RIDARE AI GIOVANI IL FUTURO (di VINCENZO GALASSO, da “IL FOGLIO” del 29/8/2022) – Con una proposta: per ogni euro allocato alla spesa per gli anziani, un euro allocato alla spesa per i giovani

– Ritratto di un paese che pensa più alle pensioni che alle incertezze e allo smarrimento di una generazione. Le perdite di conoscenza accumulate dai nostri studenti durante il lockdown. Il debito pubblico, un gigantesco mutuo che le generazioni future dovranno rimborsare. Con una proposta: una regola fiscale intergenerazionale, che disciplini in maniera automatica l’allocazione della spesa pubblica; che però non è politicamente conveniente. Tocca agli adulti e agli anziani farsene promotori con i partiti. Se non ora, quando? –

   La campagna elettorale è tutta incentrata su fisco e pensioni. Come al solito. Il centrodestra propone la flat tax, il centrosinistra il taglio dell’Irpef sui redditi medio-bassi, il Movimento 5 stelle insiste con i cashback. Il centrodestra è molto attivo anche sul fronte pensioni. Berlusconi ha garantito l’innalzamento delle minime a 1.000 euro. Salvini continua a inseguire la riforma Fornero – introdotta ormai dieci anni fa – e prospetta la flessibilità in uscita dal mondo del lavoro con Quota 41, dopo essersi intestato Quota 100 nel 2018.

   Completa i programmi una lunga serie di bonus e mance elettorali per diverse categorie di persone – inclusi i giovani. Ovviamente, non c’è traccia di discussione sulla sostenibilità finanziaria di queste nuove spese – o minori entrate. Ma il programma del centrodestra prevede la “valutazione dell’impatto generazionale delle leggi e dei provvedimenti a tutela delle future generazioni”. Viste le proposte del centrodestra, facile prevedere quale sarà la valutazione per le future generazioni: lacrime e sangue!

   Invece, in questa campagna elettorale dovremmo pensare soprattutto ai giovani. Perché? Forse perché noi, adulti e anziani, dovremmo lasciarci ispirare dalle parole di Renzo Piano: “Sono i giovani che salveranno la Terra. I giovani sono i messaggi che mandiamo a un mondo che non vedremo mai. Non sono loro a salire sulle nostre spalle, siamo noi a salire sulle loro, per intravedere le cose che non potremo vivere”. Dovremmo sentire nostro il dovere di aiutare i giovani nel loro viaggio futuro.

   Affrontiamo subito le obiezioni che si palesano sotto forma di (almeno) due domande. In primis: quando eravamo giovani noi, da chi siamo stati aiutati? E poi: perché dovremmo aiutare i giovani, che hanno tutta la vita davanti a sé – e non sembrano passarsela poi così male, e non proteggere noi stessi – stanchi, anziani, che abbiamo lavorato tutta una vita?

   Proviamo a usare un po’ di dati per fare un esercizio di presa di coscienza collettiva – almeno per i baby-boomer, ovvero i nati dal Dopoguerra alla metà degli anni Sessanta, e per una parte della generazione X (o Mtv), i nati dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Chi è entrato sul mercato del lavoro agli inizi degli anni Sessanta ha vissuto i successivi 35 anni in un paese con un tasso di crescita reale dell’economia pari a quasi il 4 per cento. Un ottimo viatico, se si considera che la crescita della produttività si traduce in crescita dei salari e quindi del tenore di vita dei lavoratori.

Chi è entrato sul mercato del lavoro agli inizi degli anni Sessanta ha vissuto i successivi 35 anni in un paese con un tasso di crescita reale dell’economia pari a quasi il 4 per cento

   Inoltre, con un tasso di disoccupazione al 5 per cento, trovare un impiego era semplice. Anche l’imposizione fiscale era molto più vantaggiosa. Con una popolazione giovane e pochi pensionati da mantenere, l’aliquota contributiva previdenziale si aggirava attorno al 20 per cento. Il debito pubblico – ovvero il fardello fiscale che pesa sulle generazioni giovani e su quelle future – era attorno al 30 per cento del pil.

   Situazione simile, anche se un po’ meno rosea, per chi è entrato nel mercato del lavoro negli anni Settanta – tassi di disoccupazione un po’ più alti, ma ancora buone prospettive di crescita economica davanti a sé: dal 1970 al 2005, il tasso medio di crescita del pil reale è stato del 2,3 percento. Molti di questi impieghi sono stati creati nella Pubblica amministrazione: alla fine degli anni Ottanta, quasi 3 milioni e ottocentomila lavoratori avevano un posto fisso pubblico.

   Contemporaneamente, queste generazioni hanno beneficiato dell’aumento della generosità dei sistemi previdenziali e della riduzione dell’età media di pensionamento. In media, chi è andato in pensione fino ad ora ha ricevuto un bel premio, rispetto all’ammontare previsto dal sistema contributivo puro – quello con cui andranno in pensione i giovani di oggi. Un premio pari al 47 per cento della pensione contributiva per i pensionati del 1996, del 36 per cento per chi è andato in pensione nel 2000 e del 25 per cento per chi si è ritirato dal mercato del lavoro nel 2005. Un premio pari al 40 per cento per chi è riuscito ad andare in pensione a soli 55 anni. Anche i pre-pensionamenti hanno favorito i baby-boomer. Nel 1970 si andava in pensione in media a 65 anni, alle fine degli anni Ottanta a 62 anni, a metà degli anni Novanta a meno di 60.

Alla fine degli anni Ottanta, quasi 3 milioni e ottocentomila lavoratori avevano un posto fisso pubblico. Nel 1970 si andava in pensione in media a 65 anni, a metà degli anni Novanta a meno di 60

   Quali sono i numeri per i nati nel nuovo millennio? Difficile prevedere i tassi di crescita economica dei prossimi 35 anni. Ben poche le speranze che saranno vicini al 4 per cento sperimentato dai baby-boomers. Sicuramente non ci saranno premi al momento di andare in pensione. L’età di pensionamento aumenterà con l’aumentare dell’aspettativa di vita e l’ammontare sarà commisurato ai contributi versati, come previsto dal sistema contributivo. La generosità delle pensioni dipenderà quindi dall’andamento della vita lavorativa: un’occupazione tardiva, con contratti a tempo parziale, e una scarsa crescita economica pregiudicheranno anche la pensione futura.

