25 aprile. Metamorfosi di una celebrazione

25 aprile 1945. Da quella data ci separano 75 anni, tre generazioni, e oramai ben pochi dei protagonisti di quei giorni, di quei 20 mesi di lotta resistenziale, sono ancora fra noi e quei pochi sono molto in là con l’età.
Fra non molto non avremo più i testimoni viventi di quei fatti, anche se – per fortuna – la tecnologia ci aiuterà con registrazioni audio e video, filmati, immagini. Ma non sarà la stessa cosa. Sappiamo bene quale effetto pregnante possano avere sugli studenti le parole vive di un testimone diretto di fatti ed eventi storici.

Di quel 25 aprile ci restano le immagini: un giorno di festa, con tutti (o quasi) nelle strade e nelle piazze ad accogliere i partigiani che scendevano dalle montagne o confluivano dalla pianura e gli alleati che arrivavano. Tutti sorridono, tutti sono contenti. Non possiamo sapere cosa passava per la testa di quegli italiani che erano nelle strade. Credo però che chi aveva attivamente partecipato alla lotta partigiana (sia pur con ruoli diversi: combattenti, staffette, patrioti, collaboratori, ecc.), ma anche chi era rimasto guardingo ad attendere gli eventi e, forse, anche molti di coloro che solo qualche mese prima si sarebbero dichiarati fascisti, fossero lì a festeggiare.
Nelle immagini che ritraggono i partigiani in posa leggiamo sui loro visi atteggiamenti di composta sicurezza, di dignità, sguardi che guardano avanti. Sono i segnali che in quel momento si sta percependo che qualcosa di nuovo sta per iniziare: il 25 aprile è una data fondativa. Forse veramente per la prima volta il popolo (la gente, le masse, le folle, non ho un termine giusto per dirlo) ha conquistato la piazza sua sponte e non perché lo hanno convocato le istituzioni e il potere (vedi le “adunate oceaniche” del ventennio). In quei luoghi la gente voleva esserci perché da lì ripartiva qualcosa di nuovo.
Certo i problemi rimanevano: le macerie e le distruzioni, i morti, i prigionieri di guerra che tornavano (e non tutti), la borsa nera, l’inflazione, la disoccupazione, ecc. Già il giorno dopo la Liberazione occorreva fare i conti con la dura realtà.
Anche le disillusioni furono cocenti. Durante la Resistenza le aspettative erano molto diverse e ogni gruppo politico si aspettava un’Italia che era diversa da quella degli altri. Una qualche sintesi la si trovò, grazie all’opera dell’Assemblea costituente, ma le differenze rimasero, sia pur all’interno di un quadro condiviso (l’ambito di quello che si chiamerà l’”Arco costituzionale”). Inoltre le forze della conservazione non erano sparite: le strutture burocratiche, le gerarchie militari, la grande finanza e la grande industria… (oggi li chiameremmo “i poteri forti”) ben prima che la guerra finisse (almeno dal 25 luglio ’43) erano all’opera affinché la crisi del fascismo non si trasformasse in una rivoluzione politica e sociale. E, occorre dirlo, ci sono in parte riuscite.

Sergio Luzzato, 15 anni fa (ne La crisi dell’antifascismo, Einaudi) parlava, a ragione, di una crisi del 25 aprile, visto lo svuotamento di significato del termine antifascismo (a cui si correlava un analogo processo che investiva il termine fascismo). Pertanto la festa della Liberazione era sempre meno sentita e sempre più lontana dalla sensibilità di molta parte della popolazione. Negli ultimi anni le cose sono mutate e l’evento 25 aprile, forse proprio perché sono venuti meno i protagonisti e i reduci di quella stagione, sempre più viene vissuto come scelta. Ovvero chi scendeva in piazza – almeno fino all’anno scorso o quest’anno ha partecipato agli eventi on line – lo faceva e lo ha fatto in ragione di una scelta, decidendo che esserci ha un significato forte e pregnante. Questa scelta non deriva da un puro e semplice retroterra culturale e politico: ho studiato cos’era il fascismo e quindi scelgo l’antifascismo! Oppure sono di sinistra e quindi vado alla manifestazione! Nasce piuttosto dalla necessità di definire un noi. Come dicevamo, le date proposte dalle istituzioni si sono fortemente indebolite; a rendere meno chiara la situazione c’è stata anche la proliferazione delle giornate in cui si ricorda qualcosa (Giovanni De Luna le elenca – ma forse c’è ancora da aggiungere qualcosa – in La Repubblica del dolore, Feltrinelli), tutti eventi e situazioni degni certamente di memoria, ma, come si sa, l’inflazione di memorie disgrega la memoria piuttosto che rafforzarla. Poi, per quanto riguarda il 25 aprile, c’è il tentativo sempre riproposto di stingere, di annacquare: basta con “Bella ciao”, via le bandiere delle associazioni partigiane, mettiamoci anche il ricordo dei morti da Covid-19, ecc. ecc.
Tutte le istituzioni cercano di presidiare la memoria, ad esempio, lo Stato italiano lo faceva con alcune ricorrenze, quali il 4 novembre e il 2 giugno. Ma si tratta spesso di momenti in cui le istituzioni mettono in mostra se stesse: le forze armate sfilano, i politici si mostrano dalla tribuna e il popolo è chiamato a fare da spettatore, ad applaudire e a sventolare bandierine. Non è così con il 25 aprile. Certo c’è lo Stato, i discorsi ufficiali, le uscite del Presidente e del Premier (non sempre), i sindaci con il tricolore (non tutti), ma c’è soprattutto la gente: è festa di popolo, com’era stato nell’aprile del ’45. I reduci, ormai ridotti a pochissimi, sono stati sostituiti dai giovani e molti che non sono né giovani né vecchi sono tornati nelle piazze (oggi 25 aprile 2020 sono sulle dirette streaming e Facebook). Questo 25 aprile ha visto l’impegno di partiti (non tutti), sindacati, associazioni culturali e di volontariato, istituti storici ecc. che hanno prodotto un’infinità di video, di interventi, di dibattiti. Sta forse rivivendo lo stesso clima, che possiamo immaginare abbia caratterizzato quella giornata del 1945, ovvero un momento che produce e rafforza un “noi” in cui identificarci.
Chi “noi”? Certo gli antifascisti, ma anche molte altre cose che possiamo essere. Proprio per questo suo contenere tante altre cose il 25 aprile è ancora vivo. Cosa contiene? La Costituzione, la democrazia, i diritti, l’accoglienza e l’inclusione, ma anche la difesa dell’ambiente, il diritto alla bellezza, del diritto di poter respirare aria pura e mangiare cibo… E oggi, con più forza, il diritto ad avere servizi sociali efficienti e per tutti (scuola e sanità soprattutto). “Noi” siamo quelli che credono in questi valori-pratiche-prospettive.
Tuttavia, perché il 25 aprile possa vivere ancora a lungo, occorre anche costruire delle narrazioni. Ogni società, ogni civiltà ha le sue narrazioni. I Greci avevano l’Iliade e gli Ebrei l’Antico Testamento; l’800 italiano ha avuto I promessi sposi. Ognuna di queste narrazioni tratta di un evento ritenuto fondamentale e che fa da spartiacque (la guerra di Troia, il rapporto di Jhavè con il suo popolo, una storia di normale sopraffazione nel caso del romanzo di Manzoni), un evento che segna un passaggio, un prima e un dopo, e che identifica appunto un “noi” (i greci, gli ebrei, gli italiani risorgimentali). Queste narrazioni hanno la capacità di saldare assieme il passato e il futuro, con la mediazione del presente. La narrazione serve per stabilire un inizio e una prospettiva. C’è stato un tempo in cui le vicende della guerra tra Greci e Troiani erano racconto di testimoni, poi sono diventate narrazioni e infine un testo che racchiudeva e definiva delle radici comuni.
Anche per la Resistenza c’è stato un tempo della testimonianza, ma per ragioni biologiche questa stagione sta finendo. Occorre pertanto utilizzare altri strumenti per far continuare a vivere il 25 aprile. Possiamo riferirci, come esempio, alla canzone “Bella ciao” per capire la forza che può avere una narrazione. Oggi questa canzone è cantata in tutto il mondo: perché questo successo? Certo è una bella canzone, ma soprattutto racconta una storia di amore e morte. La canzone simbolo della Resistenza (lasciamo da parte il fatto che questo accostamento sia posteriore alla Resistenza e che i partigiani durante la Resistenza non l’hanno mai cantata) non parla di imprese belliche, non parla nemmeno dei nemici; per certi versi abbassa la vicenda resistenziale ad un ambito individuale e personale. Tutto ciò però crea un’aura particolare che crea forte condivisione ed empatia. Di questo abbiamo bisogno, di parlare con le emozioni, per coinvolgere anche chi quegli eventi, se va bene, li ha sentiti nominare solo a scuola, non avendo una generazione più grande in grado di raccontarglieli.

