolisca o annienti gli strumenti di resistenza all’opinione pubblica contraria alla guerra.

   Perché continuiamo a costruire armi? Abbiamo già tante bombe nucleari da distruggere il mondo più volte e ne abbiamo solo uno su cui vivere tutti quanti… se non è follia questa!

   Nonostante questo giudizio le forme della guerra si sono moltiplicate: c’è la disinformazione, quella della propaganda tradizionale, quella informatica con i troll e gli hacker, quella commerciale con embarghi e sanzioni, quella biologica e batteriologica, quella nucleare, quella finanziaria con il blocco delle transazioni bancarie, e quella della tecnologia satellitare.

   In Italia, dopo vent’anni di soprusi fascisti e cinque anni di guerra il movimento della resistenza pur nella sua varietà politica e superando le differenze interne ha sentito la necessità di scrivere la costituzione, affinché non ci fossero mai più né fascismo né guerra e venissero create le condizioni basilari e indispensabili alla pace. La pace è una questione di giustizia, richiede la capacità di riconoscere la persona nella sua interezza, nel suo complesso: dalla libertà di pensiero, al diritto al lavoro, dalla possibilità di scegliere come e dove vivere, alla salute e via dicendo. Per questo la sua formulazione è stata un unico progetto da realizzare in solido: non si possono risolvere gli aspetti dell’umanità prendendoli separatamente, uno alla volta. La forma democratica e repubblicana è stata scelta proprio perché era l’unica coerente al superamento del fascismo come modello, e con essa ha potuto iniziare un processo di realizzazione di una società che rispondesse sempre di più al progetto originale, condiviso dai cittadini.

   È sempre più evidente che la libertà personale, anche se fondamentale e necessaria, non è sufficiente a garantire né la giustizia né, tanto meno, la pace sociale. Diventa sempre più necessario ripensare alla nascita della Polis come luogo di pace, motivo per cui è stata inventata la forma democratica per governare la società umana in una convivenza pacifica.

   Però adesso è anche necessario definire cosa sia la democrazia perché non avere un’idea condivisa crea confusione e squilibri nelle relazioni tra i diversi Paesi in cui questo modello di società è in atto, se non altro perché ciascun paese ha un livello diverso di sviluppo e considerazione dei cittadini.

   Quindi si dovrebbe affermare come definizione di democrazia, un insieme di norme che riconoscano a ciascun individuo l’espressione della libertà personale, partecipando alla realizzazione di una condizione di libertà comune. Ciò permetterebbe di garantire i valori umani già riconosciuti che sono, come citato dal prologo della carta dei Diritti dell’Uomo: il diritto alla vita, alla sua qualità, il rispetto delle relazioni e dell’ambiente; la libertà in tutte le sue espressioni: di parola, di credo, libertà dai timori e dal bisogno, libertà di aggregazione, di convivenza, eccetera.

   La democrazia non consiste nel voto o nel votare, né nell’avere una maggioranza e una minoranza: se la democrazia è l’esercizio della libertà, il voto serve per scegliere il numero sufficiente e necessario dei rappresentanti nel Parlamento dell’intera cittadinanza e scegliere in che modo realizzare una società libera tra le varie opzioni offerte dai partiti.

   Definirsi, come il Presidente dell’Ungheria Orban, capo di una democrazia illiberale, che è un ossimoro, vuol dire che si dà alla parola “democrazia” soltanto il significato di “esercizio del voto” al di fuori di qualsiasi contesto, che sia in libertà o in condizione di coercizione e di paura.

   Questi sono strumenti necessari della democrazia, ma non sono la democrazia in sé, sono solo metodi. Il principio di “maggioranza” è un buon criterio perché tende a soddisfare tutti e il criterio di maggioranza approssima, soddisfacendo il maggior numero di cittadini possibile. Questo, però, è solo uno dei criteri di applicazione della democrazia.

   Per esercitare la libertà bisogna sapere chi si è e cosa si vuole; quindi, lo stato deve garantire i servizi che forniscono a tutti in maniera paritaria gli strumenti per arrivare a questa conoscenza. Per questa ragione i servizi di base devono essere pubblici e liberi da logiche di profitto: cultura, ricerca, informazione, salute, giustizia, trasporti, così come i beni primari: l’aria, l’acqua e l’energia e oggi anche l’abitare.