   Sicuramente i giovani di oggi hanno un fardello fiscale molto più pesante dei baby-boomer: le aliquote contributive del sistema previdenziale sono pari al 33 per cento, il debito pubblico è pericolosamente vicino al 150 per cento del pil. Inoltre il tasso di disoccupazione è in doppia cifra e anche gli occupati nel settore pubblico sono diminuiti a 3 milioni e 300 mila.

   Dunque i baby-boomer sono stati fortunati ad aver vissuto un periodo – forse l’unico in Italia – di forte crescita economica. E si sono aiutati da soli, attraverso politiche fiscali che redistribuivano a loro favore sostanziali risorse a scapito delle generazioni giovani e future: debito pubblico, pensioni, pre-pensionamenti. Dall’alto dei loro diritti acquisiti, delle pensioni, dei risparmi accumulati, delle rendite di posizione, conquistate in un mercato del lavoro diventato sempre più duale, i baby-boomer dovrebbero provare a modificare il proprio atteggiamento nei confronti dei giovani. Meno aiuti all’interno della propria famiglia, diretti solo ai propri figli, e più opportunità di crescita per i giovani. Meno paternalismo.

Dall’alto dei loro diritti acquisiti, delle pensioni, dei risparmi accumulati, delle rendite di posizione, conquistate in un mercato del lavoro diventato sempre più duale, i baby-boomer dovrebbero provare a modificare il proprio atteggiamento nei confronti dei giovani

Demografia politica

Se non ce ne faremo carico noi, adulti e anziani di oggi, non sarà certo la politica ad aiutare i giovani. I partiti rispondono a logiche elettorali. E la demografia politica è contro i giovani. Il 25 settembre saranno quasi 8 milioni i potenziali elettori giovani (18-30) e ben 14 milioni i potenziali elettori ultrasessantacinquenni. Nel 1950, gli elettori giovani erano quasi 10 milioni, gli anziani meno di 4 milioni.

   Nel 2050, ci saranno solo 6 milioni di giovani e 18 milioni di anziani. Quando la piramide demografica si capovolge, e il rapporto tra anziani e giovani aumenta a dismisura, la politica disegna le sue proposte elettorali per le generazioni dominanti. Gli anziani, appunto. Non certo i giovani.

   Ma non è solo una questione di numeri – di potenziali elettori. Gli anziani sono più appetibili anche perché più facili da persuadere e da mobilitare. Raggiungere gli anziani durante una campagna elettorale è semplice. Basta usare i media tradizionali: giornali, tv, radio. Catturare la loro attenzione è altrettanto agevole. Basta parlare di pensioni – magari promettendo un aumento delle minime, e di prime case – impegnandosi a non tassarle. Per i lunghi anni del pensionamento gli anziani sono concentrati su questi – e pochi altri – temi. Un elettorato stabile nel tempo e omogeneo nelle esigenze. Inoltre, ben inseriti nel sistema socio-economico del paese, gli anziani non conoscono astensionismo.

   Fare breccia sui (pochi) giovani elettori è cosa ben più complessa. Vanno raggiunti soprattutto sui social, utilizzando strumenti di campagna elettorale più innovativi, come il programmatic advertisement, che consente di collocare dei brevi video di pubblicità elettorale su siti web. Catturare la loro attenzione non è per nulla agevole. I giovani non sono monotematici, ma quanto mai eterogenei nei loro interessi. Non esiste una misura di politica economica che vada bene per tutti, alla stregua dell’aumento delle pensioni per gli anziani.

   I giovanissimi potrebbero essere interessati alla scuola o all’università, ma comunque per poco tempo – il tempo di diplomarsi o laurearsi. Poi gli interessi si sposterebbero altrove. Altri giovani potrebbero essere alle prese con l’entrata nel mercato del lavoro o con il tentativo di metter su famiglia. Tematiche che richiedono politiche spesso divisive, si pensi al mercato del lavoro, e comunque di breve durata – perché risolto (o meno) un problema, lo sguardo dei giovani si volge altrove. Inoltre, sentendosi un po’ ai margini del sistema socio-economico, i giovani sono poco invogliati a recarsi alle urne. Ma il loro astensionismo ne riduce ancora di più il peso elettorale, e quindi l’appeal del voto dei giovani presso i partiti. La demografia politica dunque li condanna inesorabilmente.

   E i giovani non sono neanche riusciti a creare un movimento culturale per perorare la propria causa. Malgrado l’esistenza di tanti gruppi giovanili nell’associazionismo, non ci sono mai stati imprenditori politici o culturali che siano riusciti a mettere la battaglia per i giovani al centro dell’agenda politico-culturale del nostro paese. L’ultimo decennio ha visto (giustamente) imporsi il tema della condizione femminile, fino all’esplosione del movimento del #metoo. Altrettanto giustamente, negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, si è imposta all’attenzione la condizione razziale con il movimento #blacklivesmatter. La condizione giovanile invece non trova spazio. Ai giovani non è concesso neanche il politicamente corretto riservato alla questione femminile, che molte volte sfocia in un irritante pink-washing. Ai giovani non sono concesse neanche le – per quanto inutili – vetrine.

Situazione giovanile

Eppure la situazione dei giovani in Italia merita attenzione. Prima della pandemia e ancora di più oggi. Partiamo dalla scuola. I risultati dei test Invalsi del 2019 mostravano che il 40 per cento dei nostri alunni delle scuole medie e delle superiori ha una preparazione inadeguata in matematica e un terzo ha gravi insufficienze in italiano. Con queste premesse non è sorprendente che l’Italia sia in testa alla classifica europea dei giovani Neet (Neither in employment nor in education and training). Non lavoratori, non studenti e neanche impegnati nella formazione professionale. Nel 2019, il 18,1 per cento dei giovani italiani in età compresa tra i 15 e i 24 anni era un Neet, contro una media del 10,1 per cento tra i paesi dell’Unione Europea, del 12,1 per cento in Spagna, e del 5,7 per cento in Germania.

