L’ACCOGLIENZA PAGA IN GERMANIA: I MIGRANTI REGGONO L’ECONOMIA (di LISA DI GIUSEPPE, dal quotidiano DOMANI del 27/9/2023)

DOVE IL WELFARE FUNZIONA – Berlino ha sviluppato un sistema che offre lavoro e integrazione. È costoso, ma viene ripagato dalle tasse che i nuovi arrivati pagano – La principale differenza rispetto al sistema italiano è che lo stato sovvenziona corsi di lingua e integrazione che facilitano la ricerca di lavoro –

   L’accoglienza che paga è un orizzonte possibile, neanche troppo lontano da noi. A proporre un sistema che sta iniziando a dare i propri frutti è la Germania, in queste ore oggetto degli attacchi più feroci dei leghisti, arrivati a paragonare le invasioni dei nazisti alle ondate di migranti in arrivo sulle coste italiane.

   La Germania ha sì smesso di partecipare al meccanismo di ripartizione volontaria dell’Unione europea, e quindi ad accogliere migranti dall’Italia in attesa del momento in cui Roma riprenderà i suoi “dublinanti”, cioè quelle persone che sono state registrate per la prima volta nel nostro paese e quindi andrebbero gestite da Roma. Ma sta comunque gestendo numerosi arrivi.

   I dati hanno subito un’impennata dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e oggi siamo già oltre un milione di rifugiati. Una situazione che ricorda il 2015, quando in Germania erano giunti tantissimi siriani in fuga dal conflitto nel loro paese. All’epoca era stata fissata una quota indicativa di migranti da accogliere ogni anno nel paese, che dovevano essere all’incirca 200mila. Quella quota non è più stata superata, se non nel 2022, ma paradossalmente da allora anche i detrattori hanno iniziato a cogliere i vantaggi economici dell’integrazione.

   Il valore dei migranti in termini di forza lavoro ha iniziato a essere apprezzato pienamente, e fin dal 2015, quando l’allora governo Merkel aveva investito sei miliardi di euro nella gestione del problema. Gli investimenti sono stati costanti per costruire un sistema che rendesse l’inserimento dei migranti nella società e nel mercato del lavoro sempre più facile.

Il sistema

Oggi chi arriva in Germania viene assegnato, in base a un algoritmo che considera la popolazione locale e il paese d’origine, a un centro di prima accoglienza in uno dei sedici Land. Gli vengono garantiti vitto, alloggio e assistenza sanitaria e la persona può presentare immediatamente domanda d’asilo. L’esame della richiesta si esaurisce in genere in sei-sette mesi: la grande differenza rispetto a quel che succede in Italia è che durante questo periodo i richiedenti asilo possono partecipare ai corsi di lingua e di integrazione organizzati dalle amministrazioni locali e dai centri per l’impiego. I dettagli di ogni sistema regionale sono determinati dai singoli Land, ma il pensiero alla base è simile: prima il migrante inizia a lavorare, prima inizia a pagare le tasse.

   Un circolo virtuoso che permette di ripagare gli investimenti esosi che il sistema richiede e in prospettiva garantisce al paese la forza lavoro necessaria che la natalità in declino non può più fornire. Insomma, una scommessa che dal 2015 a oggi sembra aver pagato: il 54 per cento delle persone che sono arrivate in Germania sei anni fa ha un posto di lavoro, due terzi di queste possiedono un contratto a tempo pieno. Nel primo anno successivo all’arrivo soltanto il sette per cento ha un impiego: la prova evidente di come i corsi di integrazione e lingua (anche di linguaggio di settore) finanziati interamente o almeno in parte dallo stato facciano la differenza. Certo, bisogna spendere diverse decine di miliardi di euro annui (sono stati 21,6 nel 2021, circa il 4 per cento della spesa pubblica di quell’anno).

   Il sistema di accoglienza ha fatto il salto di qualità soprattutto nel 2015, quando è stata potenziata la possibilità di assumere i richiedenti asilo e di far svolgere percorsi di formazione professionale a chi non ne possedeva una: un investimento delle aziende sui nuovi arrivati che li ha anche motivati a spendersi poi per la loro permanenza in Germania e in azienda.