   Oggi sappiamo che tra l’ideale della libertà e il suo esercizio come democrazia non può mai esserci coincidenza totale. Infatti, man mano che cresce l’esercizio della libertà l’orizzonte del suo ideale si allarga. Riconoscere questa variazione è necessario perché garantisce il livello democratico acquisito e ne assicura il miglioramento. Il livello di esercizio della libertà in Europa ha raggiunto una armonizzazione che lo rende quasi omogeneo al suo interno, ma non con il resto del mondo. Il resto del mondo, però, grazie ai mezzi di comunicazione vede l’Europa e reagisce alla sua realtà come luogo in cui è garantita una migliore qualità della vita.

   Oggi dovremmo aver capito che i popoli più liberi devono diffondere le loro conquiste di civiltà e favorire la diffusione della libertà e della democrazia o dovranno per forza armarsi per difenderla dagli egoismi dei singoli e dall’aspirazione di chi la vede come un privilegio, come un’ingiustizia, perché l’uomo che conosce la democrazia e non la vive, ne sente la mancanza.

   Rispetto all’evolversi della storia, l’esercizio della libertà in democrazia come organizzazione comune, è molto giovane, è ancora neonata e indifesa. Condannarla perché insufficiente rispetto all’ideale della libertà è molto pericoloso perché rischia di annullarla come conquista storica.

   L’Europa, riconoscendo i propri limiti, ha usato l’autocritica per migliorarsi, ma è molto importante mantenere un equilibrio in questo senso: se lasciamo che l’autocritica arrivi fino alla denigrazione smantellando i valori su cui si fonda, ci togliamo la terra da sotto i piedi e diamo spazio alle dittature. L’invasione dell’Ucraina è avvenuta anche perché si è considerata l’Europa una realtà politica debole non solo per il suo ritardo nel costituirsi come potenza internazionale, ma soprattutto per la sua democrazia.

   La democrazia è fatta dalle persone, è un modo di vivere la personale libertà e non è mai finita, è sempre migliorabile e da ricostruire costantemente. Questo perché siamo sempre in trasformazione e soprattutto siamo tutti diversi, ma è proprio questo che vuol dire libertà. Per questo si usa l’espressione “tendere” alla democrazia, perché è un processo in continuo sviluppo.

   È soltanto costruendo spazi di libertà di ciascuno e sempre più condivisi che si garantisce la pace. (GRAZIA BARONI)

MFE (Movimento Federalista Europeo) L’URGENZA DI DAR VITA A UN’EUROPA FEDERALE, SOVRANA E DEMOCRATICA (Proposte di riforma dei trattati)

(dalla Newsletter nr. 30 del Movimento Federalista Europeo)

Care Amiche e cari Amici,

(…..) La chiusura della Conferenza sul futuro dell’Europa il 9 maggio sancirà l’approvazione delle proposte frutto del lavoro dei cittadini, incluso quello sulla Piattaforma digitale, e del confronto con gli esponenti istituzionali. Le 49 proposte finali sono spesso coraggiose e in alcuni casi richiedono profonde riforme istituzionali; è per questo che tra le richieste c’è anche quella di procedere alla convocazione di una Convenzione per aprire alle necessarie riforme dei Trattati. Da parte sua il Parlamento europeo ha già fatto sapere che si impegnerà per rispettare questa richiesta. (v. il sito dell’ANSA).

(…..)

   I momenti tragici che stiamo vivendo con il ritorno della guerra di aggressione sul nostro continente non possono che costituire un monito per accelerare la nostra unione, la nostra capacità di intervento sulla scena internazionale e la nostra forza economica, per difendere i nostri valori di pace e libertà e fermare il ritorno del prevalere del dispotismo più feroce.

I tempi sono maturi per un’Europa federale, sovrana e demcratica.

LUISA TRUMELLINI, Segretaria nazionale MFE
…………………….

MFE – Movimento Federalista Europeo – QUADERNO FEDERALISTA 1/2022

da https://www.mfe.it/

L’urgenza di dar vita a un’Europa federale, sovrana e democratica (Proposte di riforma dei trattati)

di Paolo Ponzano, Giulia Rossolillo, Salvatore Aloisio, Luca Lionello 

INTRODUZIONE

   Questa guerra brutale è destinata a durare. E’ difficile vedere la possibilità di una tregua e in ogni caso la resistenza ucraina non cesserà, e noi europei avremo il dovere morale e politico di sostenerla. La guerra è mossa dalla volontà di impedire che i valori occidentali avanzino, diventando patrimonio comune di Stati fino a pochi anni fa lontani da questo modello politico e culturale e parte integrante, invece, del blocco sovietico, che la Russia mira a ricostituire sul piano geopolitico.