   Ancora peggiore la statistica per i giovani italiani tra i 20 e i 34 anni: un Neet ogni quattro giovani, contro una media europea del 14,5 per cento. Anche la povertà assoluta in Italia è più diffusa tra i giovani che tra gli anziani: 11,4 per cento per i minori d’età, 9,1 per cento tra i giovani adulti (18-34 anni) e 4,8 per cento tra gli ultrasessantacinquenni. La povertà è più diffusa tra le famiglie monoreddito con più figli che tra gli anziani.

   In questo scenario, è ripartita l’emigrazione, soprattutto tra i giovani. Nel decennio 2010-2019 più di mezzo milione di italiani è emigrato alla volta di Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera e persino Spagna. Nel 2019, 68 mila giovani in età compresa tra i 18 e i 39 anni hanno scelto di emigrare all’estero. Come se una città di soli giovani – delle dimensioni di Potenza, Cosenza o Pavia – decidesse di staccarsi dallo Stivale. La pandemia ha ulteriormente peggiorato la già precaria situazione giovanile. L’Italia è stata tra i paesi che hanno chiuso più a lungo le scuole, affidandosi quasi completamente alla didattica a distanza. Ma la Dad ha presto mostrato i suoi limiti, in termini di minor crescita dell’apprendimento degli studenti, di aumento delle disuguaglianze educazionali, come mostrato dai risultati delle recenti prove Invalsi. Secondo un recente studio, ci vorrebbero 80 ore addizionali di lezione frontale per recuperare le perdite di conoscenza accumulate dai nostri studenti nel solo trimestre da marzo a giugno 2020. In mancanza di queste ore di recupero, la perdita di capitale umano si tradurrà in una riduzione dei salari futuri superiore al 2 per cento.

Anche la povertà assoluta in Italia è più diffusa tra i giovani che tra gli anziani. Nel 2019, 68 mila giovani in età compresa tra i 18 e i 39 anni hanno scelto di emigrare all’estero. Come se una città di soli giovani – delle dimensioni di Cosenza o Pavia – decidesse di staccarsi dallo Stivale

Cosa fare per i giovani

Cosa possiamo fare noi adulti e anziani per aiutare i nostri giovani? Gli obiettivi da raggiungere sono chiari: riattivare la crescita economica dopo due decenni di stagnazioni, ridurre e rimodulare la spesa pubblica a favore di politiche giovanili e diminuire il debito pubblico. Vediamo perché. Un esercizio complesso, ma molto di moda tra gli economisti, è quello di provare a misurare il grado di mobilità intergenerazionale – ovvero se i figli si trovano a vivere in una condizione socio-economica superiore, uguale o peggiore dei genitori.

   Esistono due misure di mobilità: relativa e assoluta. Nel primo caso, si prova a comparare la posizione relativa nella scala socio-economica dei figli – ad esempio appartenere al 20 per cento più ricco della popolazione – con quella dei genitori. Anche in un paese che non cresce, ci può essere mobilità intergenerazionale relativa, se alcuni giovani riescono a migliorare la propria posizione, mentre altri – per definizione – la perderanno. In questo gioco a somma zero, i giovani competono tra di loro – spesso con l’aiuto dei genitori, che usano i propri risparmi, le proprie rendite di posizione, i propri network per provare ad agevolare i figli.

   Molto più interessante considerare la misura di mobilità assoluta, che compara gli standard di vita dei figli con quelli dei genitori. In questo caso, tutti possono vincere, se il tenore di tutti i giovani migliora, rispetto a quello dei propri genitori. Ebbene, un recente studio mostra che la mobilità intergenerazionale assoluta dipende quasi totalmente dalla crescita economica.

   Quasi tutti i babyboomer, che hanno vissuto in un periodo di forte crescita economica, hanno avuto un tenore di vita più alto dei propri genitori. Se non si migliora la produttività economica e quindi la crescita nel nostro paese, i giovani di oggi saranno la prima generazione ad avere un tenore di vita mediamente inferiore a quello dei propri genitori.

Quasi tutti i baby-boomer hanno avuto un tenore di vita più alto dei propri genitori. Se non si migliora la produttività economica e quindi la crescita nel nostro paese, i giovani di oggi saranno la prima generazione ad avere un tenore di vita mediamente inferiore a quello dei propri genitori

   In Italia, la spesa pubblica è molto elevata ed è fortemente sbilanciata verso la spesa previdenziale, che assorbe il 15,7 per cento del pil, mentre alla spesa in istruzione tocca solo il 4,3 per cento. L’allocazione della spesa, insieme alla composizione dell’imposizione fiscale, contribuisce a designare il sistema di redistribuzione intra-generazionale – ovvero tra persone con redditi diversi – e intergenerazionali – ovvero tra persone di età diverse, della politica fiscale.

   Uno studio della Commissione europea calcola il valore atteso dei trasferimenti e delle imposte che persone nate in anni diversi si troveranno rispettivamente a ricevere e pagare nel corso della loro vita. Oggi, un neonato in Italia riceve in dote un saldo fiscale netto atteso negativo: nell’arco della sua vita si troverà a pagare circa 120 mila euro in più di quello che riceverà. Per le generazioni meno giovani, il saldo fiscale era ben più favorevole.

   Urge dunque ridurre e rimodulare la spesa pubblica. Il debito pubblico italiano ha raggiunto il 146,8 per cento del pil, diventando così il terzo più alto nei paesi Ocse dopo Giappone e Grecia. Si tratta di un gigantesco mutuo che le generazioni future dovranno rimborsare.

   Persino i fondi del Next Generation Eu – un programma che ha un nome evocativo per i giovani – rischiano di contribuire alla crescita del debito. Dei 191,5 miliardi di euro assegnati all’Italia, poco più di 122 miliardi arrivano sotto forma di prestiti. A cui vanno aggiunti 30 miliardi del fondo aggiuntivo istituito dal governo – e finanziato a debito, e le ulteriori risorse che potrebbero essere necessarie per realizzare gli obiettivi del Pnrr nei prossimi anni.

