CRISI DEL LAVORO, ce n’è sempre meno, ma anche con lo “spostarsi a casa” di molto di esso, cioè fuori dai luoghi di servizio tradizionali, con lo SMART WORKING (sociologhi, De Masi e Petrillo, a confronto)

A conferma delle tesi sostenute dal sociologo De Masi nell’articolo di Micromega del 30 ottobre scorso – riportato in NUOVO CONFRONTO – vi allego quest’altro articolo, sempre di De Masi, apparso su “Il Fatto quotidiano” del 1 Novembre 2020. E’ un commento sul recente rapporto “THE FUTURE OF JOBS 2020” del World Economic Forum relativo al tema “attuale pandemia e spinte di accelerazione nei processi del futuro del lavoro”. (GIORGIO SARTORI)

IL LAVORO SMART È UN CANNIBALE

di DOMENICO DE MASI, 1/11/2020, da “il Fatto quotidiano” –   www.ilfattoquotidiano.it   

– Futuro. La produttività da remoto cresce del 15-20% e verso questa modalità “migrerà” il 44% degli occupati. Avremo una contrapposizione massiccia con chi – dagli operai ai chirurghi – continuerà a spostarsi –

   La ripresa della pandemia rende urgenti due riflessioni sul mondo del lavoro: una, più contingente, su come tamponare nell’immediato i danni provocati dai vari tipi di lockdown che si stanno adottando in Italia e nel mondo; un’altra, più radicale e di lungo raggio, su come evolverà il mercato del lavoro e cosa si dovrà fare dopo che la pandemia sarà sconfitta.

   Durante questi mesi di collasso economico, alcune aziende (come quelle del settore farmaceutico e dell’e-commerce), stanno facendo affari d’oro; la maggior parte vede ridotto il proprio giro d’affari; una minoranza non esigua sta per collassare. Il riflesso complessivo sull’occupazione è comunque drammatico e può essere “ristorato” solo con rimedi parziali come la cassa integrazione, i bonus, il Reddito di cittadinanza o quello di emergenza.

   Ma proprio mentre si ricorre a questi rimedi tattici, occorre che si abbia la lungimiranza di impostare un piano strategico per equilibrare il mercato del lavoro quando, passata la tempesta, occorrerà ripartire secondo un programma intelligente. A quel punto i problemi recessivi creati dal Covid-19 si sommeranno a quelli processivi che già urgevano ben prima della pandemia.

   I problemi di vecchia data, che il coronavirus non ha eliminato ma evidenziato e acuito, derivavano soprattutto dall’irruenza del progresso tecnologico e dei suoi effetti sul lavoro. A partire dall’avvento industriale, due secoli or sono, si sono susseguite e sommate tra loro quattro ondate di questo progresso: prima le macchine automatiche come i telai, poi le macchine elettromeccaniche come le catene di montaggio, quindi le macchine digitali come i computer, ora l’Intelligenza Artificiale.

   Tutte e quattro queste trasformazioni hanno puntato all’aumento esponenziale della produttività e ogni volta siamo risusciti a produrre più beni e più servizi utilizzando più lavoro meccanico e meno lavoro umano. Come ho ricordato più volte, 130 anni fa, gli italiani erano 30 milioni e, in un anno, lavorarono 70 miliardi di ore. Lo scorso anno eravamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore ma, lavorando 30 miliardi di ore in meno, abbiamo prodotto centinaia di volte in più.

   Contemporaneamente è mutata anche la qualità del lavoro restante: nella metà dell’Ottocento, su 100 lavoratori, 94 erano operai; oggi gli operai sono il 30 per cento di tutta la forza lavoro mentre tutti gli altri – cioè il 70 per cento – sono “colletti bianchi” di cui la metà, composta da professionisti, manager, imprenditori, artisti e scienziati, svolge attività creative. Piaccia o non piaccia, andiamo verso un mondo in cui il progresso tecnologico sottrarrà sempre più lavoro ai lavoratori in carne e ossa.

   Del resto, è proprio in questo che consiste il progresso. Per evitare che la disoccupazione aumenti a dismisura, l’unico strumento risolutivo sarà la progressiva riduzione dell’orario di lavoro.

   Tutto questo fu previsto lucidamente già 90 anni fa da JOHN MAYNARD KEYNES e viene confermato dal recente rapporto THE FUTURE OF JOBS 2020 del WORLD ECONOMIC FORUM, secondo cui la pandemia “ha accelerato l’arrivo del futuro del lavoro” perché “l’adozione del cloud computing, dei big data e dell’e-commerce rimane una priorità assoluta per i leader aziendali, seguendo una tendenza stabilita negli anni precedenti. Tuttavia, c’è stato anche un significativo aumento dell’interesse per la crittografia, i robot non umanoidi e l’intelligenza artificiale”. Il risultato è che “a differenza degli anni precedenti, la creazione di posti di lavoro sta rallentando mentre la distruzione di posti di lavoro accelera”.