Allora, per scendere in piazza oggi, quali sono le nostre bandiere? A mia opinione sono tre.
Quella italiana, perché comunque facciamo parte di una comunità di destino sancita soprattutto dai grandi drammi, più che dalla retorica talvolta utilizzata. Gli italiani si ritrovano uniti soprattutto quando c’è qualcosa da salvare: dopo Caporetto, nella ritirata di Russia, a seguito dell’8 settembre, nei drammi dovuti ad eventi catastrofici e, da ultimo, all’epidemia da Coronavirus. Nel bene e nel male apparteniamo a questo sentire comune, nazionale (che è importante non lasciare alla retorica nazionalista e sovranista).
La seconda bandiera è quella dell’Europa. Se l’Italia ha il 25 aprile, tutti i paesi europei, che hanno subito l’occupazione nazifascista, hanno i loro 25 aprile. La lotta e la resistenza contro i nazifascisti sono state un evento europeo. Su ciò si fonda il tentativo di costruire una casa più grande, quella europea, che come primo obbiettivo si diede quello di realizzare la pace.
La terza bandiera è, appunto, quella della pace. É una bandiera che travalica i confini e i continenti. Attorno al valore della pace ci possono stare tutti e tutti possono vivere nella pace.


Ho scritto queste considerazioni stimolato dall’essere stato coinvolto, attraverso l’Istituto storico della Resistenza, per cui lavoro, in molte attività realizzate in vista e durante questo 25 aprile 2020.


25 aprile 2020

 

Gianpier Nicoletti

Rimettere in discussione il RAPPORTO UOMO-AMBIENTE, è una necessità per uscire dalla SITUAZIONE ATTUALE – Sarà in grado la politica, e noi tutti, a stabilire finalmente un corretto rapporto tra azione antropica e Natura? con una visione che pensi anche alle future generazioni? (di GIORGIO SARTORI)

   Qui di seguito, in questo post, vi proponiamo due documenti relativi alla situazione attuale di “pandemia” (alcune cause-conseguenze e proposte per il dopo).

a) Il primo è un testo tecnico/scientifico elaborato dal WWF Italia del marzo 2020 “PANDEMIE, L’EFFETTO BOOMERANG DELLA DISTRUZIONE DEGLI ECOSISTEMI. Tutelare la salute umana conservando la biodiversità(lo potete vedere cliccando nel link qui subito di seguito a questa breve presentazione).

b) Il secondo è il documento-appello di alcuni studiosi e rappresentanti di associazioni su come gestire il dopo COVID-19. “L’uomo con le proprie attività ha alterato in maniera significativa i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani, modificando a tal punto il Pianeta da determinare la nascita di una nuova epoca denominata “Antropocene”. (dall’introduzione del documento del WWF Italia).

 Come si legge in tanti documenti e prese di posizione di molti (esperti o pseudo esperti) bisogna rimettere in discussione il rapporto uomo-ambiente; ma già sentiamo i motori di ruspe e scavatori pronti a fare grandi opere, infrastrutture per rimettere in moto l’economia, risollevare il Pil, etc.

   Insomma il tema di un corretto rapporto tra azione antropica e Natura con una visione che pensi anche alle future generazioni non è trattato con la dovuta competenza e presa di responsabilità a livello politico italiano, europeo e mondiale. Molti commentatori affermano che anche il nostro modo di pensare, i nostri stili di vita cambieranno. A mio parere, non ne sono del tutto sicuro. (GIORGIO SARTORI)

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DAL WWF ITALIA:

PANDEMIE, L’EFFETTO BOOMERANG DELLA DISTRUZIONE DEGLI ECOSISTEMI: tutelare la salute umana conservando la biodiversità. Per leggere il RAPPORTO WWF clicca qui sotto:

pandemie_e_distruzione_degli_ecosistemi (1)

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UNA PREGHIERA CIVILE PER LA TERRA

tratto da: aa.vv.   https://comune-info.net/una-preghiera-civile-per-la-terra/

18 Aprile 2020

   La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene. Il susseguirsi di malattie nuove e terribili sono la conseguenza della alterazione dei delicati equilibri naturali. È il sistema economico dominante che provoca quel progressivo deterioramento. Non possiamo più fingere di non vedere. La normalità del mondo dopo-coronavirus non può essere quella di prima. Poniamo la vita e la cura della vita al centro… . In occasione della Giornata mondiale della Terra, il 22 aprile, un gruppo di personalità del mondo della cultura, della scienza e dell’ecologia ha elaborato un documento per alzare l’impegno civile in difesa dell’ambiente e della salute a partire dall’emergenza coronavirus. Il documento si intitola: “Una preghiera civile: mai più come prima”

    L’epidemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2, con il suo tragico carico di morti e miseria, serva da insegnamento. La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. La salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta.

   Il susseguirsi di malattie nuove e terribili sempre più frequenti e virulente (Ebola, HIV, influenza suina e aviaria, afta, febbre gialla, dengue, solo per citare le più note) sono la conseguenza della alterazione dei delicati equilibri naturali esistenti tra le differenti specie viventi e i loro relativi habitat. L’abbattimento e gli incendi delle foreste tropicali, il consumo di suolo vergine, lo sfruttamento minerario, la caccia e il consumo di fauna selvatica, la concentrazione di allevamenti animali, l’agricoltura superintensiva, il sovraffollamento urbano e lo spostamento continuo di merci e persone sono le cause primarie dello scatenamento delle pandemie. Come aveva scritto inascoltato un attento osservatore dei microrganismi patogeni:

   “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie” (David Quammen, Spillover, 2012).

   Non c’è alcun “nemico invisibile”, tantomeno imprevisto e sconosciuto che ha dichiarato guerra al genere umano. Nessuna “catastrofe naturale” e nessun “castigo di Dio” si sono abbattuti su di noi. Al contrario è il sistema economico dominante che provoca un progressivo deterioramento dei sistemi ecologici, l’estinzione di massa delle specie viventi, il surriscaldamento del clima. Tutto ciò aumenta i rischi, la vulnerabilità e abbassa le difese immunitarie degli individui. La retorica sui sacrifici necessari (a partire da quelli affrontati da medici e infermieri, spesso lasciati senza nemmeno i più elementari dispositivi di protezione individuale) non basta a coprire il tracollo del sistema sanitario.

   La sottovalutazione dei fenomeni in atto, l’impreparazione e l’incompetenza delle istituzioni pubbliche a ogni livello – laddove è prevalso il modello neoliberista – hanno indebolito i presidi socio-sanitari con definanziamenti e privatizzazioni.

   L’aziendalizzazione dei servizi è andata nella direzione opposta a una medicina di territorio. In particolare in Italia abbiamo dovuto constatare un tasso di letalità eccessivo, troppi contagi registrati tra gli operatori sanitari, insufficienza delle attrezzature, mancanza di scorte di strumenti di protezione, assenza di luoghi dedicati alla quarantena, inadeguatezza dei protocolli diagnostici e terapeutici e la mancanza di un piano di emergenza e prevenzione in caso di malattie epidemiche.

   Per mascherare questi fallimenti – quasi fossero inevitabili – molti mass-media, politici e persino dirigenti sanitari hanno scelto di raccontare l’impegno per contenere la pandemia da coronavirus usando una terminologia bellica: “battaglie”, “armi”, “trincee”, “nemico”. Il linguaggio della medicina invece si esprime con parole di cura e di pace, non di guerra. Di salute psicofisica, di sollievo della sofferenza, di rispetto della dignità umana. Le guerre vere, quelle che servono per accaparrare le terre e le risorse del pianeta, la cui violenza si abbatte sulla parte più debole della popolazione civile, continuano purtroppo a essere finanziate (si pensi alla costruzione dei bombardieri F35 e dei sottomarini U-212), preparate e messe in atto in molte parti del mondo causando distruzioni irreparabili all’ambiente e grandi spostamenti forzati di popolazioni. Ha dichiarato Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU: “La furia del virus mostra la follia della guerra. Per questo chiedo un cessate il fuoco mondiale”.