   Con questi impegni, i forti incrementi del disavanzo pubblico registrati nel 2020 e nel 2021 a causa degli aumenti della spesa corrente, e l’incertezza per la situazione energetica internazionale, il rischio che il rapporto tra debito pubblico e pil aumenti ulteriormente è tangibile. Più tasse future per i giovani.

Una regola fiscale intergenerazionale

Il 2022 è l’anno europeo dei giovani. Ma per noi è soprattutto un anno elettorale. Per neutralizzare gli incentivi elettorali che spingono a dimenticarsi dei giovani e a corteggiare solo gli elettori anziani è necessario dotarsi di una regola fiscale intergenerazionale, che disciplini in maniera automatica l’allocazione della spesa pubblica.

   Nella sua formulazione più semplice, la regola fiscale stabilirebbe che per ogni euro addizionale allocato a programmi di spesa pubblica, che sono principalmente finalizzati agli anziani, un euro addizionale dovrebbe essere allocato a programmi di spesa finalizzati ai giovani.

   Queste risorse non possono essere finanziate a debito. Questa regola fiscale intergenerazionale non avrebbe il merito di aumentare la crescita economica, di ridurre o di rimodulare la spesa pubblica esistente, poiché inciderebbe solo sulle misure future di politica fiscale. Ciononostante avrebbe molti vantaggi. IN PRIMO LUOGO, contribuirebbe a rimodulare nel tempo la spesa fiscale a favore dei giovani, agendo sui flussi di spesa futuri.

   Rappresenterebbe quindi un contrappeso alle dinamiche demografiche che, aumentando il numero di anziani, automaticamente tendono ad aumentare anche la spesa totale di programmi quali pensioni, sanità, non autosufficienza. IN SECONDO LUOGO, aumenterebbe il costo opportunità di concedere mance elettorali agli anziani. Senza poter finanziare a debito e dovendo corrispondere l’equivalente anche ai giovani, ogni euro promesso (e speso) alle persone anziane costerebbe il doppio. E richiederebbe un (politicamente doloroso) aumento delle imposte oppure una – politicamente ancor più dolorosa – riduzione della spesa pubblica esistente.

La regola fiscale stabilirebbe che per ogni euro addizionale allocato a programmi di spesa pubblica, che sono principalmente finalizzati agli anziani, un euro addizionale dovrebbe essere allocato a programmi di spesa finalizzati ai giovani. Queste risorse non possono essere finanziate a debito

   Immaginiamo di applicare la regola fiscale alla politica annunciata in campagna elettorale da Silvio Berlusconi di aumentare tutte le pensioni a mille euro. Per ogni euro in più speso per far fede a questa promessa elettorale, un euro dovrebbe essere versato – in maniera reale, non figurativa – in un eventuale fondo previdenziale per i giovani. Invece dei 20-30 miliardi stimati, il costo della promessa sarebbe di 40-60 miliardi – troppo anche per una campagna elettorale.

   IN TERZO LUOGO, sposterebbe la spesa pubblica verso programmi a favore dei giovani, quali asili-nido, scuola, università, ricerca, reddito di formazione, che possono avere un impatto positivo sulla crescita economica – a differenza della spesa previdenziale.

   Nessun partito si farà spontaneamente promotore di una simile regola fiscale intergenerazionale. La demografia politica non lo rende elettoralmente conveniente: meglio dare agli anziani che ai giovani. A meno che non siano proprio gli adulti e gli anziani – i babyboomer e la generazione X – a rendersi conto che il futuro dei nostri giovani potrebbe essere peggiore del nostro presente. E a chiedere alla politica di farsi carico seriamente delle istanze dei nostri giovani. E quale momento migliore per chiedere ai politici che durante una campagna elettorale…

Vincenzo Galasso (da “IL FOGLIO” del 29/8/2022)

– Vincenzo Galasso, 55 anni, è professore ordinario di Economia politica presso l’Università Bocconi di Milano. Tra i libri pubblicati, “Gioventù smarrita. Restituire il futuro a una generazione incolpevole” (Bocconi Editore, 2021) –

PECHINO, LA SUPREMAZIA STRATEGICA SULLE TERRE RARE È DESTINATA A DURARE (di Paolo Bricco, da “il Sole 24ore” del 24/8/2022)

“(…) Dal 18 gennaio al 21 febbraio 1992, Deng Xiaoping svolge una serie di colloqui privati e di discorsi pubblici con la composita leadership cinese nel Sud della Cina a Shenzhen, a Zhuhai, a Guangzhou e a Shanghai. Sono passati tre anni dal massacro di piazza Tienanmen. In quella visita, Deng pone le condizioni per lo sviluppo economico e per la stabilità sociale della Cina. E pronuncia una frase che entrerà nel discorso pubblico e informerà le scelte tecno-industriali e geopolitiche dei trent’anni successivi: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare».(…)” (Paolo Bricco, da “il Sole 24ore” del 24/8/2022) (NEL FOTOMONTAGGIO: XI-JINPING, attuale leader cinese e DENG-XIAOPING, leader della Cina dal 1978 al 1992, ma influente anche dopo fino alla morte nel 1997 –era conosciuto come il “capo architetto” della riforma economica cinese-, immagine ripresa da https://www.periodicodaily.com/)

TERRE RARE, L’INDISCUSSA SUPREMAZIA CINESE (di Paolo Bricco)

– Le terre rare sono 17: ittrio, scandio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio. Presi singolarmente, i nomi di questi 17 elementi della tavola periodica restano sconosciuti ai più. Eppure le loro proprietà li rendono indispensabili per la produzione di cellulari, aerei, turbine eoliche e molto altro –

   La nuova globalizzazione è tante cose insieme. È industria e tecnologia, guerra e pace, stabilità e instabilità, politica e potere. Ed è, anche, senso ironico e paradossale della storia. L’F35 è il jet da combattimento dell’aviazione e della marina americana. Ogni F35, che a seconda della versione costa fra gli ottanta e i cento milioni di dollari, contiene nel suo cuore tecnologico 417 chili di terre rare. Poco meno di mezza tonnellata essenziale per fare funzionare un aereo da guerra fra i più efficienti, diffusi e letali. Un aereo adottato da numerosi eserciti occidentali. Le terre rare, però, sono controllate dalla Cina.

