La pratica marinaresca di tenere una nave alla fonda per almeno quaranta giorni, inalberando la bandiera gialla per denunciare una mala presenza a bordo, ha riproposto la QUARANTENA come soluzione non medica, ma di lungo e prudente periodo di sbollimento del pericolo: io preferisco, alla parola quarantena, la QUARESIMA, perché soffro l’isolamento come una penitenza. Tuttavia così c’è tempo per pensare e scrivere.
In questo momento, con l’attuale imprevedibile situazione di disagio sanitario e sociale, c’è certamente il problema di un progetto: manca la capacità di un’azione politica in grado di coniugare interventi programmabili (fare programmi significa riferirsi a cose realizzabili con riferimenti certi come quattrini e date: per esempio bilancio dello stato e ciclo elettorale) con disegni pianificabili sul lungo periodo, che – solo lui – stabilizza il cambiamento.
Ricordo il libro bianco di Prodi come ultimo esperimento nel proporre un confronto elettorale fondato su un programma, pur con tutte le insufficienze che ne hanno causato o giustificato il declino: tuttavia l’attualità è ancora peggio.
Programmazione, pianificazione: so di usare termini antichi, perché erano il segno di un pensiero che aveva capito i processi evolutivi, ma che è stato divorato dalla incapacità degli stessi proponenti di liberarsi di altre dinamiche, di tipo dialettico, ben più deterministiche. Lenin se l’era cavata dicendo che il comunismo era l’idea, ma nel frattempo si accontentava del socialismo e questo “accontentarsi” gli ha regalato – a lui e a noi – stalinismo e maoismo: non per colpa, ma per insufficienza del socialismo e di chi lo praticava.
I nostri ancora peggio: comunisti che non hanno capito (ancora adesso!) che tutto era finito, eppure il messaggio era ben arrivato da Yalta! socialisti poi affogati nel craxismo (sennò come contare, essendo minoranza nel governo!), democristiani a scannarsi con le “correnti”.
E poi ….generali, logge, terroristi, rapimenti e chi più ne ebbe!!
BENE: PREAMBOLO DI CHI NON SA ESSERE SINTETICO, PERÒ ADESSO DICO DI OGGI.
A me pare che si debba camminare avendo chiaro un obiettivo e un orizzonte.
L’obiettivo è riuscire ad andare fuori dal gorgo: abbiamo visto come è andata in Emilia e Calabria, sapendo che, comunque, il giorno dopo si ricomincia con Liguria e quant’altro (a maggio? o ci pensa il coronavirus?)
Sappiamo bene che se tutte queste premesse consentono verifiche della condizione del malato, lì non si trova certo la soluzione. Anzi, forse proprio quello che sta succedendo (totalmente imprevedibile) in questo inverno ammorbato dalla “malaria cinese” come la chiama qualcuno (si, proprio la mala aria!) ci pone di fronte a stimoli nuovi, anche se il gregge non desiste dai comportamenti del tipo “si salvi chi può”: l’immagine dei giovani in corsa sulle scale della stazione centrale di Milano, borsone al traino, o delle file con carrello fuori dei supermercati, con l’ansia di fare la spesa in tempo, fanno da contraltare all’immagine dell’infermiera svenuta con la testa sul banco.
Che il governo regga o meno, obbligando a chiudere anzitempo la legislatura, fa poca differenza, rispetto alle dinamiche di lungo periodo, che comunque non sono alla portata dei nostri illustrissimi: perché dobbiamo trovare nuovi percorsi, da studiare su una carta geografica che non può che essere la mappa dell’Europa, con continue verifiche sul mappamondo. Sennò il gioco è solo di chi il mondo se lo spartisce con la guerra (SIRIA, KURDISTAN e quant’altro è in mano ai mercanti di armi) o lo divora causando il disastro ambientale (dalla SIERRA LEONE, ALL’AMAZZONIA, all’ANTARTIDE, ecc.ecc.)
Il futuro, che è già cominciato, si gioca su questioni che comunque ci consentono di pensare e agire, temi su cui calibrare interventi determinanti e in grado di sollecitare l’opinione pubblica, stimolare a proporre idee e nuove relazioni: lavoro e ambiente.
GIUSTO E DIAMOCI DENTRO, magari cominciando nel far uscire, in casa nostra, i sindacati dal torpore (Landini, dopo che ha fatto carriera, è andato al mare? è emigrato? E con lui tutto il sindacato che non ha mai voluto diventare europeo!)
Io però mi preoccupo che si cominci (adesso non dopo!) anche una riflessione su quanto può cambiare/sta cambiando il modo di pensare e di agire: e qui il tema del lavoro resta, ma cambia fisionomia.