   L’altra gamba su cui cammina il sistema d’integrazione è un solido meccanismo di welfare che assiste i migranti nella richiesta di sostegno finanziario allo stato, per esempio per quanto riguarda l’affitto o le prestazioni sanitarie. Dopo l’assegnazione nella struttura di prima accoglienza, i migranti vengono infatti ripartiti sul territorio regionale, in base alla popolazione delle singole città e tenendo conto anche della presenza di eventuali comunità di connazionali: a quel punto, le persone vengono seguite dall’amministrazione locale e da società private che lavorano per lo stato e aiutano i migranti nei loro primi mesi in Germania.

Legalità e lavoro

L’obiettivo ultimo del sistema è di tenere i migranti il più possibile fuori dai circuiti paralegali e inserirli nel mercato del lavoro e nel sistema pensionistico. Un principio che vale anche per chi si è visto negare la richiesta d’asilo ma non è stato ancora rimpatriato: anche a questi migranti è concesso lavorare in un regime di tolleranza, una condizione che riguarda circa 240mila persone. Anzi, il governo “semaforo” (Spd-liberali-Verdi) ha anche implementato una sanatoria che concede il permesso di soggiorno a chi è in questa situazione ma rispetta una serie di condizioni.

   La maggioranza vorrebbe ulteriormente intervenire sulle norme che regolano permanenza e integrazione e accelerare le procedure di concessione del diritto di asilo. L’economia poi continua ad aver bisogno di nuova manodopera, motivo per cui il governo sta organizzando una campagna per attrarre nuovi lavoratori con le competenze più necessarie al mercato del lavoro tedesco. Di fronte a un bisogno di almeno 400mila lavoratori migranti ogni anno, attualmente la Germania ne attira ancora troppo pochi: nel 2019 sono stati appena 39mila, nel 2020 29mila.

   “Make it in Germany”, promette il ministero dell’Economia sul suo sito. I lavoratori specializzati potranno infatti accedere a una corsia preferenziale organizzata in base a un sistema a punti: il sistema è estremamente vantaggioso, i tempi burocratici sono ristretti e il ricongiungimento familiare è più semplice. La fame di forza lavoro arriva al punto tale da proporre anche programmi ad hoc a lavoratori con formazione non universitaria e studenti universitari. Tutto pur di non rimanere senza le braccia necessarie a tenere in piedi l’economia. (LISA DI GIUSEPPE, dal quotidiano DOMANI del 27/9/2023)

IL RAGAZZO, IL BIMBO E LA VERA SOLIDARIETÀ (di MASSIMO AMMANITI, da “la Repubblica” del 21/9/2023)

POLLICINO A LAMPEDUSA

LA STORIA

   Quantunque le favole abbiano perso la loro attrazione per i bambini, sostituite dai video divenuti ormai indispensabili, riuscivano a mettere in scena le paure e i terrori che turbavano le loro giornate e i loro sogni.  Nella famosa favola di Perrault, Pollicino veniva allontanato dalla famiglia perché i genitori non riuscivano per la loro povertà ad allevare i sette figli e anche lui, che era l’ultimogenito, doveva sottostare a questo terribile destino. Pollicino sempre silenzioso riusciva a ritornare a casa lasciando nel suo percorso dei sassolini che gli indicassero la strada. La paura dell’abbandono da parte dei genitori segnava e segna la vita dei bambini che temono di essere abbandonati e andare incontro ad una vita disperata.

   Ho fatto riferimento alla favola di Pollicino perché il suo destino si è riproposto per un bambino africano di tre anni arrivato in questi giorni in un barcone di migranti al porto di Lampedusa. Questo bambino, di cui ignoriamo il nome, è giunto a Lampedusa senza genitori accompagnato da un ragazzo africano, ancora minorenne, che ha raccontato la sua storia.

   In pieno deserto fra la Libia e la Tunisia questo ragazzo, che cercava faticosamente di raggiungere la costa africana, si era imbattuto in questo bambino che arrancava da solo ormai stremato. Preso a compassione il ragazzo, pur non avendo nessuna informazione sul bambino, chi fosse, come si chiamava, che lingua parlasse e dove fossero i suoi genitori, decise di occuparsi di lui e di portarlo con sé nella traversata del deserto.