   L’intreccio paradossalmente contradditorio di oggi ha origine trent’anni fa. Dal 18 gennaio al 21 febbraio 1992, DENG XIAOPING svolge una serie di colloqui privati e di discorsi pubblici con la composita leadership cinese nel Sud della Cina a Shenzhen, a Zhuhai, a Guangzhou e a Shanghai. Sono passati tre anni dal massacro di piazza Tienanmen. In quella visita, Deng pone le condizioni per lo sviluppo economico e per la stabilità sociale della Cina. E pronuncia una frase che entrerà nel discorso pubblico e informerà le scelte tecno-industriali e geopolitiche dei trent’anni successivi: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare».

La grammatica della nuova globalizzazione

La nuova globalizzazione ha un alfabeto tradizionale. Composto in tutto il mondo, fin dai primi anni 90 del Novecento, da crescenti scambi commerciali e da progressive integrazioni industriali, da graduali aperture ai capitali stranieri e da periodiche guerre commerciali che sono state combattute con gli appesantimenti regolatori e le barriere doganali. Questo alfabeto tradizionale, nel suo stile di scrittura e nel suo linguaggio, è stato sottoposto negli ultimi anni a una rimodulazione nelle sue dinamiche e nelle sue scale dimensionali, nel concetto di vicinanza alla domanda finale e nella pratica di prossimità logistica. La comparsa del Covid-19, i cui effetti sulla organizzazione dell’economia internazionale sono stati profondi quanto quelli sulla biopolitica e sulle psicologie collettive, e la trasformazione della guerra da incubo della memoria storica a quotidianità dell’agenda politica dell’Occidente hanno accelerato queste dinamiche.

   Esiste, però, nella nuova globalizzazione un elemento di sovvertimento grammaticale e di rimescolamento semantico che ha una natura radicalmente e grezzamente materica: la sempre maggiore centralità, appunto, delle terre rare. Le terre rare sono 17 elementi della tavola periodica: l’ittrio, lo scandio, il lantanio, il cerio, il praseodimio, il neodimio, il promezio, il samario, l’europio, il gadolinio, il terbio, il disprosio, l’olmio, l’erbio, il tulio, l’itterbio e il lutezio.

Il dono dell’intelligenza

Le terre rare sono fondamentali nella fisiologia che ha assunto la manifattura internazionale negli ultimi vent’anni, con un incremento della componente elettronica che ha trasformato qualunque dispositivo in una macchina “intelligente”. Le terre rare hanno proprietà magnetiche che rimangono inalterate anche sotto condizioni di stress e di alte temperature. E, per questa loro funzionalità, si trovano nei prodotti che vengono fabbricati e trasportati, pubblicizzati e acquistati, sostituiti e buttati dai consumatori di tutto il mondo.

   In particolare, esistono tre segmenti fondamentali della manifattura internazionale in cui le terre rare sono essenziali: i prodotti di largo consumo (telefoni cellulari, computer, televisori, elettrodomestici), i prodotti dell’industria di frontiera tecnologica estrema (aerospazio, armi, aviazione, cyber war) e i prodotti ecologici (per esempio le auto elettriche, i pannelli fotovoltaici, le turbine eoliche).

   Chi controlla le terre rare esercita una influenza crescente e profonda, silenziosa e immanente nell’assetto del mondo per come lo conosciamo e, soprattutto, per come (ancora) non lo conosciamo.

La fabbrica di Pechino

In trent’anni, le parole di Deng si sono realizzate. Oggi la leadership cinese è sia quantitativa sia strategica. È quantitativa perché, secondo l’Unctad, la Cina ha sul suo suolo nazionale il 37% delle terre rare del mondo. Una primazia quantitativa significativa: il Vietnam e il Brasile hanno il 18% a testa e la Russia il 15 per cento.

   Questa dotazione quantitativa è stata valorizzata da un preciso disegno strategico. Che risale agli anni Novanta e combacia con un problema strutturale delle terre rare. Questi elementi sono chiamati terre rare non perché siano rari in natura, ma perché si trovano mescolati ad altri minerali. Per questa ragione, è complesso il processo di estrazione. Serve molta energia. Vanno adoperati meccanismi di trasformazione attraverso gli acidi. Il residuo finale è altamente inquinante. La Cina, adoperando la leva di una politica industriale autocratica e ultra-dirigista, ha sfruttato i suoi costi interni bassissimi e ha contemplato in maniera minima il problema dell’impatto ambientale dell’estrazione e dell’utilizzo di acidi nella idrometallurgia, basata sulle tre fasi della dissoluzione, della separazione e della generazione.

   Il giacimento di BAYAN OBO, nella regione cinese della Mongolia Interna, è oggi il più importante del Paese. In più stadi, sono venti chilometri di giacimenti. Sottoterra e a cielo aperto, Bayan Obo custodisce enormi quantità di ferro. Ma non è importante il ferro. È importante quello che si ottiene dal ferro: tutta una gamma di terre rare che hanno fatto di questo sito uno snodo nevralgico della manifattura cinese e, soprattutto, internazionale. Bayan Obo è, quindi, una sorta di fabbrica gigantesca che ha come materia prima, appunto, il ferro.

   Questo meccanismo di “industrializzazione” della produzione delle terre rare è il vero punto. Grazie agli intensi investimenti degli ultimi trent’anni, la Cina è riuscita a sperimentare un effetto moltiplicatore della sua base naturale di luogo che ospita il 37% delle terre rare del mondo: secondo l’Unctad, la Cina produce il 60% delle terre rare che arrivano sgrezzate, lavorate e commercializzate sui mercati internazionali.