   Già negli anni precedenti la pandemia i robot avevano sostituito buona parte della fatica operaia, i computer avevano assorbito gran parte del lavoro impiegatizio e avevano fornito un grande aiuto alle attività creative. Ora l’Intelligenza Artificiale stava facendo il resto. Ma, a tutto questo progresso tecnologico, si è ora aggiunto un imprevisto sviluppo organizzativo con effetti molto simili di labour saving. Benché da molti anni si parlasse di telelavoro e di smart working, vantandone vantaggi accertati sia per i lavoratori che per le aziende e per le città, il primo marzo di quest’anno in Italia telelavoravano circa mezzo milione di impiegati. Ma il 10 marzo, come per incanto, sotto la frusta del coronavirus e del lockdown, questi telelavoratori sono schizzati a otto milioni, cioè la metà di tutti gli impiegati, i funzionari, i manager e i professionisti esistenti in Italia.

   Il maggiore effetto, ampiamente previsto dai sociologi, ma sorprendente per i manager che avevano sempre ignorato quelle previsioni, è stato un aumento notevole della produttività degli smart workers. Non a caso, tutte le ricerche condotte sull’adozione del lavoro agile negli anni precedenti il coronavirus dimostravano che, con esso, la produttività cresce del 15-20 per cento. Ciò significa che, dove il lavoro in ufficio richiedeva 100 dipendenti, con lo smart working ne bastano 80-85.

   Torniamo al report del World Economic Forum: “Il futuro del lavoro è già arrivato per la grande maggioranza dei colletti bianchi online. L’84% dei datori di lavoro è pronto a digitalizzare rapidamente i processi di lavoro” in modo da “spostare il 44% della propria forza lavoro per operare da remoto”. In Italia questo processo è più esteso e veloce che altrove.

   In complesso, dunque, dobbiamo attenderci che, dopo la pandemia, una pluralità di fattori agirà simultaneamente nel senso di produrre di più con minore impiego di lavoro umano. Alcuni posti saranno distrutti dal lockdown; altri saranno assorbiti dai robot e dall’Intelligenza Artificiale; altri dalla conversione del lavoro d’ufficio in smart working; altri ancora dalla soppressione di attività aziendali ed extra-aziendali connesse al lavoro in ufficio (mense, guardianie, bar, ecc.); altri dall’esuberanza di immobili determinata dalla dismissione degli uffici; altri ancora dalla sostituzione di molte attività intermediarie grazie all’e-commerce e alla gig economy.

   Dunque, passata la pandemia, la ricchezza riprenderà a crescere, ma sarà prodotta sempre meno dagli uomini per cui sarà difficile ripartirla come facciamo tuttora, cioè in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Alcuni continueranno a prestare servizi alle persone (medici, infermieri, badanti); altri svolgeranno attività creative inventando nuovi prodotti e nuovi servizi; ma per un numero crescente di persone non ci sarà lavoro o ce ne sarà poco e precario per cui si dovrà istituire un REDDITO UNIVERSALE, di cui l’attuale REDDITO DI CITTADINANZA non è che un pallido antesignano.

   Inoltre si profila una nuova contrapposizione frontale tra i milioni di operai, chirurghi, insegnanti, barbieri, costretti a recarsi quotidianamente sui luoghi di lavoro, e i milioni di privilegiati che potranno consentirsi lo smart working. (DOMENICO DE MASI)

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(qualche dubbio sull’-inevitabile?- consolidarsi dello SMART WORKING):

 

IL SOCIOLOGO PETRILLO – IL PROF, IL VIRUS E LO SMART WORKING

“Che brutta cosa la fuga dalle città con il telelavoro”

“LA GRANDE FUGA DALLE CITTÀ: È LIBERTÀ O UN EFFETTO OTTICO? “

di Antonello Caporale, 16/11/2020, da “Il Fatto Quotidiano”

– Riassumendo professore: in città rimarranno solo gli sfigati. Chi può si allontanerà: campagne, paesi. “La sintesi estremizza ma non bara.” –

   Con ANTONELLO PETRILLO, che studia i fenomeni sociali e li allinea nel loro spazio e nel loro tempo, ci interroghiamo su questo fuggi fuggi da Covid.

“Di ‘secessione delle élites’ ha parlato Bauman molto prima che la pandemia facesse da miccia esplosiva.”

Negli anni novanta abbiamo conosciuto la delocalizzazione dei mezzi di produzione, oggi tocca alle persone.

“Fenomeno con un enorme impatto sulla nostra vita, sulle condizioni di lavoro, sui livelli stessi di democrazia.”

Prima erano i ricconi a scegliere di gestire i loro affari da lontano. Isole incantate, castelli.

“Oggi la piramide si abbassa. Lascia il luogo fisico anche chi è solo benestante e può permettersi di valutare dove abitare”.

Non finirà con la pandemia questa migrazione del ceto medio alto dalle città alla campagna.

“Non solo la classe benestante ma chiunque potrà, tenderà a scegliere dove vivere, e gli sembrerà enorme la fortuna. I centri storici si svuoteranno, i paesi si riempiranno. Ma chi se ne avvantaggerà? È giusto fermarci a riflettere.”