Perché è cambiata la condizione mondiale, da quando si è affermato il pensiero del riconoscimento del valore della persona, prima proposta come ideale (quindi con l’equivoco di trasferire il valore massimo dalla persona all’idea: la persona fu valore anche per quelle epoche, ma era relativizzata in figure stranianti: il santo, l’eroe, il genio), poi faticosamente riaffermata: quel difficile passaggio da Kant ed Hegel (l’idea) a Renouvier, Mounier, e Guardini (con tutte le derive del secolo: Sarte, Marcuse e chi più ne ha…………): la persona, senza attributi e qualità eccezionali, viste come ideali, ma colta nella sua “normalità” che pure la pone, nella dinamica evolutiva complessiva, al livello più alto, date le caratteristiche di cui è dotata.
Voglio dire che aver riconosciuto il valore di quanto la persona è in grado di capire e, quindi, di decidere ci libera dal salvarsi credendo, accettando e facendo gruppo, di volta in volta, intorno a ideale, partito, nazione, razza, ma ha lasciato una traccia deterministica, giocata sullo squilibrio tra tempi del dialogo e della comprensione e tempi della proposta e dell’attuazione, che toccando il nervo scoperto della sopravvivenza, determinano il corto circuito su cui le idee si bruciano, sicché prevale sistematicamente il potere e quindi il primato di chi se ne impadronisce.
E quest’ultimo passaggio lo chiamiamo “politica”, con tutte le contraddizioni che derivano dal suo rapporto con la cultura.
E tutti – vincitori e vinti – si salvano la coscienza dicendo che così è la natura umana.
L’UMANITÀ, PER FORTUNA, È UNA REALTÀ EVOLUTIVA.
Teilhard de Chardin ce ne ha messo un bel po’, lui prete, a farlo digerire ai monsignori del Santo Uffizio, ma adesso più o meno tutti lo sanno (anche se c’è qualcuno che continua a pensare che la terra è piatta!)
La prossima dinamica evolutiva può consentire alla persona – ormai riconosciuta come valore – di esprimere le proprie valenze in quanto sa e vuole produrre (il lavoro) senza ridurre questo a merce di scambio.
E’ in atto un profondo rivolgimento che investe l’economia, il sistema produttivo e la principale risorsa umana che produce valore: il lavoro.
E’ in atto un radicale processo di trasferimento dell’attività produttiva di beni e servizi (non di idee) dalle mani dell’uomo a mani (e cervelli) elettromeccanici.
Credo si possa affermare, senza esitazioni, che è in atto il secondo salto evolutivo, dopo il primo che avvenne nel momento in cui il “sapiens” si rese conto che il frutto coltivato era più conveniente, perché più diffondibile, di quello colto in natura; momento contestuale con l’invenzione dell’uso degli attrezzi, utili protesi delle mani, entrambi guidati – mano e attrezzo – da un cervello ormai consapevole.
Quella fu l’evoluzione che mise la persona in grado di lavorare.
Siamo pronti per il nuovo passo evolutivo, prima che quanto noi stessi abbiamo prodotto ci conduca al rischio di sfuggirci di mano, causando l’autodistruzione della specie?
L’ORIZZONTE CI PROPONE TRE QUESTIONI:
– riconoscere il lavoro come libera espressione della creatività e della competenza della persona, di cui alimentare permanentemente lo sviluppo culturale e da cui, a sua volta, derivare;
– individuare e continuamente rielaborare il confine tra il lavoro della persona e quanto può essere delegato alla macchina nel rispondere ai bisogni di beni e servizi di consumo;
– sottrarre il lavoro al condizionamento che, avendolo ridotto a merce, lo ha reso derivata del “valore” prodotto, in quanto viene scelto in virtù di quanto può rendere e non in base alle caratteristiche di utilità e alle qualità del proponente.
Sospendo per ora la riflessione sulla natura del lavoro, perché comunque è preliminare osservare la questione avendo chiaro quanto oggi pesa nel “mercato del lavoro” dell’economia globale il prodotto di attività svolte essenzialmente sotto la guida dell’obiettivo PROFITTO e quanto pesa il lavoro volto a fornire SERVIZIO (pagato o volontario, che sia).
A prescindere dai dati, comunque, si può riflettere sulla dinamica che sta inducendo un progressivo trasferimento di molte attività dall’uomo alla macchina. E’ una situazione che sta producendo una sempre più diffusa instabilità nel mondo del lavoro, dove si chiede in maniera sempre più ampia, una disponibilità della persona a rendersi intercambiabile per mansione e ruolo, situazione vista – con occhio difensivo – come condizione di sfruttamento, ma che invece sollecita – con sensibilità progressiva – a essere colta come richiesta di una professionalità capace di riqualificazione continua (e qui c’è l’ennesimo fallimento o miopia: l’occasione fu persa con il cattivo esercizio della formula della formazione permanente, o continua: la banalizzazione – o se vogliamo l’insufficienza – dell’esperienza delle 150 ore!).
Qui si pone, assolutamente determinante, la questione di una radicale revisione del sistema scolastico, sul piano culturale e pedagogico, prima che didattico e organizzativo!
PROVO A FARE UN PUNTO.