La leva internazionale

Il progetto di politica industriale è diventato, negli ultimi quindici anni, anche un progetto di politica internazionale. La Cina ha puntato ad aumentare la sua influenza in Paesi ricchi di terre rare, ma deboli politicamente e finanziariamente. In Asia ha incrementato l’estrazione delle terre rare in Birmania, nella regione del Kachin, in accordo con il regime militare: ha così operato una forma di “delocalizzazione” dell’inquinamento, come indicato dall’ultimo rapporto di Global Witness.

   In Africa ha acquisito diritti esclusivi di estrazione in Kenya e nella Repubblica Democratica del Congo. Grazie a questa politica espansiva accurata e silenziosa, l’effetto leva della Cina sulle terre rare è ulteriormente salito: se è vero che essa ha sul suo suolo il 37% delle terre rare e che ne produce il 60%, è altrettanto vero che – controllando non poche miniere africane e operando dal 2018 come una idrovora che compra sul mercato africano tutto quello che riesce – alla fine la Cina, calcolando anche i minerali portati dall’Africa per le fasi successive della lavorazione, raffina e pre-industrializza l’80% delle terre rare del mondo.

   Questa percentuale è il numero simbolico del problema strategico di lungo periodo che hanno, in questo momento, l’Europa e gli Stati Uniti: l’80% delle terre rare adoperate dai sistemi industriali dell’Europa continentale e del Nord America è importato dalla Cina.

   Secondo una classifica riportata dal Cato Institute, il think tank liberista di Washington, considerando le prime 20 università in ingegneria mineraria, nove sono cinesi e nessuna è americana. La Cina sta, quindi, costruendo un sistema complessivo per il controllo delle terre rare: sfruttamento intensivo in patria, aggressività in Africa, formazione di specialisti e di quadri.

L’ipoteca di lungo periodo

La Cina ha un potere di condizionamento significativo sul codice evolutivo della nuova globalizzazione. La supremazia sulle terre rare non va sottovalutata. Esiste un tema di sovranità tecnologica che, soprattutto in tempi storici segnati dalla convergenza fra economia e politica, garantisce funzionamenti efficienti e trasparenza alle istituzioni della politica, dei mercati e dei sistemi tecno-industriali.

   In Africa gli Stati Uniti, l’Europa e l’Australia si stanno muovendo per costruire partnership con gli altri Paesi detentori di terre rare come Sudafrica, Madagascar, Malawi, Namibia, Tanzania, Zambia e Burundi. Ma non hanno la determinazione brutale garantita da una autocrazia monopartitica che, da trent’anni, procede in questa direzione. E, qualche volta, le classi dirigenti occidentali paiono non cogliere le dinamiche globali in cui sono inserite.

   Di fronte all’impatto ambientale in Africa e in Cina delle imprese che lavorano le terre rare con cui si producono i componenti per i motori elettrici, sembra una forma di ingenuità infantile la rinuncia operata dall’Unione europea alla sovranità tecnologica sul diesel nell’automotive. D’altronde Deng Xiaoping, che della politica cinese sulle terre rare è stato iniziatore e fautore, già nel 1978 diceva che, nella ricerca dello sviluppo economico, non importa che il gatto sia bianco o sia nero, l’importante è che prenda il topo. E, in questa specifica tendenza del mondo contemporaneo e della nuova globalizzazione, lo ha sicuramente preso. (PAOLO BRICCO)

DE GASPERI, L’EUROPA UNITA E IL RITORNO DELLA GUERRA (di Sergio Fabbrini, da il “Sole 24ore” del 14/8/2022)

PIEVE TESINO, Museo Casa De Gasperi – Il Museo Casa Alcide De Gasperi fa parte della RETE DELLE CASE DEI PADRI FONDATORI D’EUROPA, un circuito che COMPRENDE LE DIMORE DI KONRAD ADENAUER a Bad Honnef-Rhöndorf (Germania), di JEAN MONNET a Bazoches-sur-Guyonne (Francia) e di ROBERT SCHUMAN a Scy-Chazelles (Francia)

(CONCLUSIONI della LECTIO DEGASPERIANA, promossa dalla Fondazione Alcide De Gasperi, che SERGIO FABBRINI terrà il 18 agosto -2022- a PIEVE TESINO)

   La guerra russa all’Ucraina ha sollevato il tappeto sotto il quale era stata nascosta la questione della sicurezza dal 1954, quando il 30 agosto di quell’anno il Trattato sulla Comunità europea della difesa (CED) fu rifiutato dall’Assemblée nationale francese, il cui esito è stato una Europa integrata sul piano economico ma non su quello politico e militare.

   Un esito che De Gasperi e Spinelli cercarono tenacemente di scongiurare. Ritornare a loro, seppure criticamente, aiuta ad affrontare il problema della sicurezza europea settant’anni dopo. Infatti, De Gasperi ci ricorda che la guerra è una minaccia permanente per l’Europa (confinando con un aggressivo regime autoritario dotato di armi nucleari), Spinelli che tale minaccia non può essere affrontata con il coordinamento intergovernativo.

   Naturalmente, non si tratta di finire nel vicolo cieco di una nuova guerra fredda. Il rapporto con la Russia (o con la Cina) non dovrà sostanziarsi in un confronto esclusivamente militare, ma dovrà preservare o promuovere tutte le occasioni per scambi economici e culturali con loro. Tuttavia, l’Europa integrata non deve essere più ricattabile, sul piano delle risorse energetiche o degli scambi industriali, dai regimi autoritari. L’interdipendenza dovrà approfondirsi al suo interno, ma alleggerirsi al suo esterno (con i regimi autoritari).

   La globalizzazione dovrà divenire selettiva. Se la guerra è una minaccia permanente, e se l’America sta rivolgendo sempre di più la sua attenzione in Asia, allora è necessario che l’Europa integrata si assuma il problema di garantire la propria sicurezza. Senza una efficace capacità di auto-difesa, l’Europa integrata non potrà difendere le sue libertà, la sua democrazia, il suo welfare. Capacità di auto-difesa che potrà essere garantita solamente da un’organizzazione sovranazionale.