   Si può immaginare questo incontro quasi miracoloso con il piccolo che ha seguito il ragazzo più grande, unica sua possibilità di sopravvivenza quantunque non dicesse una parola e non esprimesse nessuna emozione, dal pianto al sorriso. Se si fosse credenti si potrebbe pensare che Dio avesse mandato questo bambino solo e abbandonato per drammatizzare la terribile condizione dei migranti, che attraversano il deserto, scegliendo proprio lui così fragile e sprovveduto. E allo stesso tempo per mettere alla prova l’umanità che chiude la porta in faccia ai migranti, che come viene mostrato nel film di Matteo Garrone “Io Capitano” corrono rischi mortali, violenze, abusi sessuali, segregazioni pur di tenere viva la speranza per il futuro.

   Per fortuna questo bambino ha incontrato questo ragazzo, che come il giovane Tobia della Bibbia, si è preso cura di lui senza troppe esitazioni e senza chiedersi dove fossero i suoi genitori, che forse erano periti nell’attraversata del deserto. E non era un bambino che mostrasse gioia e riconoscenza, chiuso nel suo mutismo seguiva questo compagno più grande che era per lui la sua unica bussola. Insieme sono arrivati a Lampedusa su un barcone e il piccolo è stato preso in carico da psicologi che stanno cercando di avvicinarsi a lui, sapendo bene che la sua chiusura e il suo mutismo sono sicuramente legati ai traumi, alla fame, all’abbandono che hanno pesato sulla sua psiche. Ci vorrà sicuramente del tempo perché si apra e stabilisca dei legami di attaccamento nella famiglia a cui verrà affidato, che dovrà rispettare i suoi tempi in un clima di accettazione e di protezione.

   Allo stesso tempo si dovrà scoprire che è successo ai suoi genitori, se erano con lui durante la traversata e che cosa è avvenuto oppure se il bambino è stato affidato a qualcuno che partiva per questo viaggio della speranza per garantirgli un futuro migliore di quello che poteva avere in Africa.

   Vorrei che questa storia drammatica sciogliesse un po’ il cuore ai guardiani dei nostri confini, per i quali i migranti non sono uomini sono solo dei neri che minacciano le nostre vite. Eppure molti italiani, addirittura milioni, nei primi anni del secolo scorso si avventurarono ugualmente sulle navi per raggiungere le terre promesse, gli Stati Uniti, il Canada o l’Australia sperando in un futuro migliore, non dovremmo dimenticarlo.

   La storia di questo bambino dovrebbe essere raccontata dallo stesso Garrone, non solo le sofferenze e le angosce di un bambino africano migrante ma anche il profondo atto di umanità di un minorenne che non si è fatto intimorire dal peso che doveva assumere e dai pericoli che si moltiplicavano nella traversata. E’ stata una decisione di cuore che non hanno quanti si attardano nelle diatribe e nelle meschinerie con cui vengono affrontate le politiche della migrazione.

   Un’ultima annotazione, dal 2014 ad oggi sono stati circa 100.000 bambini e adolescenti migranti non accompagnati, secondo i dati dell’Unicef, che sono giunti in Europa alla ricerca di un futuro, sarebbe giusto chiedersi che sofferenze hanno vissuto questi minori che hanno lasciato le loro famiglie, le quali a loro volta hanno dovuto sopportare l’angoscia del distacco dai propri figli. (MASSIMO AMMANITI)

Il MERITO e i suoi nemici (di Angelo Panebianco, da “il Corriere della Sera” del 6/9/2023)

(Il nuovo saggio di LUCA RICOLFI, “LA RIVOLUZIONE DEL MERITO” edito da RIZZOLI, polemizza con chi si oppone a premiare le capacità e l’impegno – Una scuola dequalificata danneggia soprattutto i figli delle famiglie meno agiate – In fatto di merito, il sentire comune è più in sintonia con la realtà di quanto lo siano molti intellettuali)