Nei prossimi 50 anni (due generazioni di ammessi al lavoro, più o meno dieci cicli elettorali, se la smettiamo di anticiparli con lo sbranamento continuo in parlamento) l’obiettivo è riproporre a scala mondiale le strategie del sindacalismo europeo ottocentesco: giusta remunerazione, rispetto delle condizioni del lavoratore, parità uomo/donna, ecc. ecc.
Ce la faremo a estendere al globo quello che gli europei si sono dati, trasferendo sul “terzo mondo”, con colonialismo e multinazionalismo economico – equivalenti dal punto di vista dello sfruttamento – la parte più onerosa delle conquiste dei lavoratori? PER ORA LA VEDO DURA, anzi vedo una prospettiva di livellamento mondiale su quote ben più basse di “difesa dei lavoratori” (Torna, Landini, torna, ma mettiti a discutere con chi si sta mangiando il mondo!)
Sapendo poi, che di anni ne abbiamo ancora per un paio di secoli (Mercalli assentendo!), per evolvere nella separazione tra lavoro e mercato, cioè per sottrarre il lavoro alla sudditanza dal denaro. Ma questo è un problema, come accennavo prima, di cambiamento di punto di vista e qui comincia un ragionamento più complicato. In questo inverno, ho già ricordato, si è superato l’esame con l’Emilia e Romagna (superato, sia fa per dire! perché la Calabria ha consentito anche agli altri di tirare il fiato) e adesso viaggiamo incoronati da virus.
CERCO DI ESSERE SERIO.
Riassumo quanto mi è risultato dalle ultime chiacchiere che sono riuscito a fare in giro e riparto anche dall’idea di “usare” Ernesto e Italo (due anni di tempo) per aprire nuove piste da seguire, quindi vado per punti.
1 – La prima idea usa come riferimento di base l’esperienza del “federalismo” che ha coinvolto entrambi i nostri antenati, anche se in forme diverse: federalismo vuol dire Europa.
Credo utile discutere delle prospettive che si possono intravvedere, avendo alle spalle l’esperienza “europeista” a partire dalle idee dei padri fondatori fino all’attuale gestione, interloquendo con alcuni settori: ne indico alcuni, che a me sembrano molto importanti:
a) livelli elevati di formazione e i loro esiti internazionali;
b) la generazione “ERASMUS” tanto per intenderci e gli sbocchi che questa esperienza consente: a me pare che si faccia un gran baccano sulla questione dei nostri laureati che non trovano lavoro e devono emigrare; non è questo il problema grave: ce ne fossero di ragazzi che fanno le loro prime esperienze di lavoro girando per il mondo, il problema è, invece, se riusciamo noi a far rimanere dopo la laurea qualcuno bravo a fare ricerca, delle migliaia di studenti stranieri che in questo momento stanno studiando in Italia;
c) La questione della formazione e dell’orientamento al lavoro;
Stando alle ultime statistiche, mentre soffriamo per l’alto numero di disoccupati, abbiamo ampie categorie che offrono occupazione e che non sono soddisfatte per insufficiente capacità del settore della “formazione e orientamento al lavoro” di dare un sostegno adeguato; insomma, la vecchia formazione professionale non funziona più? È fortemente differenziata regione per regione? Esiste una possibilità di confronto europeo?
La qualità del lavoro e le difese sociali sono un tema che non ebbe patria comune al momento in cui gli europei cominciarono a guardarsi in faccia; ricordo i tentativi di far decollare (fine anni ’60) un sindacalismo europeo subito dopo l’ “autunno caldo”: naufragarono miseramente per l’assoluta incapacità di una visione strategica in tal senso; per fare un esempio, ricordo che nella CGIL di allora molti comunisti erano ancora a guardare la colomba della pace, figuriamoci a lavorare con i tedeschi di Bonn!
Per non parlare di Coldiretti che non aveva nessuna idea di collaborazione con i compagni francesi, peraltro completamente impregnati di visione localistica. Pensate un po’ se DI VITTORIO avesse ridotto la questione bracciantile alla sola difesa dei pugliesi. Ma la sua capacità di rendere il problema un interesse dell’intera Italia, cinquant’anni dopo non la si ebbe nel traslare all’Europa dal locale al globale e oggi tanto meno, quando la questione del lavoro sta diventando mondiale: non penso certo a un sindacato a quella scala, ma bastano le sceneggiate come le conferenze ONU in materia?
2 – La seconda domanda, che l’esperienza di Ernesto e Italo ha anticipato, riguarda la relazione tra cultura e politica. Qui credo che il percorso che Luca e Giorgio hanno intrapreso nel mondo dei filosofi sia di guida. Io aggiungo una sollecitazione a pensare l’internazionalizzazione del gruppo: non si tratta di “diventare importanti” o “di contare” nel mondo degli intellettuali, ma della necessità di porsi a livello di competenza e di confrontabilità, fondati su conoscenza diretta e scambio reciproci, con chi oggi ha perfettamente capito che i livelli di discussione, di decisione e di azione, che hanno importanza strategica, richiedono relazione diretta e scambio interpersonale a scala confrontabile. Ma in fondo, non è sempre stato così? E tuttavia, sembra così difficile superare barriere linguistiche, di estraneità tra vicini e quant’altro rende fuori scala e inconfrontabili con un mondo globalizzato e di cui Amazon è bandiera, mentre la CULTURA soffre le barriere linguistiche e la POLITICA è solo difesa di interessi nazionali.