Gode chi scappa o chi resta?

“Chi resta ubbidirà alla sua condizione sociale. Chi lascia subirà l’effetto ottico della libertà.”

L’effetto ottico.

“L’uomo è un animale sociale. Vive se ha relazioni. In casa, con lo smart working, sarà parte di quell’insieme di solitudini che vedranno ampliate le loro capacità di lavoro e ridotte tutte le altre. Si avrà una percezione alterata del proprio ruolo, un deficit della capacità di risposta sindacale se i ritmi, la qualità, la densità dell’impegno saranno superiori a ciò che stabilisce il contratto di lavoro. Lo smart working nasce decenni fa e amplia a dismisura la nostra disponibilità di tempo.”

Saremo a casa, in famiglia.

“Ecco l’effetto ottico. Più a casa, più in famiglia, ma anche più al lavoro, più connessi. Ed essendo più soli, più indifesi. Questa condizione avvantaggia il capitale di sicuro.”

Un attimo, cambio penna, ho finito l’inchiostro.

“Inizi a ragionare sul suo inchiostro. Prima la penna e tutti gli strumenti del suo lavoro, quelli basici (cancelleria, stampante eccetera) li trovava in redazione. Adesso li acquista lei. Moltiplichi per “n” unità. E poi moltiplichi l’energia che lei consuma e che l’azienda risparmia. Lo spazio che lei occupa e che l’azienda riduce.”

Ma io vivo dove voglio, scelgo il luogo eletto.

“Le parrà di scegliere. Ma dimentica che le città sono luoghi di libertà e di crescita culturale. Il teatro, il cinema, la piazza, l’incontro con gli altri, il confronto con gli altri. La politica. I canali ideologici sono scomparsi, le restano i social, capisce?”

Lei allora perché ha scelto la campagna?

“Per il medesimo impulso: vivo in tranquillità, tra i miei boschi irpini. Lontano dal pericolo del virus e anche dal casino metropolitano. Ma lo smart working, che mi permette di vivere dove ho scelto, mi allontana dall’università, dai miei studenti e dai miei colleghi. L’università è anzitutto un grande centro di distribuzione culturale, di smistamento e infusione delle competenze. Un luogo dove si studia e dove capita persino di innamorarsi. Ma di più: le mie lezioni, come quelle di decine di centinaia, di migliaia di colleghi, sono riversate nella rete, in un certo senso spossessate dalla proprietà intellettuale, in vario modo in futuro commerciabili, monetizzabili. Da chi?”

Ma l’Italia interna, della quale fino a ieri abbiamo detto che sta per scomparire, godrà il beneficio di questa migrazione.

“Territori finora marginali troveranno una vita nuova. Ma i nuovi inquilini di queste campagne alimenteranno sempre più lavori a basso reddito: i corrieri, i servizi domestici, l’asporto. Chi non fa smart working dovrà pedalare, fare su e giù in bici, in moto o col camion. E chi è in smart resterà immobile. Ricco ma fermo nel giardino di casa”.

(di ANTONELLO CAPORALE, da “IL FATTO QUOTIDIANO” del 16/11/2020 – ANTONELLO PETRILLO insegna Sociologia presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Autore di numerose pubblicazioni, ha dato vita nel 2008 al progetto URiT (Unità di Ricerca sulle Topografie sociali): lo scopo è indagare i rapporti di potere tra locale e globale. L’esplorazione scientifica (e le pubblicazioni del progetto URiT) riguardano le strategie di controllo e gestione (dello spazio e dei corpi) all’interno delle dinamiche mondiali del tardo-liberalismo e le resistenze da essi generati sul territorio)

L’EUROPA OSTAGGIO dei veti dei paesi sovranisti: il processo di federalismo europeo necessita del superamento del TABÙ DELL’UNANIMITÀ – Come uscirne? Fare presto a indire la CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA per stabilire regole democratiche decisionali più adeguate

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VETO DI POLONIA E UNGHERIA: L’UNIONE EUROPEA NON PUÒ PIÙ ESSERE OSTAGGIO

Comunicato del MFE (Movimento Federalista Europeo – 18/11/2020)

   Come preannunciato nei giorni scorsi dai governi di Ungheria e Polonia, lunedì gli ambasciatori dei due Paesi hanno bloccato l’approvazione dell’accordo raggiunto dai rappresentanti del Consiglio e del Parlamento europeo sul Quadro finanziario pluriennale dell’Unione Europea per gli anni 2021-2027.

   I due ambasciatori hanno posto il veto all’aumento del tetto alle risorse proprie dell’Unione per manifestare la loro opposizione al nuovo meccanismo, voluto dal Parlamento europeo e dagli altri 25 governi, che consentirebbe all’UE di tagliare i fondi a un paese che viola lo Stato di diritto.

   Lo stallo che si è venuto in tal modo a creare è particolarmente grave, perché se non si trova un accordo, si è costretti a rimandare l’entrata in vigore del nuovo bilancio pluriennale e dell’intero Recovery Plan, ad esso collegato, rinviando in tal modo anche l’erogazione dei fondi del Next Generation EU agli Stati membri. Al tempo stesso, raggiungere un compromesso diventa ora molto difficile.