   Tuttavia, contrariamente al progetto del 1952, la difesa europea non dovrà basarsi sulla fusione delle difese nazionali, bensì dovrà caratterizzarsi come un nucleo di capacità e risorse che si aggiunge a queste ultime, con lo scopo di garantire la difesa collettiva. Gli stati possono conservare le loro difese nazionali per fronteggiare sfide locali, anche se esse dovranno essere razionalizzate così da non ostacolare la difesa comune. La difesa europea dovrà agire in coordinamento con la Nato, come sostenuto con insistenza da De Gasperi. Essa dovrà riflettere la visione strategica dell’Europa integrata, cui dovrà corrispondere una politica industriale europea per tecnologie di rilevanza militare.

   L’autonomia strategica dell’Europa integrata richiederà la costruzione di un’autorità di politica estera, così come la difesa comune richiederà l’esistenza di un’autorità di politica militare. Nello stesso tempo, non si potrà parlare di una politica estera e di difesa europee senza la creazione di un budget europeo con cui sostenerle, alimentato da risorse fiscali autonome e non da trasferimenti finanziari nazionali.

   L’autonomia strategica implicherà anche la necessità di parlare con una voce singola all’interno delle organizzazioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come sottolineato da Spinelli e condiviso da De Gasperi, le nuove autorità di politica estera e di difesa dovranno essere parte di un’unione politica più ampia che garantisca la loro legittimità democratica, oltre che il loro rendiconto politico.

   Oggi sappiamo ciò che non era evidente nel 1952, ovvero che un’unione politica non abbisogna di divenire uno stato per poter esercitare i suoi compiti autoritativi. Essa dovrebbe acquisire le caratteristiche di un’unione federale, non già di uno stato federale. Infatti, uno stato federale che organizza la vita di centinaia di milioni di abitanti condurrebbe ad una accumulazione di potere tale da minacciare le libertà individuali. Per questo motivo, un’unione federale assegna al centro federale competenze esclusive solamente sulle materie che riguardano la sicurezza collettiva (da quella militare a quella monetaria), riconoscendo agli stati federati competenze su questioni non rilevanti collettivamente. Naturalmente, tale distribuzione di competenze sarà oggetto di continua negoziazione tra i livelli di governo, richiedendo la disponibilità di questi ultimi al costante compromesso.

   Sia i governi federati che le autorità federali dovranno essere legittimati elettoralmente, oltre che supervisionati dalle rispettive corti costituzionali. Come De Gasperi aveva chiaro, l’unione tra stati non implica la soppressione del sentimento nazionale. Disse nel 1950, «badate bene che quando diciamo che non siamo nazionalisti (…) non diciamo qualche cosa che limiti le nostre forze reali, che diminuisca, comprima e deprima il nostro sentimento nazionale». Nel nostro caso, l’unione federale richiede identità multiple, non già la sostituzione di un’identità nazionale con un’identità europea.

   Seppure siano l’esito di un’invenzione, gli stati europei hanno profonde radici nei simboli e nelle relazioni dei loro cittadini. Non si tratta di cancellare una storia, ma di aggiungerne un’altra, creando una cittadinanza europea di nazionalità distinte. Il nazionalismo è incompatibile con l’unione federale, ma non lo sono le identità nazionali intese come sistemi aperti di esperienze e memorie. L’identità europea, invece, dovrà basarsi necessariamente sulla condivisione di valori politici, gli unici che possono unire vicende culturali o religiose diverse.

   Ciò che dovrà tenere insieme l’unione federale è la condivisione dei principi liberali dello stato di diritto e delle libertà individuali e i principi della divisione dei poteri che garantiscono la democrazia politica. Sappiamo che diversi governi nazionali dell’Europa integrata (nell’Europa dell’est) non condividono quei principi. Sappiamo anche che altri governi nazionali (dell’Europa del nord) hanno aderito all’Europa integrata per ragioni esclusivamente economiche, ed altri governi nazionali (nei Balcani occidentali) vi aderirebbero per ragioni opportunistiche.

   L’unione federale non emergerà da uno sviluppo biologico, né potrà dipendere dalle idiosincrasie dell’uno o dell’altro governo nazionale. Come sostenne De Gasperi nel 1952, un’unione tra stati richiede un preliminare atto «di volontà politica (…) per realizzarsi», un atto attraverso il quale gli stati coinvolti riconoscono che vi sono sfide che non possono affrontare da soli. O come scrisse Spinelli nel 1950, «Le federazioni sono sempre nate e possono nascere solo come patti tra gli stati, i quali decidono di rinunziare inequivocabilmente a certi attributi sovrani», pur mantenendo per sé altri attributi sovrani. È poco plausibile raccogliere tali differenti visioni dell’Europa all’interno di un unico progetto istituzionale. Occorrerebbe, piuttosto, organizzare contenitori diversi per visioni diverse.

   Non mancano le proposte. È possibile ipotizzare l’esistenza di una comunità degli stati europei, 1-una confederazione allargata a buona parte agli stati del continente che, basata su un Consiglio europeo dei capi di governo, affronti temi come l’energia, i trasporti, la ricerca; 2-una comunità economica, coincidente con gli stati che oggi condividono il mercato comune e ne rispettano il sistema sovranazionale triangolare; 3-una unione federale, una federazione europea costituita dai “Paesi del 1952” più quelli che ne condividono l’ispirazione federale (come la Spagna), cui devolvere il governo delle politiche di sicurezza (da quella militare a quella monetaria).

   Il futuro dell’Europa dovrà essere necessariamente plurale. In conclusione, l’europeismo di De Gasperi e Spinelli parla al futuro dell’integrazione, non solo al suo passato. Esso dovrebbe anche caratterizzare l’orizzonte della politica italiana, indipendentemente dai governi in carica, in quanto ci ricorda che fuori dall’Europa non c’è un futuro per l’Italia.