   E’ importante capire che l’Ucraina è stata invasa in questo momento perché stava lavorando, anche se con fatica, per integrarsi gradualmente in Europa; ed è altrettanto importante capire che l’altro bersaglio dell’attacco è l’Unione europea, che si sta rafforzando dopo le scelte compiute con la pandemia. La guerra, pertanto, non è tanto indirizzata a contenere la NATO, quanto piuttosto l’Europa. Questo è un cambio radicale di prospettiva. Benché – priva di una propria politica estera e di sicurezza, senza una propria difesa, e soprattutto debole sul piano politico – l’Unione europea abbia spesso adeguato passivamente le proprie posizioni a quelle della NATO e degli USA, dopo questi ultimi anni tormentati ha ormai iniziato a porsi il problema della propria indipendenza e autonomia strategica, avviando un processo di autoriforma.

   Se vogliamo dunque cogliere il filo conduttore di questa mossa che sembra così folle da parte di Putin – e che invece non dobbiamo mai fare l’errore di sottovalutare – lo troviamo nella volontà di bloccare un processo di rafforzamento europeo prima che si realizzi, prima che diventi impossibile fermarlo. Oggi abbiamo ancora molte fragilità su cui Putin può giocare – economiche, politiche, militari – e che può sperare esplodano con questa guerra, fino ad arrivare a mettere in crisi le nostre democrazie: soprattutto portando alla crescita delle forze populiste che Mosca è pronta a sostenere con molteplici aiuti, inclusa l’arma della propaganda e della disinformazione, in cui è maestra. Domani, potremmo essere riusciti a superarle almeno in gran parte.

   Delineare il vero campo di gioco e capire le mire dell’avversario è decisivo per poterlo fermare. L’Europa deve innanzitutto al Presidente Zelensky e alla forza del popolo ucraino se la mossa del Cremlino non è stata subito vincente. La resistenza ucraina ha costretto Europa e USA, e con loro un bel pezzo di mondo, a reagire; non era scontata, e ha fatto la differenza. Ora però inizia una lunga guerra e bisogna attrezzarsi, sotto tutti i punti di vista: economico, militare, ma soprattutto politico. Il terreno ultimo su cui si combatte è quello della forza del consenso e della tenuta dell’opinione pubblica.

   Qui l’Europa deve guidare il mondo libero, e deve farlo non solo perché in questo momento il nemico e la guerra sono sul suo territorio, ma soprattutto perché ha un contributo superiore da offrire in termini di modello politico e sociale. Non sono però le nostre democrazie nazionali che possono fare la differenza, ma la forza del nostro processo di unificazione. Questo processo è il vero nemico delle autocrazie, che si fondano sul nazionalismo aggressivo, sulla tirannia, sul disprezzo della vita umana e della liberta; ed è un processo che ormai deve completarsi, tornando alle radici del Manifesto di Ventotene. La minaccia è analoga, e allo stesso livello deve essere la risposta, realizzando finalmente le riforme che diano vita all’Europa federale. Noi dobbiamo non solo completare la nostra unita, creando meccanismi istituzionali adeguati, per rafforzare la convergenza dei nostri interessi economici e geopolitici; ma dobbiamo prima di tutto sconfiggere politicamente il nazionalismo, che è tornato a portare la guerra sul nostro continente, creando istituzioni che non siano intaccabili da questa malattia e, viceversa, rappresentino un modello alternativo, anche per il resto del mondo.

* * *

La Conferenza sul futuro dell’Europa in questi mesi di lavoro ha mostrato tutte le sue potenzialità, coinvolgendo in un dibattito pubblico i cittadini che hanno espresso con chiarezza – sulla piattaforma, nelle raccomandazioni dei panel – la loro richiesta per una forte democrazia europea, e per un’UE capace di agire con efficacia insieme ai suoi cittadini. Ora che si appresta a tirare le somme e ad esprimere le proprie conclusioni, noi federalisti europei – questa ampia galassia di forze che hanno animato il dibattito di questi mesi e contribuito a portare l’informazione e il confronto sul territorio e verso l’opinione pubblica – chiediamo solo di rispettare l’impegno preso all’avvio della Conferenza: nessuna censura verso le raccomandazioni più radicali che sono state chiaramente condivise dai cittadini, ma presa d’atto e quindi sostegno alla proposta di aprire una Convenzione per discutere le riforme dei Trattati. Una Convenzione che non parte da zero, ma discute di come costruire un’Europa democratica, sovrana, capace di agire.