   Di fatto, o Ungheria e Polonia fanno un passo indietro e accettano di ritirare il veto (e si predispongono a convincere i rispettivi parlamenti nazionali a ratificare l’accordo sul tetto delle risorse proprie), oppure è l’Unione europea a dover cedere al ricatto dei governi ungherese e polacco. Se la prima ipotesi al momento è poco realistica, la seconda sarebbe disastrosa: vorrebbe dire che l’Unione rinuncia a difendere i propri valori fondanti e i principi su cui si basa, accettando così di ridursi ad una organizzazione di Stati sovrani che rimangono uniti semplicemente sulla base di un mero interesse economico.

   Lo scontro che si sta consumando ha dunque un significato politico profondo: è l’ennesima dimostrazione che l’assetto dell’Unione europea non è adeguato rispetto alle sue ambizioni. Un’Unione che si vuole una comunità di valori non può trovarsi in balia di un’esigua minoranza dei suoi membri che negano tali valori e mantengono al tempo stesso il potere di sottrarsi a qualsiasi pressione, paralizzando l’Unione se cerca di agire in modo coerente con le sue aspirazioni.

   Se il progetto comune europeo, fondato sulla solidarietà e sull’autonomia strategica, sta prendendo sempre più forma come risposta alla crisi pandemica, è evidente al tempo stesso che per realizzarsi deve tradursi in un nuovo assetto politico-istituzionale, che può solo essere di natura federale: un’unione politica che deve partire senza farsi bloccare dal tabù dell’unanimità, accettando anche il fatto che all’inizio non tutti gli attuali Stati membri dell’UE acconsentiranno di entrare in una vera unione politica.

   Per questo è necessario che la Conferenza sul futuro dell’Europa venga avviata al più presto. Si tratta del quadro che le istituzioni europee e i governi hanno individuato a questo scopo, anche per coinvolgere i cittadini.

   Su questa base il MFE sta chiedendo al governo italiano di impegnarsi nelle sedi europee per fare in modo che il lancio della Conferenza avvenga entro la fine dell’anno. E’ tempo che l’Unione europea smetta di essere ostaggio di chi non condivide neppure il principio dello Stato di diritto.

(Movimento Federalista Europeo, 18/11/2020)

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IL FUTURO DELL’EUROPA SENZA TABÙ

di Guido Montani (Università di Pavia), 27/10/2020, da https://euractiv.it/

   La Conferenza sul futuro dell’Europa dovrebbe essere convocata entro la fine dell’anno. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, l’ha annunciata nel suo discorso inaugurale e il Parlamento europeo recentemente (Risoluzione del 18/6/20) ha sollecitato la sua convocazione entro il 2020. Tuttavia, sono emersi improvvisamente ostacoli che rischiano di ridurre drasticamente il significato della Conferenza.

   Al momento, il principale scoglio da superare riguarda la proposta del Parlamento europeo di affidare la presidenza della Conferenza a Guy Verhofstadt, che da anni si batte per una riforma democratica e federale dell’Unione. Alcuni membri del Consiglio europeo si sono opposti seccamente a questa indicazione. Un articolo del Politico (De La Baume, 13/10) riferisce: «Verhofstadt è stato considerato come una falsa partenza da un certo numero di governi europei nel Consiglio», con la motivazione che Verhofstadt sarebbe «un sostenitore del federalismo europeo». Ora è cominciata la caccia a candidati alternativi.

   Dobbiamo dedurre che in Europa è legittimo essere liberali, democratici, socialisti, verdi e sovranisti, a patto di non essere federalisti. Tuttavia, se questo punto di vista prevalesse, la Conferenza nascerebbe morta. Opporsi senza motivazioni serie al Parlamento europeo significa insultare la democrazia europea: il Parlamento europeo è l’unico organo legittimato dal voto popolare, qualità che manca al Consiglio. Ciò nonostante, i governi sovranisti intendono restringere drasticamente l’orizzonte politico del dibattito. Vogliono vietare a priori che si discuta di federalismo europeo, sebbene il Presidente Macron, nel proporre la Conferenza, abbia invocato un dibattito senza tabù. Evidentemente il tabù esiste.

   Democrazia europea e federalismo europeo sono due facce di una medesima medaglia. In un anno drammatico di pandemia, molte proposte della Commissione e del Parlamento, importanti per i cittadini europei, sono state bloccate dal voto all’unanimità nel Consiglio (la disputa sul bilancio è esemplare): una piccola minoranza di paesi e di popolazione si oppone alla stragrande maggioranza. E’ la dittatura della minoranza. Se vogliamo superare questo collo di bottiglia, occorre prendere in considerazione gli insegnamenti del pensiero federalista (che risale a Immanuel Kant e Alexander Hamilton), perché i principi del federalismo possono aiutare a sbrogliare la matassa.