   Le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno a una crisi senza precedenti con effetti catastrofici specie nei paesi più periferici (rimasti senza commesse), nei ceti più poveri (rimasti senza reddito), tra i precari (rimasti senza lavoro), tra le donne madri (rimaste senza reti e servizi), tra le bambine e i bambini. Le pandemie non conoscono differenze di classe, ma si ripercuotono accentuando ancor di più le disuguaglianze e le ingiustizie sociali. Per uscirne non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Bisognerà che quel denaro serva effettivamente ad avviare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei comportamenti di consumo.

   La salute è un bene comune globale. In quanto esseri umani siamo parte della natura. Esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione. Ogni componente organica e inorganica, dai microorganismi agli esseri umani concorre a formare un unico complesso sistema che mantiene le condizioni della vita sulla Terra. Ognuno di noi dipende dall’aria che respira, dai cibi con cui si nutre, dal tipo di energia che usa per muoversi, riscaldarsi e comunicare, dall’organizzazione sociale in cui è inserito. Siamo parte dell’universo bio-geo-fisico ed energetico.

   Il 2020 è l’anno dedicato dall’Onu alla biodiversità. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente circa il 75% dell’ambiente terrestre e oltre il 60% dell’ambiente marino sono gravemente alterati. In più, come nota il Rapporto: “L’accelerazione dei cambiamenti climatici sarà probabilmente associata a un aumento dei rischi, in particolare per i gruppi vulnerabili”. Il 2020 è l’anno della verifica dell’Accordo di Parigi sul clima, ma la Cop 26 prevista a Glasgow è stata rinviata al prossimo anno.

Sono già passati cinque anni dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile dell’Onu e molti dei target intermedi fissati al 2020, nell’ambito dei suoi 17 macro obiettivi, sono stati clamorosamente disattesi. Sono passati cinque anni anche dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato sì, ma il suo messaggio per un’ecologia integrale è stato ignorato.

   Non possiamo più fingere di non vedere. La normalità del mondo dopo-coronavirus non può essere quella di prima. Tutto e subito deve cambiare direzione, parametri di misura, valori di riferimento.

   Non vogliamo essere testimoni muti. Mai come oggi è evidente che se volessimo trarre qualche insegnamento dalla tragedia della pandemia dovremmo trasformare alla radice il sistema socioeconomico dominante capitalista, che sta mostrando tutta la sua carica distruttiva e autodistruttiva, nella direzione di una società mondiale giusta e sostenibile.

   Speriamo che la giornata della Terra del 22 aprile possa essere il momento di uscita dall’emergenza, di ricongiungimento degli affetti, di abbraccio simbolico dei parenti con i propri cari deceduti, di cordoglio di tutta la comunità, di ringraziamento per quanti si sono assunti rischi enormi nella cura dei malati e, per tutte e tutti, di un nuovo inizio dell’impegno per:

– restituire ai dinamismi naturali almeno il 50% del suolo e delle aree marine;

– proteggere e promuovere la biodiversità e il rispetto di tutte le specie viventi;

– ridurre da subito le emissioni che alterano il clima;

– fermare immediatamente tutte le guerre in corso, riconvertire le produzioni belliche e liberare risorse per la cura della salute;

– contingentare, tracciare e controllare l’estrazione di materiali vergini dal sottosuolo (combustibili fossili, metalli, altri minerali);

– fermare gli allevamenti intensivi, l’agrobusiness e promuovere l’agricoltura contadina;

– potenziare la ricerca, la prevenzione, la cura e la medicina di comunità;

– applicare sistematicamente il principio di precauzione alle trasformazioni tecnologiche che producono inquinamenti o che manipolano l’autonomia e la riservatezza personale su cui si fonda la    democrazia;

– riconoscere la soggettività delle donne, il diritto alla sicurezza anche in famiglia, all’indipendenza economica e all’autodeterminazione nelle scelte riproduttive (unica vera risposta alla crescita della popolazione);

– riconoscere alle comunità locali il potere di decisione sui propri destini e rispettare i saperi e le forme di esistenza delle popolazioni indigene;

– promuovere i beni comuni e le pratiche sociali di gestione comunitaria delle risorse sociali e ambientali di un territorio con modi e forme che garantiscano l’integrazione e la solidarietà tra comunità civili nazionali, continentali e planetarie;

– riconoscere immediatamente i diritti civili e di accesso ai servizi sanitari e al welfare per tutti i cittadini stranieri che si trovano, per qualsiasi motivo, in Italia o in un paese dell’Unione europea;

– anteporre la cura della vita alle leggi del mercato tutelando il lavoro di cura;

– garantire le condizioni di lavoro e la sicurezza di tutti i lavoratori e le lavoratrici;

– varare misure urgenti e strutturali per garantire ad ogni persona un reddito di base per una vita dignitosa;

– modificare stili di vita, consumi e produzione nel rispetto della Terra e di tutti i suoi abitanti umani e non umani;

– garantire i diritti di tutte le bambine e di tutti i bambini come rappresentanti delle generazioni future.

Questa pandemia ha toccato profondamente le nostre vite. Poniamo la vita e la cura della vita al centro.

Per adesioni inviare un messaggio alla mail: adesioni.appello2020@gmail.com

Elenco dei primi sottoscrittori del documento «Celebriamo la giornata mondiale della Terra con una preghiera civile: mai più come prima» (alla data del 15 aprile) Mario Agostinelli (Ass. Energiafelice), Ilaria Agostini (urbanista), Jean-Louis Aillon (medico psicoterapeuta), Angelo Albero (ass. Maschile plurale, Lucca), Donata Albiero (CiLLSA), Giulia Albonico Loredana Aldegheri (socia fondatrice e direttrice di MAG Verona). Amelio Anzeliero, Sabrina Arcuti, Associazione Laudato si’ di Milano, Associazione per la decrescita, Paolo Baffari, Emily Barbieri, Nicola Barbina, Marco Bersani (Attac Italia), Maria Bertolini, Bruna Bianchi (storica), Mauro Bonaiuti (Ass. per la decrescita), Marco Boschini (Associazione Comuni virtuosi), Partizia Bravo, Renato Briganti (costituzionalista), Andreina Brogani, Pierpaolo Brovedani (pediatra), Roberto Brioschi (giornalista), Paolo Cacciari (giornalista), Palo Cagnoli, Alessandro Calabria (giornalista), Marco Calabria (giornalista), Martina Camarada, Gianluca Carmosino (giornalista), Antonio Canova (Gruppo Uomini, Viareggio), Alberto Castagnola (economista), Michele Carducci (professore ordinario di Diritto costituzionale comparato e climatico),Andrea Cavallari, Marco Cazzaniga (ass. Identità e differenza), Carlo Cellamare (urbanista), Roberto Checcucci, Furio Chiaretta (giornalista), Rosanna Cima, Circolo culturale “Apodiafazzi” Comitato Stop TTIP (Udine), Paola Compassi, Comunità cristiana di base S.Agostino (Alghero), Marcella Corò, Paolo Dagazzini (Mag Verona), Daniele Degan (Laboratorio itinerante della decrescita), Leonardo de Sancti (Fefè Editore), Marco Deriu (sociolgo, univ. di Parma), Antonia De Vita (pedagogista eco femminista, univ. Verona), Giuseppina Di Crescenzo, Laura Di Lucia Coletti (insegnate, Laboratorio Venezia), Paola Dusi, Salvatore Esposito (psicologo di comunità), Giovanni Antonio Fabbris (docente univ. Sassari), Aldo Femia (economista), Carmelo Claudio Femina (ingegnere), Gennaro Ferillo (Altromondo Flegreo), Giulio Ferrara, Domeinco Finiguerra (ecologista), Raffaella Fiz, Ilaria Franchi, Francesco Gesualdi (Centro nuovo modello di sviluppo), Letizia Gigli Bruno Giorgini (fisico), Ilartia Giovenale, Sabina Giovenale (biologa), Maurizio Gritta (coop. IRIS), Gruppo Solidarietà (Ancona), Franco Guaschino, Maria Teresa Giacomazzi (presidente MAG Servizi – Verona),Silvana Ladogana, Luca Lazzarato, Emanuele Leonardi (ricercatore, univ. Parma), Giovanni Leone (architetto), Lucia Lesizza, Nino Lo Bello (Comitato Fa la cosa giusta Sicilia), Giulio Locco (Fuorimercato – Autogestione in movimento), Franco Lolli, Adriana Maestro (filosofa eco femminista), Anna Rita Maestro (medico, dirigente Asl), Gianna Magnolfi (medico psichiatra), Oliver Malcor Paola Malgaretto (architetta), Roberto Mancini (prof. Filosofia teoretica, univ. Macerata), Laura Marchetti (antropologa), Caterina Martinelli (docente di geografia), Domenico Matarozzo (ass. Maschile plurale), Ugo Mattei (giurista), Laura Matteucci, Cristina Molesini, Fabio Miscera, Alessandro Murgia (medico ematologo e oncologo), Cristina Muscelli, Edoardo Nannetti, Ferruccio Nilia, Lucia Novello (assistente sociale), Oltreconfin (distretto di economia solidale), Enrico Ottolini (Verdi Parma), Daniela Padoan (scrittrice, ass. Laudato si’ di Milano), Claudio Paolantoni, Anna Maria Paoletti (ricercatrice CNR), Giovanni Papa (ass. Polyteknos e Accoglienza), Beppe Pavan (Segreteria tecnica CdB italiane), Dario Pelissero, Tonino Perna (socio-economista), Mario Pezzella (docente), Anna Pitotti, Giulia Pravato, Maria Quintiliani, Valeria Romano, Ugo Rossi (HempRevolution), Rebecca Rovoletto (architetta), Gianluca Ricciato (educatore, ass. Maschile plurale), Rifondazione Comunista di Verona, Salvatore Ritrovato, Anna Maria Rivera (antropologa, attivista antirazzista femminista antispecista), Viviana Roveda, Pio Russo Krauss (medico), Salvatore Saladini, Adriana Sbrogiò, Adriana Schiavoni, Mario Simoncini (ass. Machile plurale), Cristina Simonelli (Coordinamento teologhe italiane), Sergio Sinigaglia (attivista sociale), Alessio Suria, Giovanna Tagliacozzo (ricercatrice per lo sviluppo sostenibile), Gianni Tamino (biologo), Massimiliano Tarantino (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli), Roberto Tecchio (formatore), Antonio Tesini (presidente Cooperativa Agricola Cà Magre e presidente MAG Mutua – Verona), Alessandra Tempesta, Nadia Tikhomirova Wanda Tommasi (filosofa), Fabrizio Tonello (giornalista, univ. Pd), Soana Tortora (Solidarius Italia), Riccardo Troisi (economista), Paolo Tubaro, Mao Valpiana (Azione Nonviolenta), Daniele Varese, Lucia Vastano (giornalista), Guido Viale (economista), Alex Zanotelli (missionario comboniano)