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   Impietosamente, anno dopo anno, i test Invalsi mostrano l’incapacità di una parte assai consistente delle scuole italiane di dare una preparazione adeguata agli alunni. La scuola ha smesso di funzionare come ascensore sociale. Disinteresse per il merito e promozioni facili, se non garantite, sono la conseguenza di una malintesa lotta contro le disuguaglianze sociali che ha l’effetto di accrescerle, anziché diminuirle. È bastato che il governo della destra decidesse di aggiungere la parola «merito» al titolo del ministero competente perché in tanti saltassero su a spiegarci che chi vuole il ripristino del merito è un reazionario, nostalgico della scuola classista del tempo che fu.

   LUCA RICOLFI, un sociologo che in tanti suoi lavori ha mostrato di possedere grande maestria e una capacità davvero non comune di leggere la società italiana, affronta il tema in un libro appena uscito: LA RIVOLUZIONE DEL MERITO (Rizzoli).

   Due i punti di partenza di Ricolfi.

   Il primo è il (sempre disatteso) articolo 34 della Costituzione ove si afferma che «i capaci e meritevoli», anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Ricolfi riprende le tesi di Piero Calamandrei che nel citare quell’articolo sostiene l’importanza di favorire i meritevoli, qualche che sia la loro origine sociale, per consentire il ricambio delle classi dirigenti e assicurare che ai vertici della società giungano i più preparati. Favorendo così il benessere collettivo e la democrazia.

   Il secondo punto di partenza è dato dalla constatazione di un capovolgimento culturale che ha investito la sinistra italiana nel corso degli anni: dalla grande importanza che il Pci dell’epoca togliattiana attribuiva all’istruzione seria e rigorosa come mezzo di elevazione dei giovani delle classi popolari, alle posizioni del periodo successivo al ’68. I nemici attuali del merito sono il prodotto di quel clima, i figli della stagione del 6 e del 18 garantiti. La scuola si è così ridotta al luogo in cui «il dovere di studiare e di impegnarsi è stato sostituito dal “diritto al successo formativo”».

   Ricolfi pensa che la difesa del merito debba guardarsi da due nemici. Da un lato, la confusione fra merito e meritocrazia. Quello meritocratico è un ideale (il governo dei meritevoli) che ha pesanti implicazioni anti-egualitarie. È l’ideale di chi vuole ricostruire rigide barriere di classe, ma questa volta basate su un sistema di test presentati come obiettivi: di qua i meritevoli, di là tutti gli altri. Una cosa assai diversa da chi vuole che il talento individuale venga valorizzato e premiato senza prefigurare utopie sociali irrealizzabili o che, se realizzate, darebbero vita al contrario di una società libera e aperta. C’è però chi, contrastando la meritocrazia, ha gettato via anche il bambino (il merito) insieme all’acqua sporca.

   Il secondo nemico è rappresentato da un clima filosofico e culturale che, nel corso dei decenni, ha scavato nelle coscienze di tanti spingendoli a svalorizzare il merito scambiando ciò per una battaglia a favore dell’uguaglianza. Ricolfi passa in rassegna, mostrandone le debolezze, le idee di una lunga fila di pensatori che hanno contribuito al risultato negando diritto di cittadinanza al merito in una società democratica.

   Perché, si chiede Ricolfi, le idee dei filosofi e dei sociologi nemici del merito fanno a pugni con il senso comune? I sondaggi, quali che ne siano i limiti, mostrano che una forte maggioranza degli intervistati è di altro parere. Il sentire comune, che non disprezza il merito, è molto più in sintonia con la realtà di tanti intellettuali che pretendono di conoscere la cura contro le disuguaglianze sociali.

   Non è vero che gli studenti più bravi provengano solo dalle famiglie ricche, talché valorizzare il merito significherebbe rafforzare le disuguaglianze. È noto e documentato, ad esempio, che, mediamente, le studentesse, quale che ne sia la provenienza sociale, hanno un migliore rendimento scolastico degli studenti.