   Va tuttavia osservato che l’esperienza degli stati federali esistenti è di scarso aiuto. Sino ad ora il federalismo si è realizzato all’interno di stati nazionali sovrani (come gli USA, il Canada, l’India, l’Australia, la Svizzera, ecc.) trasformandosi così – nella cultura politica contemporanea – in un meccanismo per il decentramento amministrativo. In Europa, al contrario, i padri fondatori hanno progettato le prime istituzioni, la CECA e la Comunità economica europea (CEE), come un “work in progress” verso una unione federale.  La Dichiarazione Schuman è molto esplicita in proposito. Per superare gli attuali ostacoli sarebbe opportuno compiere un passo verso il federalismo sovranazionale. Il federalismo europeo sarà diverso da tutti i sistemi federali esistenti. Non tutte le competenze e i poteri dei governi nazionali dovranno essere assegnati al livello europeo, contrariamente a quanto affermano le forze sovraniste, compresi quei governi che ripudiano gli ideali delle stesse istituzioni da cui traggono benefici. Il criterio della divisione verticale dei poteri vale per la politica commerciale, fiscale, la sicurezza, la difesa, l’ambiente, la salute, ecc.

   Non intendo entrare in un dibattito che dovrà essere fatto dai rappresentanti dei cittadini europei nella Conferenza. Voglio solo ricordare che l’Unione deve affrontare delle sfide interne e internazionali che richiedono con urgenza delle riforme strutturali. Le sfide dell’emigrazione, della sicurezza europea, del riarmo atomico delle grandi potenze e della proliferazione delle armi di distruzione di massa, delle nuove tecnologie informatiche, dei disastri ambientali e dalle pandemie non si possono affrontare a livello nazionale, ma richiedono una capacità d’azione europea, al livello federale.

   Senza politiche adeguate alla gravità dei problemi, non c’è coesione tra i cittadini europei e l’Unione resta debole. Una comunità politica non esiste senza ideali comuni, un’identità e politiche efficaci. Alcune indicazioni per procedere in questa direzione sono già state fornite da Josep Borrell nel suo messaggio all’ONU: «L’UE sostiene le Nazioni Unite» (Project Syndacate, Sept. 22). Borrell afferma: «Un mondo governato da regole concordate è il vero fondamento della nostra sicurezza collettiva, libertà e prosperità. Un ordine internazionale basato su regole rende sicuri gli stati, conserva la libertà dei cittadini e delle imprese che intendono investire; e assicura che l’ambiente del Pianeta sia protetto. L’alternativa – “il potere crea il diritto” – è stato sperimentato nel corso della storia umana e il suo orribile ricordo è il miglior argomento per un sistema multilaterale. Sfortunatamente, si sta tentando di riprovarci con i risultati che vediamo. Questo non è l’approccio dell’UE. Noi continuiamo a credere e sostenere le Nazioni Unite».

   Il ruolo della UE nel mondo sarà uno dei temi cruciali della Conferenza sul futuro dell’Europa. I giovani sono oggi in ansia per le sorti della vita sul Pianeta e chiedono ai leader di governo politiche più audaci contro l’inquinamento della biosfera e per la costruzione di un mondo pacifico. L’UE non avrà un futuro se il Pianeta non avrà un futuro.

   I politici nel Consiglio europeo che vogliono escludere dal dibattito la prospettiva di un’Europa democratica e sovranazionale dovrebbero spiegare ai giovani perché è meglio restare rinchiusi nel guscio nazionale. (Guido Montani (Università di Pavia), 27/10/2020, da https://euractiv.it/)

‘LA PESTE’ DI CAMUS CI DÀ UNA LEZIONE SULLA PANDEMIA DA COVID: SPERANZA, PRUDENZA E MEMORIA PER ANDARE AVANTI

di Livia Liberatore, da https://it.mashable.com/coronavirus/

   ‘La Peste’ di Albert Camus, pubblicato nel 1947, sembra descrivere in modo perfetto quello che abbiamo vissuto (e stiamo vivendo in questa seconda fase, NDR) in questi mesi con il Coronavirus. La peste che contagia i cittadini della città algerina di Orano provoca in un primo tempo uno sconcerto tale che viene rifiutata, sminuita e allontanata dal pensiero. Poi diventa la normalità. La vita del medico Bernard Rieux e dei suoi amici Jean Tarrou, il giornalista Raymond Rambert, Joseph Grand e Cottard durante i mesi in cui la città viene isolata dal resto del mondo è così simile alla nostra da marzo in poi da suscitare una impressione profonda.

  Il romanzo è stato uno dei più letti durante il (primo, ndr) lockdown. Vale la pena consultarlo anche per imparare qualcosa sulla fine di un’epidemia. Che fine non è, in realtà. Ma più una pausa da un pericolo che non sparisce mai, come quello dei virus e batteri. Il medico Rieux sapeva che “il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui per sventura e insegnamento agli uomini la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

   E questa è solo una delle lezioni che possiamo imparare dal libro.