CORONAVIRUS: LETTERA AD AMICI IN RITIRO QUARESIMALE (riflessioni sulle possibili dinamiche di trasformazione) (di MARIO FADDA)

   La pratica marinaresca di tenere una nave alla fonda per almeno quaranta giorni, inalberando la bandiera gialla per denunciare una mala presenza a bordo, ha riproposto la QUARANTENA come soluzione non medica, ma di lungo e prudente periodo di sbollimento del pericolo: io preferisco, alla parola quarantena, la QUARESIMA, perché soffro l’isolamento come una penitenza.  Tuttavia così c’è tempo per pensare e scrivere.

   In questo momento, con l’attuale imprevedibile situazione di disagio sanitario e sociale, c’è certamente il problema di un progetto: manca la capacità di un’azione politica in grado di coniugare interventi programmabili (fare programmi significa riferirsi a cose realizzabili con riferimenti certi come quattrini e date: per esempio bilancio dello stato e ciclo elettorale) con disegni pianificabili sul lungo periodo, che – solo lui – stabilizza il cambiamento.

   Ricordo il libro bianco di Prodi come ultimo esperimento nel proporre un confronto elettorale fondato su un programma, pur con tutte le insufficienze che ne hanno causato o giustificato il declino: tuttavia l’attualità è ancora peggio.

   Programmazione, pianificazione: so di usare termini antichi, perché erano il segno di un pensiero che aveva capito i processi evolutivi, ma che è stato divorato dalla incapacità degli stessi proponenti di liberarsi di altre dinamiche, di tipo dialettico, ben più deterministiche.   Lenin se l’era cavata dicendo che il comunismo era l’idea, ma nel frattempo si accontentava del socialismo e questo “accontentarsi” gli ha regalato – a lui e a noi – stalinismo e maoismo: non per colpa, ma per insufficienza del socialismo e di chi lo praticava.

   I nostri ancora peggio: comunisti che non hanno capito (ancora adesso!) che tutto era finito, eppure il messaggio era ben arrivato da Yalta! socialisti poi affogati nel craxismo (sennò come contare, essendo minoranza nel governo!), democristiani a scannarsi con le “correnti”.

   E poi ….generali, logge, terroristi, rapimenti e chi più ne ebbe!!

BENE: PREAMBOLO DI CHI NON SA ESSERE SINTETICO, PERÒ ADESSO DICO DI OGGI.

A me pare che si debba camminare avendo chiaro un obiettivo e un orizzonte.

   L’obiettivo è riuscire ad andare fuori dal gorgo: abbiamo visto come è andata in Emilia e Calabria, sapendo che, comunque, il giorno dopo si ricomincia con Liguria e quant’altro (a maggio? o ci pensa il coronavirus?)

   Sappiamo bene che se tutte queste premesse consentono verifiche della condizione del malato, lì non si trova certo la soluzione.      Anzi, forse proprio quello che sta succedendo (totalmente imprevedibile) in questo inverno ammorbato dalla “malaria cinese” come la chiama qualcuno (si, proprio la mala aria!) ci pone di fronte a stimoli nuovi, anche se il gregge non desiste dai comportamenti del tipo “si salvi chi può”: l’immagine dei giovani in corsa sulle scale della stazione centrale di Milano, borsone al traino, o delle file con carrello fuori dei supermercati, con l’ansia di fare la spesa in tempo, fanno da contraltare all’immagine dell’infermiera svenuta con la testa sul banco.

   Che il governo regga o meno, obbligando a chiudere anzitempo la legislatura, fa poca differenza, rispetto alle dinamiche di lungo periodo, che comunque non sono alla portata dei nostri illustrissimi: perché dobbiamo trovare nuovi percorsi, da studiare su una carta geografica che non può che essere la mappa dell’Europa, con continue verifiche sul mappamondo.   Sennò il gioco è solo di chi il mondo se lo spartisce con la guerra (SIRIA, KURDISTAN e quant’altro è in mano ai mercanti di armi) o lo divora causando il disastro ambientale (dalla SIERRA LEONE, ALL’AMAZZONIA, all’ANTARTIDE, ecc.ecc.)

   Il futuro, che è già cominciato, si gioca su questioni che comunque ci consentono di pensare e agire, temi su cui calibrare interventi determinanti e in grado di sollecitare l’opinione pubblica, stimolare a proporre idee e nuove relazioni: lavoro e ambiente.

   GIUSTO E DIAMOCI DENTRO, magari cominciando nel far uscire, in casa nostra, i sindacati dal torpore (Landini, dopo che ha fatto carriera, è andato al mare? è emigrato?  E con lui tutto il sindacato che non ha mai voluto diventare europeo!)

   Io però mi preoccupo che si cominci (adesso non dopo!) anche una riflessione su quanto può cambiare/sta cambiando il modo di pensare e di agire: e qui il tema del lavoro resta, ma cambia fisionomia.

   Perché è cambiata la condizione mondiale, da quando si è affermato il pensiero del riconoscimento del valore della persona, prima proposta come ideale (quindi con l’equivoco di trasferire il valore massimo dalla persona all’idea: la persona fu valore anche per quelle epoche, ma era relativizzata in figure stranianti: il santo, l’eroe, il genio), poi faticosamente riaffermata: quel difficile passaggio da Kant ed Hegel (l’idea) a Renouvier, Mounier, e Guardini (con tutte le derive del secolo: Sarte, Marcuse e chi più ne ha…………): la persona, senza attributi e qualità eccezionali, viste come ideali, ma colta nella sua “normalità” che pure la pone, nella dinamica evolutiva complessiva, al livello più alto, date le caratteristiche di cui è dotata.