   In questa ottica vi trasmettiamo il nostro contributo di proposte concrete per riformare i Trattati. Un’Unione federale, sovrana e democratica è necessaria, ma noi vogliamo contribuire a dimostrare che è anche possibile. 

di Luisa Trumellini, Segretaria generale del Movimento Federalista Europeo
  

PRESENTAZIONE DELLE PROPOSTE DI RIFORMA DEI TRATTATI

   Nel testo che segue sono formulate alcune proposte di riforma dei Trattati volte a modificare le competenze dell’Unione e la sua architettura istituzionale in senso federale per dar vita a un’unione politica.

   L’idea di fondo è che sia necessario introdurre immediatamente alcune modifiche sostanziali che inneschino un mutamento di natura dell’Unione e che conducano, dopo un periodo transitorio, al consolidamento di una piena unione federale.

   La situazione politica impone un’accelerazione al processo di riforma dell’UE. La necessita di far fronte alle gravissime crisi della pandemia e della guerra in Ucraina ha favorito la convergenza degli interessi degli Stati europei e portato a un’unità di intenti fino a poco fa impensabile, che ha permesso di sfruttare gli strumenti esistenti senza modificare in modo strutturale il funzionamento dell’Unione. Sappiamo però che nel tempo, e anche nella durezza della sfida che ci attende, per poter agire efficacemente e in modo unitario è necessario superare gli attuali meccanismi confederali sui quali si fonda l’Unione. La capacità di azione a livello europeo resta oggi subordinata al raggiungimento di un accordo tra i governi dei Paesi membri, e l’esperienza ci dimostra che troppo spesso accade che emergano divergenze tra gli interessi nazionali immediati e che l’Unione resti paralizzata. Per questo, è necessario dare vita a un’unione federale in grado di autodeterminare la propria condotta nella sua sfera di competenza.

   Per riprendere le parole di Jean Monnet, è venuto il momento di affidare l’elaborazione e la difesa dell’interesse europeo ad istituzioni sovranazionali indipendenti, sottraendo il compito alle Amministrazioni nazionali, che non possono avere come obiettivo l’interesse generale, ma solo ricercare accordi tra interessi nazionali contrastanti o comunque diversi.

Competenze dell’Unione europea e poteri del Parlamento europeo

Una prima serie di modifiche riguarda le competenze dell’Unione e i poteri del Parlamento europeo.

In primo luogo, si prevede in alcuni settori (come la politica industriale, la politica economica, la sanita pubblica) di competenza degli Stati membri e nei quali l’Unione ha una semplice competenza di coordinamento e di sostegno, che sia rafforzata la competenza dell’Unione in modo da consentirle di sviluppare vere e proprie politiche a livello sovranazionale.

   Nel quadro del rafforzamento delle competenze dell’Unione una posizione particolare è rivestita dalla competenza fiscale, della quale l’Unione è priva, con conseguente impossibilità di reperire le risorse per attuare le proprie politiche indipendentemente dagli Stati membri. È necessario dunque prevedere, parallelamente alla potestà fiscale degli Stati membri nella loro sfera di competenza, che l’Unione possa stabilire e percepire imposte dirette e indirette. Parallelamente (v. modifiche relative alle disposizioni istituzionali) il Parlamento europeo, futura Camera bassa dell’Unione, deve disporre di piena capacità di intervento non solo sulle spese, ma anche sulle entrate dell’Unione.

   Sempre per quanto riguarda i poteri del Parlamento europeo, ad esso è attribuito il potere di intervenire mediante la procedura legislativa ordinaria nell’adozione di tutti gli atti legislativi che il Trattato di Lisbona aveva sottoposto alla procedura legislativa speciale (vale a dire alla decisione del solo Consiglio dei ministri previo semplice parere del Parlamento). L’intervento del Parlamento europeo mediante la procedura legislativa ordinaria implica che tali atti legislativi potranno essere adottati a maggioranza qualificata e non più all’unanimità. Tali proposte di modifica riguardano otto politiche dell’Unione (vedere testo).

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