La speranza e la prudenza

Dopo più di otto mesi di isolamento, i contagi a Orano cominciano a diminuire e le autorità prefigurano una riapertura dei confini della città. I cittadini impiegano qualche giorno per rendersi conto che la liberazione è vicina e allora sono divisi fra due sentimenti.

   “I mesi passati, accrescendo il loro desiderio di liberazione, avevano insegnato la prudenza e insieme li avevano abituati a contare sempre meno in una fine prossima del contagio. Ciononostante, il fatto nuovo era su tutte le bocche, e in fondo ai cuori si agitava una grande speranza inconfessata”, si legge nel libro.

La gioia difficile

Due giorni prima dell’apertura della città, proprio mentre tutti si preparano a festeggiare la fine dell’epidemia, l’amico del medico Rieux, Jean Tarrou, si ammala e in poco tempo muore.

   Il momento della sconfitta della peste, è segnato dalle contraddizioni. Tarrou malato mentre fuori si vede la fine dell’isolamento, la felicità delle persone che si riversano nelle strade per festeggiare insieme alla tristezza delle famiglie che hanno perso un proprio caro a causa della malattia.

La memoria

Alla fine dell’epidemia Rieux riflette fra sé sui mesi passati: “Aveva soltanto guadagnato di aver conosciuto la peste e di ricordarsene, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarsene, di conoscere l’affetto e di doversene ricordare un giorno. Quanto l’uomo poteva guadagnare, al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria“.

   Memoria che è anche quella delle vittime, accusata di essere troppo “ufficiale” da non essere autentica. “Dica, dottore, è vero che costruiranno un monumento ai morti della peste?”, chiede un paziente a Rieux. “Lo dice il giornale, una stele o una targa”, “N’ero sicuro. Ci saranno dei discorsi”. “Li sento di qui: ‘I nostri morti…’ e poi andranno a mangiarci su”.

L’emozione di ritrovarsi

La liberazione è un momento bellissimo per gli innamorati che erano rimasti separati a causa dell’isolamento. “Il senso, vago e insieme acuto in loro, di tanti mesi perduti per l’amore, gli faceva confusamente esigere una sorta di compenso, sì che il tempo della gioia avrebbe dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa”.

   Tutto il romanzo è attraversato da una opposizione fra affetti privati e senso della comunità. Il personaggio del giornalista Rambert passa attraverso i due poli: vuole fuggire da Orano per stare insieme alla sua fidanzata lontana, in Francia, ma poi viene convinto dal medico a far parte delle squadre dei volontari a soccorso dei malati e sceglie di restare. Alla fine, torna agli affetti fra le braccia della sua amata, dopo la fine dell’epidemia.

   Scrive Camus parlando di Rambert e degli altri innamorati: “Sulla banchina della stazione dove ricominciavano la loro vita privata, ancora sentivano la loro comunità, scambiandosi occhiate e sorrisi”.

Lo spirito di comunità

Tra chi ha cercato di curare i malati, con la fine della peste resta un legame intenso per aver vissuto l’esperienza insieme e un rimpianto per la solidarietà che c’era. Il medico Rieux lotta per la salute degli uomini e non per la loro “salvezza” dell’uomo, alla quale aspira invece un altro personaggio, padre Paneloux.

   Tra quelli, come il religioso, che avevano cercato di rivolgersi a “qualcosa al di sopra dell’uomo, qualcosa che non riuscivano a immaginarsi, non c’era stata risposta”. Non è la fede la risposta al male, dice Camus, ma la comunità degli uomini e gli affetti. “E Rieux […] ritenne giusto che, almeno di tanto in tanto, la gioia venisse a ricompensare quelli che si accontentano dell’uomo e del suo povero, terribile amore”, si legge nelle ultime pagine.

(Livia Liberatore, da https://it.mashable.com/coronavirus/)

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“LA PESTE” in AUDIOLIBRO:

(Rai Radiotre) – Letteratura “ad alta voce”: https://www.raiplayradio.it/programmi/adaltavoce/

Albert Camus LA PESTE, letto da Remo Girone:

https://www.raiplayradio.it/playlist/2017/12/La-peste-2719929f-50da-4561-a32a-4324d0fdc5e1.html

Rider (e non solo), DE MASI: “Basta parlare di contratti, l’unica strada per i diritti oggi è il REDDITO UNIVERSALE” – da MICROMEGA, 30/10/2020