   Voglio dire che aver riconosciuto il valore di quanto la persona è in grado di capire e, quindi, di decidere ci libera dal salvarsi credendo, accettando e facendo gruppo, di volta in volta, intorno a ideale, partito, nazione, razza, ma ha lasciato una traccia deterministica, giocata sullo squilibrio tra tempi del dialogo e della comprensione e tempi della proposta e dell’attuazione, che toccando il nervo scoperto della sopravvivenza, determinano il corto circuito su cui le idee si bruciano, sicché prevale sistematicamente il potere e quindi il primato di chi se ne impadronisce.

   E quest’ultimo passaggio lo chiamiamo “politica”, con tutte le contraddizioni che derivano dal suo rapporto con la cultura.

   E tutti – vincitori e vinti – si salvano la coscienza dicendo che così è la natura umana.

L’UMANITÀ, PER FORTUNA, È UNA REALTÀ EVOLUTIVA.

Teilhard de Chardin ce ne ha messo un bel po’, lui prete, a farlo digerire ai monsignori del Santo Uffizio, ma adesso più o meno tutti lo sanno (anche se c’è qualcuno che continua a pensare che la terra è piatta!)

   La prossima dinamica evolutiva può consentire alla persona – ormai riconosciuta come valore di esprimere le proprie valenze in quanto sa e vuole produrre (il lavoro) senza ridurre questo a merce di scambio.

   E’ in atto un profondo rivolgimento che investe l’economia, il sistema produttivo e la principale risorsa umana che produce valore: il lavoro.

   E’ in atto un radicale processo di trasferimento dell’attività produttiva di beni e servizi (non di idee) dalle mani dell’uomo a mani (e cervelli) elettromeccanici.

   Credo si possa affermare, senza esitazioni, che è in atto il secondo salto evolutivo, dopo il primo che avvenne nel momento in cui il “sapiens” si rese conto che il frutto coltivato era più conveniente, perché più diffondibile, di quello colto in natura; momento contestuale con l’invenzione dell’uso degli attrezzi, utili protesi delle mani, entrambi guidati – mano e attrezzo – da un cervello ormai consapevole.

Quella fu l’evoluzione che mise la persona in grado di lavorare.

Siamo pronti per il nuovo passo evolutivo, prima che quanto noi stessi abbiamo prodotto ci conduca al rischio di sfuggirci di mano, causando l’autodistruzione della specie?

L’ORIZZONTE CI PROPONE TRE QUESTIONI:

riconoscere il lavoro come libera espressione della creatività e della competenza della persona, di cui alimentare permanentemente lo sviluppo culturale e da cui, a sua volta, derivare;

individuare e continuamente rielaborare il confine tra il lavoro della persona e quanto può essere delegato alla macchina nel rispondere ai bisogni di beni e servizi di consumo;

sottrarre il lavoro al condizionamento che, avendolo ridotto a merce, lo ha reso derivata del “valore” prodotto, in quanto viene scelto in virtù di quanto può rendere e non in base alle caratteristiche di utilità e alle qualità del proponente.

   Sospendo per ora la riflessione sulla natura del lavoro, perché comunque è preliminare osservare la questione avendo chiaro quanto oggi pesa nel “mercato del lavoro” dell’economia globale il prodotto di attività svolte essenzialmente sotto la guida dell’obiettivo PROFITTO e quanto pesa il lavoro volto a fornire SERVIZIO (pagato o volontario, che sia).

   A prescindere dai dati, comunque, si può riflettere sulla dinamica che sta inducendo un progressivo trasferimento di molte attività dall’uomo alla macchina.  E’ una situazione che sta producendo una sempre più diffusa instabilità nel mondo del lavoro, dove si chiede in maniera sempre più ampia, una disponibilità della persona a rendersi intercambiabile per mansione e ruolo, situazione vista – con occhio difensivo – come condizione di sfruttamento, ma che invece sollecita – con sensibilità progressiva – a essere colta come richiesta di una professionalità capace di riqualificazione continua (e qui c’è l’ennesimo fallimento o miopia: l’occasione fu persa con il cattivo esercizio della formula della formazione permanente, o continua: la banalizzazione – o se vogliamo l’insufficienza – dell’esperienza delle 150 ore!).

   Qui si pone, assolutamente determinante, la questione di una radicale revisione del sistema scolastico, sul piano culturale e pedagogico, prima che didattico e organizzativo!

PROVO A FARE UN PUNTO.

Nei prossimi 50 anni (due generazioni di ammessi al lavoro, più o meno dieci cicli elettorali, se la smettiamo di anticiparli con lo sbranamento continuo in parlamento) l’obiettivo è riproporre a scala mondiale le strategie del sindacalismo europeo ottocentesco: giusta remunerazione, rispetto delle condizioni del lavoratore, parità uomo/donna, ecc. ecc.

   Ce la faremo a estendere al globo quello che gli europei si sono dati, trasferendo sul “terzo mondo”, con colonialismo e multinazionalismo economico – equivalenti dal punto di vista dello sfruttamento – la parte più onerosa delle conquiste dei lavoratori? PER ORA LA VEDO DURA, anzi vedo una prospettiva di livellamento mondiale su quote ben più basse di “difesa dei lavoratori” (Torna, Landini, torna, ma mettiti a discutere con chi si sta mangiando il mondo!)

   Sapendo poi, che di anni ne abbiamo ancora per un paio di secoli (Mercalli assentendo!), per evolvere nella separazione tra lavoro e mercato, cioè per sottrarre il lavoro alla sudditanza dal denaro.     Ma questo è un problema, come accennavo prima, di cambiamento di punto di vista e qui comincia un ragionamento più complicato.     In questo inverno, ho già ricordato, si è superato l’esame con l’Emilia e Romagna (superato, sia fa per dire! perché la Calabria ha consentito anche agli altri di tirare il fiato) e adesso viaggiamo incoronati da virus.

CERCO DI ESSERE SERIO.

Riassumo quanto mi è risultato dalle ultime chiacchiere che sono riuscito a fare in giro e riparto anche dall’idea di “usare” Ernesto e Italo (due anni di tempo) per aprire nuove piste da seguire, quindi vado per punti.

1 – La prima idea usa come riferimento di base l’esperienza del “federalismo” che ha coinvolto entrambi i nostri antenati, anche se in forme diverse: federalismo vuol dire Europa.

   Credo utile discutere delle prospettive che si possono intravvedere, avendo alle spalle l’esperienza “europeista” a partire dalle idee dei padri fondatori fino all’attuale gestione, interloquendo con alcuni settori: ne indico alcuni, che a me sembrano molto importanti:

a) livelli elevati di formazione e i loro esiti internazionali;

b) la generazione “ERASMUS” tanto per intenderci e gli sbocchi che questa esperienza consente: a me pare che si faccia un gran baccano sulla questione dei nostri laureati che non trovano lavoro e devono emigrare; non è questo il problema grave: ce ne fossero di ragazzi che fanno le loro prime esperienze di lavoro girando per il mondo, il problema è, invece, se riusciamo noi a far rimanere dopo la laurea qualcuno bravo a fare ricerca, delle migliaia di studenti stranieri che in questo momento stanno studiando in Italia;

c) La questione della formazione e dell’orientamento al lavoro;

   Stando alle ultime statistiche, mentre soffriamo per l’alto numero di disoccupati, abbiamo ampie categorie che offrono occupazione e che non sono soddisfatte per insufficiente capacità del settore della “formazione e orientamento al lavoro” di dare un sostegno adeguato; insomma, la vecchia formazione professionale non funziona più?   È fortemente differenziata regione per regione?   Esiste una possibilità di confronto europeo?

   La qualità del lavoro e le difese sociali sono un tema che non ebbe patria comune al momento in cui gli europei cominciarono a guardarsi in faccia; ricordo i tentativi di far decollare (fine anni ’60) un sindacalismo europeo subito dopo l’ “autunno caldo”: naufragarono miseramente per l’assoluta incapacità di una visione strategica in tal senso; per fare un esempio, ricordo che nella CGIL di allora molti comunisti erano ancora a guardare la colomba della pace, figuriamoci a lavorare con i tedeschi di Bonn!

   Per non parlare di Coldiretti che non aveva nessuna idea di collaborazione con i compagni francesi, peraltro completamente impregnati di visione localistica. Pensate un po’ se DI VITTORIO avesse ridotto la questione bracciantile alla sola difesa dei pugliesi. Ma la sua capacità di rendere il problema un interesse dell’intera Italia, cinquant’anni dopo non la si ebbe nel traslare all’Europa dal locale al globale e oggi tanto meno, quando la questione del lavoro sta diventando mondiale: non penso certo a un sindacato a quella scala, ma bastano le sceneggiate come le conferenze ONU in materia?