Qui si pone una frattura che va superata. C’è un mondo vitale, fortunatamente attivo, capace di continuare a manifestarsi in percorsi individuali, che spesso si incrociano e confrontano, che costituiscono il tessuto vivo della cultura, in qualche modo capace di confrontarsi in uno scambio che supera limiti geografici e ideologici.
Manca però un livello organizzato che renda stabile, estesamente noto e accessibile il patrimonio di idee che si accumulano nel tempo, spesso quindi riconosciute solo a posteriori (la tipica “riscoperta” di cui soffre buona parte del patrimonio culturale, che diventa risorsa d’archivio, perdendo la potenzialità di essere lievito attivo in vita): quante “fondazioni” e “istituti” nati per essere testimonianza attiva di vicende cariche di novità, diventano mausolei celebrativi di “eroi del passato” trasformati in mummie da museo!
Riducendo la riflessione a una formula, dirò che la cultura ignora quanto potrebbe esprimersi politicamente per rendersi successivamente utile, cioè per utilizzare anche una valenza economica, senza cadere nell’equivoco di ritenere che il primo passaggio significhi entrare nell’area dove le idee sono strumentalizzate nei rapporti di forza e utilizzate solo se vendibili come bene consumabile.
3 – Il terzo e ultimo interrogativo che mi sollecita si pone là dove un pensiero che, già alcuni anni orsono, Ernesto e Italo collocavano a livello mondiale, per essere in grado di agire quotidianamente nell’ambito locale e che conduce a considerare la relazione che ciascuno deve essere in grado di stabilire tra le proprie finalità e il proprio agire, attraverso la considerazione e la giusta valutazione delle condizioni storiche in cui si vive.
Questo passaggio pone due questioni su cui sarà utile riflettere e lavorare: la considerazione e la valutazione di quello che da tempo abbiamo definito “il nodo storico” e l’utilità/necessità/capacità di ciascuno e di tutti di disporre di un proprio progetto (o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare) di come vediamo e vorremmo migliorare quanto ci sta intorno (per non apparire megalomane non uso la parola “mondo”, ma quella è la dimensione in cui viviamo) e avviare il lavoro di comunicazione, scambio e integrazione.
VOGLIAMO PROVARCI?
…
La quarantena continua: 15 marzo
“A poco a poco l’inziale simpatia esistente in seno all’elettorato non impegnato si dissipò in parte e si fece sentire un minaccioso senso di frustrazione e di disagio. Col passare degli anni, i vari Presidenti del Consiglio…videro così sempre più ridursi la loro maggioranza e divenne arduo per loro formare una coalizione efficiente senza spostarsi a sinistra o a destra. Nessuna alternativa di governo era concepibile……..” Questo scrisse DENIS MACK SMITH nel 1958, descrivendo i dieci anni postbellici, alla vigilia del cambio di marcia nella politica italiana, da cui cominciò la contraddittoria stagione detta del “centrosinistra”.
Mutatis mutandis, sembra una descrizione molto vicina a noi, anche se le etichette partitiche applicate sui gruppi parlamentari appaiono diverse: sono cambiati simboli e sigle, ma la disposizione delle componenti ideologiche e dei conseguenti rapporti di forza (pur mutevoli in funzione elettoralistica, sono più o meno sempre gli stessi, in presenza dell’evoluzione del pensiero dei punti di riferimento di base nella sinistra, con i cambiamenti radicali nei paesi “comunisti” e della destra conservatrice, sempre meno – seppure solo ideologicamente – liberale e sempre più pragmaticamente legata alle convenienze di un sistema capitalistico privo di effettiva capacità di orientamento e controllo da parte dei sistemi di governo politico.
Per chi avesse memoria o avesse voglia di riprendere la storia italiana dall’unità in poi si porrebbe la domanda: “che cosa è cambiato?”
Il problema che sembra poco approfondito è il rapporto tra l’elaborazione culturale e i tempi di cui necessita la parallela vicenda politica, in cui la fase di maturazione e decisione sono determinati dall’evolvere dei rapporti di forze tra i soggetti in campo e le dinamiche di potere che ne derivano, a loro volta fortemente condizionate dai poteri economici.