– Da Engels a Keynes, passando per Arendt fino ad arrivare a Buffet e Bezos, intervista al professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma a partire dalla vertenza dei rider. Al centro, la distruzione del mondo del lavoro causata dall’avvento delle nuove tecnologie. In questo scenario emergono le responsabilità dei sindacati e della scuola e un unico futuro possibile: quello del reddito universale e dell’ozio creativo. –

intervista a Domenico De Masi di Daniele Nalbone

   Doveva essere un’intervista sui rider, è diventata un’intervista sul reddito universale, e non è colpa della pandemia in corso. L’emergenza sanitaria che ha innescato quella sociale, o meglio “l’ha fatta detonare”, per usare le parole di Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ne è la prova. Era il 2006 quando WARREN BUFFET, che solo due anni dopo avrebbe raggiunto il gradino più alto della classifica degli uomini più ricchi del mondo, dichiarò: “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. DOMENICO DE MASI parte da qui per inquadrare la questione dei rider. Per tutta la nostra chiacchierata il contratto dei fattorini del cibo a domicilio resta sullo sfondo.
Non si fa problemi a dirmi che, a suo avviso, ho sbagliato punto di vista quando gli ho chiesto di rilasciare un’intervista che analizzasse la pericolosità del contratto firmato tra le app di Assodelivery e l’Ugl. Pericolosità che ha spiegato bene wired in un articolo dal titolo “Scatta l’accordo tra le app di Assodelivery e l’Ugl. I fattorini che non accettano le condizioni saranno esclusi. Gli altri sindacati protestano, mentre il ministero tace”.

Professore, perché a suo avviso ho sbagliato angolazione per osservare la questione?

Perché la questione non è “oggi”. Non è questo contratto o un qualche contratto. Dal 2007, dall’avvento degli smartphone, e ancor prima dall’arrivo sul mercato dei pc, è in corso un accerchiamento concentrico dei lavoratori. Di tutti i lavoratori. Degli operai e dei fattorini, dei manager e degli impiegati. Tutti i lavoratori sono diventati, dal punto di vista del potere, proletari. E sono stati sconfitti. Buffet, quattordici anni fa, aveva visto bene: i ricchi hanno vinto la lotta di classe perché hanno avuto la capacità di cavalcare l’arrivo delle nuove tecnologie.

È tutto qui, quindi? Hanno vinto i ricchi, hanno perso i lavoratori?

Il finale non è scritto, ma dobbiamo voltare pagina. È finita l’epoca del lavoro. È iniziata quella del reddito. Ma ci arriveremo. Prima dobbiamo analizzare il ruolo della tecnologia, altrimenti saltiamo subito alle conclusioni.

Va bene, iniziamo dalla tecnologia e in particolare dal ruolo delle piattaforme. In fondo tutto parte da lì, parlando dei rider.
Crede sia un caso che le piattaforme siano usate dalle destre e non dalla sinistra? O crede sia un caso che i 5 stelle abbiano “Rosseau” e i sindacati no? I BEZOS si sono fatti le loro piattaforme e una piattaforma manovra i rider, la Cgil non ha una piattaforma per farli incontrare tra loro e con il sindacato. Se il sindacato si fosse dotato di tecnologie all’altezza della sfida, la storia sarebbe stata diversa.

Questione di ritardi, quindi?

Si. Siamo in un ritardo terribile. Faccio un esempio: guarda quanto sta accadendo con lo smartworking. Io nel 1993 ho organizzato il primo libro sul tema e ho creato la Società italiana telelavoro. Ebbene dal 1993 al marzo 2020 in Italia siamo arrivati a quota mezzo milione di telelavoratori. Dieci giorni dopo, le persone in smartworking erano otto milioni. Posso dire di aver avuto la fortuna di assistere al più grande esperimento industriale di tutti i tempi. Per anni i “capi” hanno sostenuto l’impossibilità di portare il lavoro dall’ufficio a casa, si faceva continuo richiamo a grandi e costose tecnologie, a corsi di formazione. Tutte queste resistenze sono saltate in poco più di una settimana. Il problema è che siamo arrivati allo smartworking non grazie a delle lotte, a vertenze, a rivendicazioni ma “grazie” a un pipistrello in Cina. Il risultato: stiamo subendo il cambiamento, non lo abbiamo progettato e non lo stiamo governando. Ma il cambiamento, che lo vogliamo o no, arriva. Anche la questione dei rider si inquadra in questo scenario: è una modalità di lavoro dovuta alle nuove tecnologie, a un sistema in cui il datore di lavoro ha capito di poter scaricare tutto su una piattaforma. Mi riferisco all’organizzazione stessa del potere. Il tutto senza che la controparte si accorgesse della cosa.

Le chiedo, allora, come si possono ridare diritti a questi lavoratori?

Oggi non c’è forma di lavoro, organizzazione o contratto che tenga. L’unico diritto si chiama reddito. Reddito universale. E non mi preoccuperei nemmeno del ritardo di cui tanto si parla sul normare e contrattualizzare queste forme di lavoro. L’avvento di questa “società” è recente. Per imparare a costruire il contropotere nella fabbrica ci sono voluti più di cento anni. Ora ne sono passati molti meno: se i sindacati prendessero in mano la situazione potremmo fare anche prima. Il problema è lì, nelle organizzazioni del lavoro e nella scissione dei partiti dai sindacati. In Italia tutto è crollato nel momento in cui il sindacato non si è più “agganciato” al partito. Tutto è finito quando il Pd è diventato neoliberista.

Allora le chiedo: non potevamo capire prima della necessità di un reddito universale?