2 – La seconda domanda, che l’esperienza di Ernesto e Italo ha anticipato, riguarda la relazione tra cultura e politica.  Qui credo che il percorso che Luca e Giorgio hanno intrapreso nel mondo dei filosofi sia di guida.    Io aggiungo una sollecitazione a pensare l’internazionalizzazione del gruppo: non si tratta di “diventare importanti” o “di contare” nel mondo degli intellettuali, ma della necessità di porsi a livello di competenza e di confrontabilità, fondati su conoscenza diretta e scambio reciproci, con chi oggi ha perfettamente capito che i livelli di discussione, di decisione e di azione, che hanno importanza strategica, richiedono relazione diretta e scambio interpersonale a scala confrontabile.       Ma in fondo, non è sempre stato così?     E tuttavia, sembra così difficile superare barriere linguistiche, di estraneità tra vicini e quant’altro rende fuori scala e inconfrontabili con un mondo globalizzato e di cui Amazon è bandiera, mentre la CULTURA soffre le barriere linguistiche e la POLITICA è solo difesa di interessi nazionali.

   Qui si pone una frattura che va superata.     C’è un mondo vitale, fortunatamente attivo, capace di continuare a manifestarsi in percorsi individuali, che spesso si incrociano e confrontano, che costituiscono il tessuto vivo della cultura, in qualche modo capace di confrontarsi in uno scambio che supera limiti geografici e ideologici.

   Manca però un livello organizzato che renda stabile, estesamente noto e accessibile il patrimonio di idee che si accumulano nel tempo, spesso quindi riconosciute solo a posteriori (la tipica “riscoperta” di cui soffre buona parte del patrimonio culturale, che diventa risorsa d’archivio, perdendo la potenzialità di essere lievito attivo in vita): quante “fondazioni” e “istituti” nati per essere testimonianza attiva di vicende cariche di novità, diventano mausolei celebrativi di “eroi del passato” trasformati in mummie da museo!

   Riducendo la riflessione a una formula, dirò che la cultura ignora quanto potrebbe esprimersi politicamente per rendersi successivamente utile, cioè per utilizzare anche una valenza economica, senza cadere nell’equivoco di ritenere che il primo passaggio significhi entrare nell’area dove le idee sono strumentalizzate nei rapporti di forza e utilizzate solo se vendibili come bene consumabile.

3 – Il terzo e ultimo interrogativo che mi sollecita si pone là dove un pensiero che, già alcuni anni orsono, Ernesto e Italo collocavano a livello mondiale, per essere in grado di agire quotidianamente nell’ambito locale e che conduce a considerare la relazione che ciascuno deve essere in grado di stabilire tra le proprie finalità e il proprio agire, attraverso la considerazione e la giusta valutazione delle condizioni storiche in cui si vive.

   Questo passaggio pone due questioni su cui sarà utile riflettere e lavorare: la considerazione e la valutazione di quello che da tempo abbiamo definito “il nodo storico” e l’utilità/necessità/capacità di ciascuno e di tutti di disporre di un proprio progetto (o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare) di come vediamo e vorremmo migliorare quanto ci sta intorno (per non apparire megalomane non uso la parola “mondo”, ma quella è la dimensione in cui viviamo) e avviare il lavoro di comunicazione, scambio e integrazione.

VOGLIAMO PROVARCI?

La quarantena continua:   15 marzo

A poco a poco l’inziale simpatia esistente in seno all’elettorato non impegnato si dissipò in parte e si fece sentire un minaccioso senso di frustrazione e di disagio.  Col passare degli anni, i vari Presidenti del Consiglio…videro così sempre più ridursi la loro maggioranza e divenne arduo per loro formare una coalizione efficiente senza spostarsi a sinistra o a destra.  Nessuna alternativa di governo era concepibile……..”       Questo scrisse DENIS MACK SMITH nel 1958, descrivendo i dieci anni postbellici, alla vigilia del cambio di marcia nella politica italiana, da cui cominciò la contraddittoria stagione detta del “centrosinistra”.

   Mutatis mutandis, sembra una descrizione molto vicina a noi, anche se le etichette partitiche applicate sui gruppi parlamentari appaiono diverse: sono cambiati simboli e sigle, ma la disposizione delle componenti ideologiche e dei conseguenti rapporti di forza (pur mutevoli in funzione elettoralistica, sono più o meno sempre gli stessi, in presenza dell’evoluzione del pensiero dei punti di riferimento di base nella sinistra, con i cambiamenti radicali nei paesi “comunisti” e della destra conservatrice, sempre meno – seppure solo ideologicamente – liberale e sempre più pragmaticamente legata alle convenienze di un sistema capitalistico privo di effettiva capacità di orientamento e controllo da parte dei sistemi di governo politico.

Per chi avesse memoria o avesse voglia di riprendere la storia italiana dall’unità in poi si porrebbe la domanda: “che cosa è cambiato?

   Il problema che sembra poco approfondito è il rapporto tra l’elaborazione culturale e i tempi di cui necessita la parallela vicenda politica, in cui la fase di maturazione e decisione sono determinati dall’evolvere dei rapporti di forze tra i soggetti in campo e le dinamiche di potere che ne derivano, a loro volta fortemente condizionate dai poteri economici.

   Con questa premessa, il lungo periodo di deterioramento della prima metà del secolo XX, occupato dalla seconda “guerra dei trent’anni”, ha un esito non dissimile dalla prima, conclusa con la pace di Westfalia: in quel tempo, fatta la pace, i paesi continuarono a collidere, naufragando nelle contraddizioni delle rivoluzioni americana e francese (liberté non per tutti, égalité solo tra simili e fraternité di là da venire), del bonapartismo (dove il capo evolve dall’essere rivoluzionario e repubblicano fino all’autoincoronazione, con forzata benedizione papale) e della rivoluzione comunista, con il gioco dichiarato di spostare la meta in un radioso futuro non databile e accontentarsi, nell’attualità, della fase socialista.

   La seconda volta il naufragio è mondiale, guidato dall’evoluzione del conflitto, che deflagra europeo, ma è già descritto come mondiale, per divenire veramente globale nei trent’anni che intercorrono tra il 1914 e il 1945 con la rivoluzione russa, le varie esplosioni dittatoriali (Ungheria, Italia, Spagna) il disastro nazista, la successiva spartizione dell’Europa tra le due superpotenze, che progressivamente annichiliscono il ruolo di Francia e Gran Bretagna, che perdono il loro dominio mondiale, a suo tempo realizzato tramite il sistema coloniale, da cui era sparita nel frattempo la Spagna.

   E’ un lungo periodo che tocca almeno due generazioni e che in Italia e in Germania, ma non solo, offre tuttavia il vantaggio di tradursi nella possibilità di una elaborazione culturale con un tempo sufficiente per consentire confronti di idee e scelte di campo.   Sicché la resistenza armata durante gli ultimi due anni di guerra ha successo anche per il sostegno che le deriva da forti supporti etici e culturali diffusamente condivisi.

   Non voglio dire, con questo, che il mondo della cultura fosse diventato capace di prevedere e anticipare la necessità di sottrarsi al processo di schieramento politico: proprio la cultura di sinistra e quella cattolica furono, anzi, le principali responsabili di fenomeni di adattamento e sudditanza, per non dire che la cultura di destra (inutile ormai battezzarla come borghese) fu spesso assente, “in altre faccende affaccendata”.    Ma nel trentennale dibattito successivo alla fine della guerra mondiale resta l’influenza di una sensibilità culturale che tenta di crescere e interferire su vicende come, per esempio, l’elaborazione di carte costituzionali, le proposte e le attività di istituzioni e organismi sovranazionali (Comunità Europea, Nazioni Unite, accordi sovranazionali sia pur limitati al mercato – MEC e Mercosur – e alla difesa –NATO,  e patto di Varsavia -) e infine lo stesso dibattito parlamentare, sia pure talvolta aggressivo come in Italia e Francia, o ipercontrollato come all’Est.

   Nei successivi decenni, ormai quasi mezzo secolo per giungere ad oggi, il processo più preoccupante appare quello che rende ogni valenza relazionale assoggettata alle sole regole della politica guidata dagli interessi nazionali, trasformata in urgenza decisionistica, tutta determinata e giustificata dal supporto ideologico, ormai degenerato in permanente conflitto tra gruppi di potere.