(SERGIO FABBRINI, testo relativo alle CONCLUSIONI della LECTIO DEGASPERIANA, promossa dalla Fondazione Alcide De Gasperi, del 18 agosto 2022 a PIEVE TESINO)

I FEDERALISTI DI FRONTE ALLA CRISI POLITICA ITALIANA

MFE (Movimento Federalista Europeo) – Newsletter N° 32 | Agosto 2022

La crisi di governo aperta il 20 luglio ha gravemente danneggiato gli interessi del nostro Paese, la sua credibilità internazionale e la finestra storica di riforma dell’Unione aperta dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa

   La caduta del Governo Draghi ha provocato un danno gravissimo all’Italia, che si ritrova più fragile e in preda all’incertezza.

   Per questo è importante che anche le forze che si sono assunte la responsabilità di interrompere in anticipo la legislatura in un momento storico così complesso e pericoloso riconoscano pubblicamente che le emergenze che avevano portato quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento a stringere un patto per dar vita ad un governo di unità nazionale sono ben lungi dall’essere esaurite e dal non costituire più un pericolo drammatico. 

   In particolare, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ha aggravato pesantemente il quadro economico e ha aperto una nuova sfida che investe la capacità del nostro Paese di mantenersi coerentemente impegnato nella difesa della democrazia e della libertà.

   L’agenda, ricordata da Draghi nel suo discorso in Senato il 20 luglio, con:

1– gli impegni del PNRR e i tempi serrati per attuare gli investimenti e le riforme;

2– l’agenda sociale, le sue emergenze e gli interventi strutturali indilazionabili da mettere in campo in modo compatibile con la necessità di assicurare la sostenibilità del nostro debito pubblico e il quadro finanziario europeo;

3– la politica energetica e la lotta al cambiamento climatico, che è un’emergenza diventata assolutamente prioritaria;

4– il ruolo internazionale dell’Italia, nell’Unione europea e nel quadro dell’Alleanza Atlantica, a partire dal sostegno all’Ucraina

tutto questo rimane urgente e stringente per chiunque voglia governare in modo credibile il Paese e permettergli di superare questa fase così difficile.

   Come federalisti europei sosteniamo convintamente questa agenda che indica obiettivi e campi d’azione imprescindibili, internamente ed esternamente; e ne è convinto anche l’amplissimo fronte di cittadini, forze sociali, associazioni che prima del 20 luglio si è mobilitato per chiedere ai partiti un gesto di responsabilità, per non interrompere il lavoro del governo e per non privare l’Italia della guida di un Presidente del Consiglio così competente e autorevole.

   Per questo il MFE ritiene:

– che tutte le forze politiche, nella misura in cui intendono offrire ai cittadini una nuova proposta di governo seria e credibile, debbano essere capaci di tenere la barra dritta negli impegni interni ed internazionali e di rigettare la demagogia, il populismo e il nazionalismo che nega persino l’interdipendenza europea e porta così l’Italia nel baratro;

– che alla base del programma di tutte le forze politiche, non solo di quelle che esplicitamente si richiamano al programma del governo di unità nazionale, ci sia innanzitutto la continuità del ruolo dell’Italia in Europa. Tutta la nostra credibilità si gioca su questo fronte, che si traduce sia nel rispettare gli impegni presi con i partner europei e con le istituzioni dell’Unione, sia nel continuare ad essere protagonisti insieme agli altri grandi Paesi europei, a partire da Francia e Germania, nella costruzione di un’Europa forte e coesa, un’Europa federale, sovrana e democratica.

   È un fatto ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli impegni comuni; così come è un fatto che il nostro apporto è determinante in senso positivo per far evolvere il quadro europeo e per consolidare la posizione internazionale dell’Europa. Viceversa, è un fatto che se prevarranno a livello nazionale delle scelte e dei comportamenti irresponsabili o se si vorrà schierare l’Italia a favore di un indebolimento dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee, si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE; e al tempo stesso si rafforzeranno le tentazioni all’immobilismo e le regole rigide di controllo. L’Italia quindi ha in mano una parte importante del destino europeo; ma al tempo stesso l’Italia ha un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa.

   In questi mesi cruciali – il riferimento temporale è l’autunno – l’Italia, con Draghi e grazie alla credibilità che la sua guida garantiva, stava lavorando tra le altre cose, insieme alla Francia, per la creazione di una capacità fiscale europea che permettesse di avere debito europeo in modo strutturale.

   Si erano create le condizioni per cercare di ottenere quel passaggio all’unione fiscale che Draghi stesso spiegava dicendo che avrebbe permesso strutturalmente alla Commissione di contrarre debito sui mercati finanziari per raccogliere risorse che poi avrebbe trasmesso agli Stati membri sotto forma di prestiti: uno strumento fiscale che portava alla creazione di un bilancio federale.

   Si tratta di una posizione che Draghi ha sempre espresso coerentemente sin da quando era Governatore della Banca Centrale Europea, quando ammoniva sulla necessità di affiancare una politica fiscale europea a quella monetaria della BCE; per la prima volta questo tema era potuto diventare argomento di confronto in seno al Consiglio Europeo. Questo confronto e questa possibilità rivoluzionaria per il destino dell’Unione europea e dell’Italia sono caduti con Draghi, così come è stato bloccato il processo per far nascere l’unione politica, funzionale anche alla possibilità di sviluppare una vera politica estera e di difesa europea.

   La possibilità di avviare la Convenzione per la riforma dei Trattati dell’UE chiesta dal Parlamento europeo sulla base dei risultati importanti raggiunti dalla Conferenza sul futuro dell’Europa è al momento congelata a seguito della caduta del governo in Italia. Le posizioni del prossimo governo saranno determinanti per rilanciarla, oppure per decretarne la fine.

   Per tutte queste ragioni, il Movimento Federalista Europeo chiede a tutte le forze politiche di mettere al centro dei loro programmi elettorali l’impegno europeista e federalista: per rimanere coerenti rispetto agli impegni europei assunti dall’Italia e per promuovere la riforma dell’UE al fine di realizzare l’unione politica, quella economica e di bilancio, la politica estera e di difesa. Solo così si può salvaguardare l’interesse nazionale.

   Su questa base il MFE si confronterà con le forze in campo alle prossime elezioni e si mobiliterà per far conoscere ai cittadini le posizioni politiche di partiti e candidati.

(Ufficio Stampa del Movimento Federalista Europeo)