Sa quando ci si è resi conto che sarebbe stato necessario un reddito universale negli “anni duemila”? Nel 1930, quando a Madrid JOHN MAYNARD KEYNES tenne una conferenza intitolata Prospettive economiche per i nostri nipoti – e poi, nel 1958, quando HANNAH ARENDT pubblicò Vita activa. Loro analizzarono cosa avviene quando, in una società fondata sul lavoro, il lavoro viene a mancare. Possiamo dire che oggi non abbiamo niente da scoprire. Guardando avanti ci sarà sempre meno lavoro, è un dato di fatto. Il vero problema, quindi, sarà come ripartire il lavoro residuo e come gestire il tempo libero. Avremo in futuro così tanto tempo libero che dobbiamo capire subito cosa farne. Per evitare che si vada verso una società di isterici, di depressi dall’assenza di un impiego, c’è solo una strada percorribile: quella dell’ozio creativo. Solo la cultura potrà salvarci. Sotto questo aspetto il reddito di cittadinanza, per come lo conosciamo in Italia, è solo un barlume di ciò che sarà in futuro.

Non abbiamo fatto però i conti ancora con la tecnologia. O meglio, con le piattaforme e i loro effetti sui lavoratori.

Facciamo un gioco. Immaginiamo di essere nella Londra del 1845. Lo vede ENGELS intento a scrivere il suo capolavoro, La situazione della classe operaia in Inghilterra? La domanda che dobbiamo porci, prima di iniziare a giocare, è: come si può arrivare alla possibilità che milioni di persone – gli operai – tollerino situazioni di subordinazioni tanto crudeli? Uno: perché sono analfabeti. Due: perché non avevano nessun tipo di organizzazione. Terzo: erano alla fame. Quarto: non avevano un esercito dalla loro parte ma, anzi, in caso di ribellione, l’esercito avrebbe sparato su di loro. Risultato: dovendo scegliere tra il peggio – la morte – e il meno peggio – una morte più lenta – si sceglie sempre la seconda strada. Facciamo ora un salto di quasi duecento anni: io imprenditore come posso tenere nelle stesse condizioni di subordinazione giovani dipendenti che stavolta non sono analfabeti ma invece diplomati e addirittura laureati? Come posso renderli altrettanto gregari? Un datore di lavoro del 1845, guardando quasi duecento anni avanti, avrebbe risposto: se devo costringere dei lavoratori a correre per le città da un ricco che produce le pizze verso un ricco che le mangia senza, che loro lavoratori sputino su quella pizza, la prima cosa di cui avrò bisogno è non apparire. Non esistere. Devo delegare a qualcosa di astratto, che in altre epoche avremmo chiamato religione, questo ruolo. Ed ecco la piattaforma. Questo l’ha spiegato perfettamente KEN LOACH nel suo ultimo film (Sorry We Missed You, ndr), un vero “trattato” di sociologia, che andrebbe fatto vedere nelle scuole: nessun sociologo potrà mai descrivere così a fondo la condizione delle nuove gregarietà. Poi avrei bisogno che questo lavoratore sia scolarizzato, perché la scuola è alleata del capitale: ragazzi che passano dieci, dodici, quindici anni a essere indottrinati verso il lavoro, l’obbedienza, è la base per costruire una società come quella attuale. Come si possono chiudere duecento persone in un open space a lavorare a testa bassa se non con un forte indottrinamento all’obbedienza? Terzo elemento necessario: che non si aggreghino. Questa in teoria è la cosa più difficile perché non dipende dall’imprenditore: l’unica speranza era che i sindacati non si accorgessero dell’importanza delle piattaforme, che non si dotassero degli stessi strumenti per organizzare i lavoratori. È andata così, e oggi una piattaforma fa correre dei ragazzi in sella alle bici per consegnarci il cibo ma non c’è un’altra piattaforma che li fa incontrare per organizzarsi e agire in modo antagonistico.

Quindi non nutre speranze in un eventuale contratto della categoria? È finita l’era dei diritti?

Oggi c’è un solo strumento utile, più grande di ogni contratto collettivo che si possa anche solo immaginare: il reddito universale, che come primo effetto eliminerebbe il ricatto lavorativo. Nessuno consegnerebbe più pizze per una piattaforma e per pochi spiccioli a notte. Anche qui, però, siamo a un bivio. Il reddito può essere dato come oggi si dà il lavoro, per creare monadi staccate una dall’altra, o come elemento unificante di una forza-lavoro che deve convertire questa forza-lavoro in ozio creativo. Sono passati venticinque anni e undici edizioni da quel libro e, più si va avanti, più quel concetto fotografa come saremo. E saremo una di due possibilità: la prima, immersi nell’ozio creativo; la seconda, immersi in un ozio dissipativo. Il bivio è questo: da un lato la cultura in un mondo con sempre meno lavoro; dall’altro una scuola che prepara le persone a un lavoro che non c’è più. La sfida, o il problema a seconda dei punti di vista, è come creare cittadini che, tra pochissimi anni, saranno consumatori senza essere produttori e, nello stesso tempo, saranno felici.

(intervista a Domenico De Masi di Daniele Nalbone, da MICROMEGA 30/10/2020)