   SIAMO PUNTO E DACCAPO, con il degrado del pensiero libero e liberante dei “lumi” che affoga nella confusione dello schieramento assembleare, dove c’è solo spazio per il conflitto e l’esercizio dei rapporti di forze e magari con l’autoisolamento sui banchi alti (siamo daccapo con i “montagnardi”?) o nei partitini del 3%, espressione di indipendenza impotente, utili solo saltuariamente per realizzare equivoche alleanze di comando o integrare impotenti aree di opposizione.

   Oggi occorre ricostruire uno schema di relazioni che, nell’assoluto rispetto degli specifici piani e tempi di elaborazione e maturazione di quanto si ritiene comunicabile all’esterno, consenta un confronto e una sinergia (chissà che ne derivi un’integrazione!) tra la presa di coscienza, cioè la dimensione etica, la capacità di elaborare ed esprimere delle idee, cioè la dimensione culturale e la dimensione politica, infine la messa in relazione delle diverse proposte, la gestione della dialettica che ne consegue e l’elaborazione di un progetto di realizzazioni, determinate sulla base di risorse utilizzabili, cioè nel tempo e nello spazio

   Questo comporta almeno DUE QUESTIONI FONDANTI ogni possibilità di transizione verso un nuovo modello di società.

   LA PRIMA QUESTIONE riguarda i tempi e i modi di esercizio della facoltà, per il cittadino, di decidere quale linea di governo accettare e sostenerne la realizzazione.

   Il modello statunitense e francese è fondato sulla indiscutibile decisionalità presidenziale (con qualche margine di messa in discussione negli USA, nella dialettica con la Camera dei rappresentanti, che ha competenze forse più ampie che nel Parlamento francese); il modello tedesco gode di un certo riequilibrio tra governo centrale e governi regionali, che hanno qualche modesta elasticità in più rispetto al modello italiano, dove solo il collegamento del senatore al proprio collegio dovrebbe garantire una minore estraneità dell’elettore alle vicende parlamentari, collegamento che in genere però affoga nella palude delle gerarchie di partito.

   Tuttavia tutti questi modelli di attività parlamentare si sono tradotti, con una pratica ormai bisecolare, in un continuo esercizio conflittuale, registrato ed enfatizzato dai mezzi di comunicazione.

   Sicché progetti politici e programmi elettorali sono ridotti a quadri esibiti periodicamente in fase elettorale, per essere spesso modificati contraddittoriamente in virtù di adattamenti al corso degli eventi, con modesta coerenza di idee e propositi.

   Dobbiamo capire che è finita un’epoca, senza aspettare che siano i “barbari” a dimostrare che “l’imperatore augusto” non c’è più.

   I barbari sono già in moto: le invasioni non si chiamano più con il nome delle tribù gotiche o mongole che non vedono l’ora di vedere Roma (e mangiarsene un pezzo di quel che rimane!), ma sono ben riconoscibili nella spartizione di aree di influenza e controllo commerciale: CINA, STATI UNITI e RUSSIA, con grande distacco di tutti gli altri.

E QUI STA IL GRANDE NUOVO EQUIVOCO IN CUI RISCHIAMO DI CADERE.

Se guardiamo una delle tante rappresentazioni della distribuzione della ricchezza nel mondo (l’immagine privilegiata è, non a caso, la piramide) si capisce che le tre cosiddette potenze sono già un primo livello di strumentazione con cui il vertice della piramide può e intende manovrare.

   Vertice che, sul piano etico e culturale, non è certo omogeneo, nel senso che i soggetti che lo compongono vivono ognuno per sé: questo non è una qualità etica, ma un fondamento di violenza e sopraffazione, in cui la collaborazione è prevista solo per coincidenza di interessi.

   Sulla base di corrispondenze geografiche o di casta si generano alleanze che durano finché regge l’interesse comune, ma sono complessivamente dotate di lunga vita nella pervicace capacità di mantenere il controllo dell’insieme.

   Poi, nell’emergenza del coronavirus – ma non solo – appaiono subito dei nuvoloni.

   La Stampa di mercoledì 25 marzo espone una lunga riflessione sull’ENI e sui rischi di un attacco borsistico (mi verrebbe da giocare sui termini: agente di borsa…borsaiolo… ma forse è troppo irrispettoso!)   Allora la faccio breve, ma già si accampano timori per una delle poche aziende italiane (lo è ancora?) che stanno nelle Borse che contano, per le conseguenze che l’attuale crisi potrebbe avere su di essa.   In altre parole, mentre l’angoscia prende chi usa l’autobus e compra al supermercato, quindi deve stare a contatto con altri a rischio di infettarsi, c’è chi pensa a come usare questa crisi per alzare sempre di più il pinnacolo della piramide di cui si diceva poc’anzi.

   Tutto ciò mentre si scatena nelle reti l’iradiddio di notizie e contro notizie che parlano di “complotti-sars-ebola-coronavirus”: comincia la caccia alle streghe!

   Ma intano – insisto – c’è già chi pensa ai giochi di borsa.

Come finire con questo andazzo, prima che tutto crolli?

Terza puntata: venerdì 27 marzo

Dopo tutto il coronavirus consente qualche pausa, ma è meglio sbrigarsi, perché ben altre ansie crea l’allarme ambientale.

   Credo che si debbano affrontare DUE QUESTIONI che rimettono in discussione ampia parte del modo di pensare e agire contemporaneo.

   LA PRIMA QUESTIONE riguarda il ruolo del lavoro e che cosa esso significhi nella vita umana.

   Il passaggio è concettualmente di grande semplicità, ma la sua realizzazione storica è assolutamente rivoluzionaria: il lavoro è l’espressione della capacità della specie umana di pensare, capire, decidere, dotarsi di strumenti e agire, con modalità adeguate rispetto alle condizioni del tempo in cui ciascuno vive e ai risultati che si intende raggiungere.

   Il passaggio logico che il momento richiede è di evolvere da una visione orientata verso il benessere individuale a un’ottica di bene comune: perché ciò sia possibile, occorre che il lavoro non sia più scelto, svolto e verificato in funzione di quanto riesce a vendere, ma in quanto consente l’espressione e la valorizzazione delle attitudini personali, al massimo delle loro potenzialità creative.

   La parola chiave è valorizzare: non si tratta più di riconoscere valore al lavoro attraverso la valutazione di quanto esso produce di interessante per il mercato, ma di consentire la più libera e alta espressione culturale e produttiva del soggetto che lo esprime.

   Infatti, il lavoro riconosciuto solo per quanto immette i suoi esiti nel mercato, ne subisce l’azione di unico arbitro in base alle convenienze che questo individua, trasformandolo in merce e quindi inducendo in ciascuna persona un meccanismo di scelta che non è più guidato da gusto e creatività personale, ma dalla sola speranza di guadagno.

   Da tutto ciò deriva l’ormai millenaria pratica di indurre in ogni persona scelte di lavoro che solo per minime minoranze si fondano su attitudini e gusti personali, tuttavia sottoposti a selezioni talvolta crudeli: di Picasso e di Ronaldo ce n’è uno, ma quanti sono i pittori morti di fame e i calciatori di serie B, C, ….Y e Z?

   Tutto ciò fa emergere UNA QUESTIONE DI FONDO che, se affrontata, potrà generare notevoli cambiamenti nei rapporti sociali.

   Occorre sottrarre il lavoro alla limitazione di essere preso in considerazione attraverso il suo prodotto, quindi alla sola disponibilità che ne consegue di trasformarlo in denaro utile per accedere ai beni di cui si ha bisogno: il che pone la questione di come consentire a tutti l’accesso a quanto è necessario per vivere.

QUI OCCORRE UN’ALTRA DIGRESSIONE.

Un recente documento divulgato dalla “Casaleggio Associati” (https://youtu.be/br0Ptwt2ZwI) descrive qualche prospettiva delle trasformazioni in atto, con una visuale estesa al prossimo mezzo secolo.

   In esso viene accennato al modo in cui in futuro sarà fornito quanto serve alla persona per le proprie esigenze di cibo, vestiario, assistenza, persino divertimento e tempo libero.

   Prevale la macchina, non solo con gli automi portapacchi di Amazon, ma con la produzione di buona parte di quanto sta nel pacco.