Con questa premessa, il lungo periodo di deterioramento della prima metà del secolo XX, occupato dalla seconda “guerra dei trent’anni”, ha un esito non dissimile dalla prima, conclusa con la pace di Westfalia: in quel tempo, fatta la pace, i paesi continuarono a collidere, naufragando nelle contraddizioni delle rivoluzioni americana e francese (liberté non per tutti, égalité solo tra simili e fraternité di là da venire), del bonapartismo (dove il capo evolve dall’essere rivoluzionario e repubblicano fino all’autoincoronazione, con forzata benedizione papale) e della rivoluzione comunista, con il gioco dichiarato di spostare la meta in un radioso futuro non databile e accontentarsi, nell’attualità, della fase socialista.
La seconda volta il naufragio è mondiale, guidato dall’evoluzione del conflitto, che deflagra europeo, ma è già descritto come mondiale, per divenire veramente globale nei trent’anni che intercorrono tra il 1914 e il 1945 con la rivoluzione russa, le varie esplosioni dittatoriali (Ungheria, Italia, Spagna) il disastro nazista, la successiva spartizione dell’Europa tra le due superpotenze, che progressivamente annichiliscono il ruolo di Francia e Gran Bretagna, che perdono il loro dominio mondiale, a suo tempo realizzato tramite il sistema coloniale, da cui era sparita nel frattempo la Spagna.
E’ un lungo periodo che tocca almeno due generazioni e che in Italia e in Germania, ma non solo, offre tuttavia il vantaggio di tradursi nella possibilità di una elaborazione culturale con un tempo sufficiente per consentire confronti di idee e scelte di campo. Sicché la resistenza armata durante gli ultimi due anni di guerra ha successo anche per il sostegno che le deriva da forti supporti etici e culturali diffusamente condivisi.
Non voglio dire, con questo, che il mondo della cultura fosse diventato capace di prevedere e anticipare la necessità di sottrarsi al processo di schieramento politico: proprio la cultura di sinistra e quella cattolica furono, anzi, le principali responsabili di fenomeni di adattamento e sudditanza, per non dire che la cultura di destra (inutile ormai battezzarla come borghese) fu spesso assente, “in altre faccende affaccendata”. Ma nel trentennale dibattito successivo alla fine della guerra mondiale resta l’influenza di una sensibilità culturale che tenta di crescere e interferire su vicende come, per esempio, l’elaborazione di carte costituzionali, le proposte e le attività di istituzioni e organismi sovranazionali (Comunità Europea, Nazioni Unite, accordi sovranazionali sia pur limitati al mercato – MEC e Mercosur – e alla difesa –NATO, e patto di Varsavia -) e infine lo stesso dibattito parlamentare, sia pure talvolta aggressivo come in Italia e Francia, o ipercontrollato come all’Est.
Nei successivi decenni, ormai quasi mezzo secolo per giungere ad oggi, il processo più preoccupante appare quello che rende ogni valenza relazionale assoggettata alle sole regole della politica guidata dagli interessi nazionali, trasformata in urgenza decisionistica, tutta determinata e giustificata dal supporto ideologico, ormai degenerato in permanente conflitto tra gruppi di potere.
SIAMO PUNTO E DACCAPO, con il degrado del pensiero libero e liberante dei “lumi” che affoga nella confusione dello schieramento assembleare, dove c’è solo spazio per il conflitto e l’esercizio dei rapporti di forze e magari con l’autoisolamento sui banchi alti (siamo daccapo con i “montagnardi”?) o nei partitini del 3%, espressione di indipendenza impotente, utili solo saltuariamente per realizzare equivoche alleanze di comando o integrare impotenti aree di opposizione.
Oggi occorre ricostruire uno schema di relazioni che, nell’assoluto rispetto degli specifici piani e tempi di elaborazione e maturazione di quanto si ritiene comunicabile all’esterno, consenta un confronto e una sinergia (chissà che ne derivi un’integrazione!) tra la presa di coscienza, cioè la dimensione etica, la capacità di elaborare ed esprimere delle idee, cioè la dimensione culturale e la dimensione politica, infine la messa in relazione delle diverse proposte, la gestione della dialettica che ne consegue e l’elaborazione di un progetto di realizzazioni, determinate sulla base di risorse utilizzabili, cioè nel tempo e nello spazio
Questo comporta almeno DUE QUESTIONI FONDANTI ogni possibilità di transizione verso un nuovo modello di società.
LA PRIMA QUESTIONE riguarda i tempi e i modi di esercizio della facoltà, per il cittadino, di decidere quale linea di governo accettare e sostenerne la realizzazione.
Il modello statunitense e francese è fondato sulla indiscutibile decisionalità presidenziale (con qualche margine di messa in discussione negli USA, nella dialettica con la Camera dei rappresentanti, che ha competenze forse più ampie che nel Parlamento francese); il modello tedesco gode di un certo riequilibrio tra governo centrale e governi regionali, che hanno qualche modesta elasticità in più rispetto al modello italiano, dove solo il collegamento del senatore al proprio collegio dovrebbe garantire una minore estraneità dell’elettore alle vicende parlamentari, collegamento che in genere però affoga nella palude delle gerarchie di partito.