   È l’impegno personale che soprattutto conta. I dati italiani, inoltre, mostrano che non è affatto vero che i bravi a scuola siano concentrati nelle classi alte. Il diverso capitale culturale delle famiglie d’origine dà un leggero vantaggio allo studente di condizione sociale medio-alta (e sarebbe strano se così non fosse), ma solo questo. Il 40 per cento dei figli di famiglie agiate va male a scuola, una percentuale quasi identica di figli di famiglie povere ha un alto rendimento scolastico.

   Il paradosso di una battaglia per l’uguaglianza, che pretende di pareggiare a scuola meritevoli e non, è che essa rimanda a un momento successivo il riprodursi delle disuguaglianze. Non distinguere fra chi merita e chi non merita è un danno per la società, ma è anche un’arma spuntata contro la disuguaglianza. Una volta usciti dalla «scuola egualitaria», agli studenti accadono due cose: la prima riguarda i più capaci e preparati, la seconda quelli con una preparazione insufficiente. Nel gruppo dei meritevoli saranno favoriti, nel continuare gli studi, i figli delle famiglie agiate. I meritevoli più poveri (a causa della mancata attuazione dell’articolo 34) avranno difficoltà e, spesso, dovranno rinunciarvi. Così l’ascensore sociale si blocca a danno di chi ha capacità, ma non i mezzi per continuare gli studi.

   Anche nel gruppo degli impreparati la disuguaglianza colpisce: i non meritevoli delle classi agiate se la caveranno perché potranno contare sul supporto della famiglia e relative conoscenze, gli impreparati poveri no. Come sostiene Ricolfi, le posizioni anti-merito sono oscurantiste. Dequalificando la scuola, negano ai poveri dotati di capacità un futuro migliore.

   Il libro si conclude con una proposta di attuazione dell’articolo 34: favorire i meritevoli senza sufficienti mezzi con consistenti borse di studio. Un progetto attuabile per i cui dettagli si rinvia al testo.

   Però – osservo – bisogna anche agire sul lato dell’offerta. Servono insegnanti motivati che sappiano valorizzare meriti e talenti. Fortunatamente ce ne sono. Vanno liberati dalle mille pastoie che ne mortificano la professionalità. Altri invece dovrebbero essere, per così dire, «riprogrammati»: sottratti all’influenza di cattivi maestri che predicando male li hanno spinti a razzolare anche peggio. (ANGELO PANEBIANCO)

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LA RIVOLUZIONE DEL MERITO – Luca Ricolfi, settembre 2023, Rizzoli Ed., euro 18,00, pagg. 216

   Un tempo premiare il merito – misterioso amalgama di talento e impegno – pareva la via maestra per combattere la disuguaglianza, antidoto perfetto contro il nepotismo e i privilegi di classe. Oggi, al contrario, tanti intellettuali, studiosi e politici pensano che sia fonte di discriminazione, selezione, umiliazione dei deboli, e ingaggiano una stupefacente battaglia contro il merito.

   Nella vita di tutti i giorni non abbiamo alcun problema a scegliere il cuoco più bravo, il chirurgo più esperto, la scuola migliore per i nostri figli, o ad ammirare l’artista più originale, il calciatore che segna più goal, la scienziata che fa una grande scoperta.

   Perché, non appena si parla di studenti e studentesse, tutto cambia? Perché la parola “merito” nel mondo della scuola e dell’università scatena ogni sorta di paure, accuse, luoghi comuni, pregiudizi? E se invece proprio il talento fosse il più egualitario dei doni, visto che può posarsi su una reggia come su un tugurio?

   In questo suo nuovo libro, Luca Ricolfi ripercorre la storia delle idee sul merito, dagli ideali che hanno ispirato la Costituzione, passando attraverso le teorie filosofiche e i romanzi distopici del Novecento, fino alla recente e deleteria confusione tra merito e meritocrazia. E mostra quanto retrograda, infondata e lontana dal comune sentire sia la battaglia contro il merito. Sostenere i capaci e meritevoli – a partire dalle ragazze e dai ragazzi dei ceti popolari – è il gesto rivoluzionario che può rimettere in moto l’ascensore sociale. Un gesto che era in cima ai pensieri dei Padri costituenti, ma che finora nessuna forza politica ha avuto il coraggio di far proprio.