   Peraltro, chiedo ai torinesi se ricordino che proprio a Torino si cominciò a produrre buona parte dell’automobile mediante macchine: per anni non fu proprio COMAU un vanto di questa città? Solo che, mentre il produttore di auto si rompeva il capo su come ridurre i costi del lavoro, imboccando la strada di mettere automi al posto di metalmeccanici, in parallelo non ci fu (non c’è tutt’ora!) azione culturale e sociale orientata a offrire soluzioni non sotto forma di nuovo posto di lavoro-merce, ma di elevazione culturale e libertà creativa.

   Ecco dove si colloca il rimpianto per il fallimento delle “150 ore”!

   Alcuni aspetti del problema, sostanzialmente quelli connessi con la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, oggi sono affrontati da scuole di alto livello come, qui a Torino, nei programmi del Politecnico, essendo però assente ogni considerazione riguardante gli aspetti della collocazione degli esiti di ricerca, innovazione e innalzamento del livello di conoscenza individuale oltre le barriere del lavoro inteso come prodotto per il mercato.

   Un secondo approccio che fu tentato e che voglio brevemente ricordare fu quello con cui si avviò la stagione cosiddetta del “centrosinistra”, che ho già ricordato.

   I socialisti, entrando al governo, si proposero di introdurre una pratica di forte valenza culturale, di orientamento economico e sociale, dotato di respiro strategico, ampio e sufficiente per consentire un cambiamento delle prospettive del Paese: si chiamava “programmazione”.

   Un’iniziativa ambiziosa si denominò “progetto 80” dove il disegno di nuovi indirizzi economici e di riequilibrio sociale si traduceva in un quadro espresso perfino con precise collocazioni territoriali (una manna per geografi e urbanisti dell’epoca).   L’idea, però, non andò oltre la modesta elaborazione di documenti di indirizzo, esaurendosi in alcuni programmi di nazionalizzazione (telefonia, reti elettriche: importanti, ma isolati) e subendo poi il degrado dell’assoggettamento alle logiche di redistribuzione di poteri e convenienze, nella contrattazione tra le segreterie dei partiti.

   Allora TORNO ALL’ESPERIENZA DELLA MATURAZIONE DI LUNGO PERIODO, che fu consentita dal dramma della lunga guerra, suggerimento della necessità di avere ben distinto il piano della elaborazione culturale, che richiede tempi e dinamiche adeguate, da quello della gestione politica, da obbligare a verifiche con termini precisati in programma.

LA SCUOLA

Ecco un nodo: la scuola: forse “il” nodo.

   Però qui non voglio proporre una inutile idea di riforma, come quella storica, tutt’altro che inutile ma fortemente orientata di poteri del tempo, che fu detta della scuola “dell’obbligo” (orrenda parola: invece di chiamarla “della liberazione”, dall’ignoranza, dalla diseguaglianza; chiamarla obbligo: così il maestro ci va con la bacchetta e il bambino la odia da subito! cretini!) o quella unificata, magnifica idea di Gozzer e dei gozzeriani, ma distrutta sul nascere, perchè prima di attuarla bisognava formare gli insegnanti: ma tant’è le riforme si fanno quasi sempre partendo dalla parte più facile, non da quella più giusta e in questo caso fu l’affiancare alla “professoressa di italiano, latino, storia e geografia” il tecnico proveniente dall’avviamento professionale, denominato “professor di applicazioni tecniche”, rendendone equivalente il giudizio in seno al Consiglio di classe.   Non discuto il valore del secondo, ma certo la prima ne uscì con le ossa rotte!   Altri percorsi avrebbero consentito una maggiore considerazione dei contenuti professionali, pur nel rispetto del principio di eguaglianza nella disposizione dei ruoli.  Oggi la scuola (soprattutto la “media inferiore”) ha raggiunto livelli di maggiore equilibrio: la maggioranza dei professori di educazione artisti e tecnica sono dotati di laurea, ma le due generazioni intercorse hanno prodotto un notevole degrado del livello di formazione espresso in materie che un tempo costituirono un valore dell’istruzione.  Sicché la scelta, a quattordici anni, di un percorso di studi umanistico/filosofico appare un vezzo di minoranze più terrorizzate dai teoremi matematici, piuttosto che aperti verso la cultura cosiddetta “classica”.

   Inoltre, avere semplicemente soppresso discriminanti come l’esame di ammissione alla scuola media inferiore e avere eliminato il dualismo tra questo tipo di scuola e quella di avviamento professionale ha consentito di concepire l’estensione dell’obbligo (sempre quello, accidenti!) a livelli di età superiori, costituendo un momento di affermazione di un principio di eguaglianza ed elevazione sociale, pagato però con uno scadimento della qualità il cui recupero mostra rarissimi, isolati segni di ripresa, in cui l’iniziativa personale spesso si esaurisce sulla parabola del percorso individuale, tanta è la resistenza dell’isteresi istituzionale.

   Se l’approdo della riflessione precedente è stato visto nella necessità di reimpostare una strategia culturale di lungo periodo, è chiaro che ciò investe in pieno l’idea complessiva di istruzione scolastica, con tutto l’equivoco di fondo che la condiziona dalla sua origine.

   Pensata dal grande filosofo come fondamento della possibilità per ogni persona di giungere, ben sostenuta, a possedere cultura e capacità di discernere e decidere, venne ridotta da subito a supporto per distribuire forme gerarchizzate di istruzione, sufficienti per immettere masse crescenti nei livelli diversificati del sistema produttivo, che si andava modernizzando con quella che sarà chiamata “rivoluzione industriale”.

   In parallelo, la scuola si prestò a educare la stessa massa nell’essere disposta a costituirsi in macchina aggressiva di conquista e di sopraffazione, fino al genocidio dei popoli aggrediti con il colonialismo, fino alla eliminazione del diverso nei campi di sterminio, fino alla cancellazione di qualsiasi pensiero alternativo nei gualg.

I processi culturali si dividono pertanto da subito in alcuni percorsi specifici: iniziando con quello della “pubblica” istruzione, egualitariamente modesta, per divedersi poi nei ruscelli della creatività, soprattutto letteraria e poetica che confida nel mercato, quello della ricerca scientifica, richiesta e sostenuta (che si traduce in acquistata) dalla nascente cultura industriale.

   La cultura si identifica, dunque, nel suo prodotto, erogato per obbligo, o venduto ai curiosi, o valido in quanto innova prodotti industriali, fino al rimedio medicale, fino a quanto serve per fare guerra, o per invadere mercati.

   Ripartire dai sistemi di istruzione (la parola scuola è ormai definitivamente riduttiva, ma speriamo che tutti insieme sapremo riqualificarla per senso e ruolo) richiede un radicale ripensamento e riposizionamento del rapporto tra processi culturali e meccanismi decisionali su cui poggia la costruzione di regole di decisione e azione nella società contemporanea, quelle ormai ridotte alla sola visione di convenienza nell’orizzonte piccolo del cosiddetto schieramento politico.

   Il caso brexit o l’attualissimo conflitto sul quantitative easing sono le occasioni più recenti su cui riflettere: brexit è il comportamento di un potere politico, che si incarna nel governo britannico, che da almeno due secoli è uso scaricare all’esterno del proprio Paese gli effetti negativi delle proprie decisioni in campo economico.  La storia è istruttiva: prima toccò ai paesi dell’Impero pagare le riforme sociali attuate sul suolo inglese (piuttosto che britannico, non dimentichiamolo!), poi – entrata in Unione – la Gran Bretagna ha accettato di liquidare buona parte del suo apparato industriale, mantenendo rigoroso controllo sulla parte finanziaria, con il sistema bancario e il più poderoso sistema assicurativo mondiale (da cui il campanello d’allarme di non accettare l’€); modello che fa capire le attuali durezze germaniche (che copioni!!) che si esprimono ormai in ogni occasione di rischio – gli squilibri nei bilanci dei singoli Paesi dell’Unione o l’attuale crisi coronavirus – nell’alzare barricate anche verso autorità – che dovrebbero essere gerarchicamente superiori, ma si sa che il potere ha le sue logiche! – come nel caso della BCE che non la vince sulla Bundesbank.

   La situazione che stiamo vivendo, nella sua drammatica eccezionalità, consente, forse impone, di riflettere sulle possibili dinamiche di trasformazione del sistema scolastico, costituendo, per vari aspetti, un taglio drastico con la didattica tradizionale: basti pensare a quanti neofiti (sia insegnati che studenti) sono obbligati per la prima volta a sperimentare la didattica a distanza.

   E’ il momento buono per lanciare qualche sasso nello stagno. (MARIO FADDA)