Tuttavia tutti questi modelli di attività parlamentare si sono tradotti, con una pratica ormai bisecolare, in un continuo esercizio conflittuale, registrato ed enfatizzato dai mezzi di comunicazione.
Sicché progetti politici e programmi elettorali sono ridotti a quadri esibiti periodicamente in fase elettorale, per essere spesso modificati contraddittoriamente in virtù di adattamenti al corso degli eventi, con modesta coerenza di idee e propositi.
Dobbiamo capire che è finita un’epoca, senza aspettare che siano i “barbari” a dimostrare che “l’imperatore augusto” non c’è più.
I barbari sono già in moto: le invasioni non si chiamano più con il nome delle tribù gotiche o mongole che non vedono l’ora di vedere Roma (e mangiarsene un pezzo di quel che rimane!), ma sono ben riconoscibili nella spartizione di aree di influenza e controllo commerciale: CINA, STATI UNITI e RUSSIA, con grande distacco di tutti gli altri.
E QUI STA IL GRANDE NUOVO EQUIVOCO IN CUI RISCHIAMO DI CADERE.
Se guardiamo una delle tante rappresentazioni della distribuzione della ricchezza nel mondo (l’immagine privilegiata è, non a caso, la piramide) si capisce che le tre cosiddette potenze sono già un primo livello di strumentazione con cui il vertice della piramide può e intende manovrare.
Vertice che, sul piano etico e culturale, non è certo omogeneo, nel senso che i soggetti che lo compongono vivono ognuno per sé: questo non è una qualità etica, ma un fondamento di violenza e sopraffazione, in cui la collaborazione è prevista solo per coincidenza di interessi.
Sulla base di corrispondenze geografiche o di casta si generano alleanze che durano finché regge l’interesse comune, ma sono complessivamente dotate di lunga vita nella pervicace capacità di mantenere il controllo dell’insieme.
Poi, nell’emergenza del coronavirus – ma non solo – appaiono subito dei nuvoloni.
La Stampa di mercoledì 25 marzo espone una lunga riflessione sull’ENI e sui rischi di un attacco borsistico (mi verrebbe da giocare sui termini: agente di borsa…borsaiolo… ma forse è troppo irrispettoso!) Allora la faccio breve, ma già si accampano timori per una delle poche aziende italiane (lo è ancora?) che stanno nelle Borse che contano, per le conseguenze che l’attuale crisi potrebbe avere su di essa. In altre parole, mentre l’angoscia prende chi usa l’autobus e compra al supermercato, quindi deve stare a contatto con altri a rischio di infettarsi, c’è chi pensa a come usare questa crisi per alzare sempre di più il pinnacolo della piramide di cui si diceva poc’anzi.
Tutto ciò mentre si scatena nelle reti l’iradiddio di notizie e contro notizie che parlano di “complotti-sars-ebola-coronavirus”: comincia la caccia alle streghe!
Ma intano – insisto – c’è già chi pensa ai giochi di borsa.
Come finire con questo andazzo, prima che tutto crolli?
…
Terza puntata: venerdì 27 marzo
Dopo tutto il coronavirus consente qualche pausa, ma è meglio sbrigarsi, perché ben altre ansie crea l’allarme ambientale.
Credo che si debbano affrontare DUE QUESTIONI che rimettono in discussione ampia parte del modo di pensare e agire contemporaneo.
LA PRIMA QUESTIONE riguarda il ruolo del lavoro e che cosa esso significhi nella vita umana.
Il passaggio è concettualmente di grande semplicità, ma la sua realizzazione storica è assolutamente rivoluzionaria: il lavoro è l’espressione della capacità della specie umana di pensare, capire, decidere, dotarsi di strumenti e agire, con modalità adeguate rispetto alle condizioni del tempo in cui ciascuno vive e ai risultati che si intende raggiungere.
Il passaggio logico che il momento richiede è di evolvere da una visione orientata verso il benessere individuale a un’ottica di bene comune: perché ciò sia possibile, occorre che il lavoro non sia più scelto, svolto e verificato in funzione di quanto riesce a vendere, ma in quanto consente l’espressione e la valorizzazione delle attitudini personali, al massimo delle loro potenzialità creative.
La parola chiave è valorizzare: non si tratta più di riconoscere valore al lavoro attraverso la valutazione di quanto esso produce di interessante per il mercato, ma di consentire la più libera e alta espressione culturale e produttiva del soggetto che lo esprime.
Infatti, il lavoro riconosciuto solo per quanto immette i suoi esiti nel mercato, ne subisce l’azione di unico arbitro in base alle convenienze che questo individua, trasformandolo in merce e quindi inducendo in ciascuna persona un meccanismo di scelta che non è più guidato da gusto e creatività personale, ma dalla sola speranza di guadagno.
Da tutto ciò deriva l’ormai millenaria pratica di indurre in ogni persona scelte di lavoro che solo per minime minoranze si fondano su attitudini e gusti personali, tuttavia sottoposti a selezioni talvolta crudeli: di Picasso e di Ronaldo ce n’è uno, ma quanti sono i pittori morti di fame e i calciatori di serie B, C, ….Y e Z?
Tutto ciò fa emergere UNA QUESTIONE DI FONDO che, se affrontata, potrà generare notevoli cambiamenti nei rapporti sociali.
Occorre sottrarre il lavoro alla limitazione di essere preso in considerazione attraverso il suo prodotto, quindi alla sola disponibilità che ne consegue di trasformarlo in denaro utile per accedere ai beni di cui si ha bisogno: il che pone la questione di come consentire a tutti l’accesso a quanto è necessario per vivere.
QUI OCCORRE UN’ALTRA DIGRESSIONE.
Un recente documento divulgato dalla “Casaleggio Associati” (https://youtu.be/br0Ptwt2ZwI) descrive qualche prospettiva delle trasformazioni in atto, con una visuale estesa al prossimo mezzo secolo.
In esso viene accennato al modo in cui in futuro sarà fornito quanto serve alla persona per le proprie esigenze di cibo, vestiario, assistenza, persino divertimento e tempo libero.
Prevale la macchina, non solo con gli automi portapacchi di Amazon, ma con la produzione di buona parte di quanto sta nel pacco.
Peraltro, chiedo ai torinesi se ricordino che proprio a Torino si cominciò a produrre buona parte dell’automobile mediante macchine: per anni non fu proprio COMAU un vanto di questa città? Solo che, mentre il produttore di auto si rompeva il capo su come ridurre i costi del lavoro, imboccando la strada di mettere automi al posto di metalmeccanici, in parallelo non ci fu (non c’è tutt’ora!) azione culturale e sociale orientata a offrire soluzioni non sotto forma di nuovo posto di lavoro-merce, ma di elevazione culturale e libertà creativa.
Ecco dove si colloca il rimpianto per il fallimento delle “150 ore”!
Alcuni aspetti del problema, sostanzialmente quelli connessi con la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, oggi sono affrontati da scuole di alto livello come, qui a Torino, nei programmi del Politecnico, essendo però assente ogni considerazione riguardante gli aspetti della collocazione degli esiti di ricerca, innovazione e innalzamento del livello di conoscenza individuale oltre le barriere del lavoro inteso come prodotto per il mercato.
Un secondo approccio che fu tentato e che voglio brevemente ricordare fu quello con cui si avviò la stagione cosiddetta del “centrosinistra”, che ho già ricordato.
I socialisti, entrando al governo, si proposero di introdurre una pratica di forte valenza culturale, di orientamento economico e sociale, dotato di respiro strategico, ampio e sufficiente per consentire un cambiamento delle prospettive del Paese: si chiamava “programmazione”.
Un’iniziativa ambiziosa si denominò “progetto 80” dove il disegno di nuovi indirizzi economici e di riequilibrio sociale si traduceva in un quadro espresso perfino con precise collocazioni territoriali (una manna per geografi e urbanisti dell’epoca). L’idea, però, non andò oltre la modesta elaborazione di documenti di indirizzo, esaurendosi in alcuni programmi di nazionalizzazione (telefonia, reti elettriche: importanti, ma isolati) e subendo poi il degrado dell’assoggettamento alle logiche di redistribuzione di poteri e convenienze, nella contrattazione tra le segreterie dei partiti.
Allora TORNO ALL’ESPERIENZA DELLA MATURAZIONE DI LUNGO PERIODO, che fu consentita dal dramma della lunga guerra, suggerimento della necessità di avere ben distinto il piano della elaborazione culturale, che richiede tempi e dinamiche adeguate, da quello della gestione politica, da obbligare a verifiche con termini precisati in programma.
…
LA SCUOLA
Ecco un nodo: la scuola: forse “il” nodo.
Però qui non voglio proporre una inutile idea di riforma, come quella storica, tutt’altro che inutile ma fortemente orientata di poteri del tempo, che fu detta della scuola “dell’obbligo” (orrenda parola: invece di chiamarla “della liberazione”, dall’ignoranza, dalla diseguaglianza; chiamarla obbligo: così il maestro ci va con la bacchetta e il bambino la odia da subito! cretini!) o quella unificata, magnifica idea di Gozzer e dei gozzeriani, ma distrutta sul nascere, perchè prima di attuarla bisognava formare gli insegnanti: ma tant’è le riforme si fanno quasi sempre partendo dalla parte più facile, non da quella più giusta e in questo caso fu l’affiancare alla “professoressa di italiano, latino, storia e geografia” il tecnico proveniente dall’avviamento professionale, denominato “professor di applicazioni tecniche”, rendendone equivalente il giudizio in seno al Consiglio di classe. Non discuto il valore del secondo, ma certo la prima ne uscì con le ossa rotte! Altri percorsi avrebbero consentito una maggiore considerazione dei contenuti professionali, pur nel rispetto del principio di eguaglianza nella disposizione dei ruoli. Oggi la scuola (soprattutto la “media inferiore”) ha raggiunto livelli di maggiore equilibrio: la maggioranza dei professori di educazione artisti e tecnica sono dotati di laurea, ma le due generazioni intercorse hanno prodotto un notevole degrado del livello di formazione espresso in materie che un tempo costituirono un valore dell’istruzione. Sicché la scelta, a quattordici anni, di un percorso di studi umanistico/filosofico appare un vezzo di minoranze più terrorizzate dai teoremi matematici, piuttosto che aperti verso la cultura cosiddetta “classica”.
Inoltre, avere semplicemente soppresso discriminanti come l’esame di ammissione alla scuola media inferiore e avere eliminato il dualismo tra questo tipo di scuola e quella di avviamento professionale ha consentito di concepire l’estensione dell’obbligo (sempre quello, accidenti!) a livelli di età superiori, costituendo un momento di affermazione di un principio di eguaglianza ed elevazione sociale, pagato però con uno scadimento della qualità il cui recupero mostra rarissimi, isolati segni di ripresa, in cui l’iniziativa personale spesso si esaurisce sulla parabola del percorso individuale, tanta è la resistenza dell’isteresi istituzionale.
Se l’approdo della riflessione precedente è stato visto nella necessità di reimpostare una strategia culturale di lungo periodo, è chiaro che ciò investe in pieno l’idea complessiva di istruzione scolastica, con tutto l’equivoco di fondo che la condiziona dalla sua origine.
Pensata dal grande filosofo come fondamento della possibilità per ogni persona di giungere, ben sostenuta, a possedere cultura e capacità di discernere e decidere, venne ridotta da subito a supporto per distribuire forme gerarchizzate di istruzione, sufficienti per immettere masse crescenti nei livelli diversificati del sistema produttivo, che si andava modernizzando con quella che sarà chiamata “rivoluzione industriale”.
In parallelo, la scuola si prestò a educare la stessa massa nell’essere disposta a costituirsi in macchina aggressiva di conquista e di sopraffazione, fino al genocidio dei popoli aggrediti con il colonialismo, fino alla eliminazione del diverso nei campi di sterminio, fino alla cancellazione di qualsiasi pensiero alternativo nei gualg.
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I processi culturali si dividono pertanto da subito in alcuni percorsi specifici: iniziando con quello della “pubblica” istruzione, egualitariamente modesta, per divedersi poi nei ruscelli della creatività, soprattutto letteraria e poetica che confida nel mercato, quello della ricerca scientifica, richiesta e sostenuta (che si traduce in acquistata) dalla nascente cultura industriale.
La cultura si identifica, dunque, nel suo prodotto, erogato per obbligo, o venduto ai curiosi, o valido in quanto innova prodotti industriali, fino al rimedio medicale, fino a quanto serve per fare guerra, o per invadere mercati.
Ripartire dai sistemi di istruzione (la parola scuola è ormai definitivamente riduttiva, ma speriamo che tutti insieme sapremo riqualificarla per senso e ruolo) richiede un radicale ripensamento e riposizionamento del rapporto tra processi culturali e meccanismi decisionali su cui poggia la costruzione di regole di decisione e azione nella società contemporanea, quelle ormai ridotte alla sola visione di convenienza nell’orizzonte piccolo del cosiddetto schieramento politico.
Il caso brexit o l’attualissimo conflitto sul quantitative easing sono le occasioni più recenti su cui riflettere: brexit è il comportamento di un potere politico, che si incarna nel governo britannico, che da almeno due secoli è uso scaricare all’esterno del proprio Paese gli effetti negativi delle proprie decisioni in campo economico. La storia è istruttiva: prima toccò ai paesi dell’Impero pagare le riforme sociali attuate sul suolo inglese (piuttosto che britannico, non dimentichiamolo!), poi – entrata in Unione – la Gran Bretagna ha accettato di liquidare buona parte del suo apparato industriale, mantenendo rigoroso controllo sulla parte finanziaria, con il sistema bancario e il più poderoso sistema assicurativo mondiale (da cui il campanello d’allarme di non accettare l’€); modello che fa capire le attuali durezze germaniche (che copioni!!) che si esprimono ormai in ogni occasione di rischio – gli squilibri nei bilanci dei singoli Paesi dell’Unione o l’attuale crisi coronavirus – nell’alzare barricate anche verso autorità – che dovrebbero essere gerarchicamente superiori, ma si sa che il potere ha le sue logiche! – come nel caso della BCE che non la vince sulla Bundesbank.
La situazione che stiamo vivendo, nella sua drammatica eccezionalità, consente, forse impone, di riflettere sulle possibili dinamiche di trasformazione del sistema scolastico, costituendo, per vari aspetti, un taglio drastico con la didattica tradizionale: basti pensare a quanti neofiti (sia insegnati che studenti) sono obbligati per la prima volta a sperimentare la didattica a distanza.
E’ il momento buono per lanciare qualche sasso nello stagno. (MARIO FADDA)