27-28 agosto 1943, 80 anni fa, Altiero Spinelli fondava a Milano il Movimento Federalista Europeo 

LA TARGA IN CASA ROLLIER, A MILANO, CHE RICORDA IL LUOGO DELLA FONDAZIONE DEL MFE 80 ANNI FA

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27-28 AGOSTO 1943, 80 ANNI FA, ALTIERO SPINELLI FONDAVA A MILANO IL MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO 

“Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi, del movimento per l’Europa libera e unita!” (dal Manifesto di Ventotene)

   80 anni fa, in via Poerio a Milano, “in casa Rollier, una ventina di antifascisti provenienti dal carcere e dal confine che avevano risposto all’appello di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi e al loro Manifesto di Ventotene fondarono il 27-28 agosto 1943 il Movimento Federalista Europeo”. Così recita LA TARGA (VEDI QUI SOPRA) che a Milano ricorda la nascita del MFE, richiamandone il ruolo politico “di avanguardia”: una nuova organizzazione politica, apartitica, composta da militanti provenienti da tutti gli ambienti sociali e culturali e concentrata esclusivamente sulla “difficile e lunga lotta per la costruzione di un’Europa libera e unita”.

   Sono stati 80 anni di battaglie politiche spesso controcorrente, in un’Europa in cui è prevalso un processo di integrazione di tipo funzionalista e in cui i federalisti hanno lottato per mantenere vivo il progetto dell’unione politica federale. Si sono battuti sia a livello culturale – sviluppando la teoria del federalismo come pensiero politico originale non solo sul piano istituzionale, ma anche su quello della capacità di rispondere alle sfide dell’interdipendenza sempre più stretta a livello continentale e mondiale -; sia a livello politico, sfruttando le contraddizioni del processo funzionalista e quindi identificando e preparando i passaggi politici che inserivano elementi di natura federale nel processo. In particolare, le grandi campagne per l’elezione diretta a suffragio universale del Parlamento europeo e per la nascita di una moneta unica.
   Oggi il MFE continua a battersi, in Italia e in Europa, nel quadro dell’Unione dei federalisti europei (UEF), per un’Europa federale, sovrana e democratica. Dopo essersi impegnato con proposte precise per una riforma federale dell’Unione europea nel lungo processo della Conferenza sul futuro dell’Europa, ora sostiene la proposta che il Parlamento europeo, a seguito della Conferenza e del consenso maturato dai cittadini in questo ambito, si prepara ad approvare, chiedendo l’avvio di una Convenzione per la revisione dei Trattati.
   Il ritorno della guerra in Europa, le grandi sfide della transizione ecologica e digitale, le tensioni internazionali dimostrano ancora una volta che il messaggio al cuore del Manifesto di Ventotene – l’urgenza della Federazione europea – resta profetico per il destino dell’Europa e del mondo, che ha bisogno del contributo e del modello europeo federale per costruire un nuovo multilateralismo. “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”. 80 anni dopo il MFE continua ad esserne convinto.

Pavia-Firenze, 28 agosto 2023, la segreteria MFE

IL MFE CELEBRA I SUOI 80 ANNI

   Il Movimento Federalista Europeo (MFE) nasce a Milano in una riunione clandestina nella notte tra il 27-28 agosto 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale. Il suo punto di partenza politico è il Manifesto di Ventotene, scritto nell’agosto 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni sull’isola di Ventotene allora destinata a confino dei prigionieri politici. La scelta organizzativa compiuta sin dal momento della Fondazione è quella del movimento apartitico.

   Fin dalla sua nascita in Italia, il MFE si è impegnato per creare la Federazione europea, unica via per garantire la pace e la democrazia in Europa ed evitare il risorgere dei nazionalismi che avevano portato all’ascesa dei regimi totalitari nazi-fascisti e alle due Guerre mondiali.

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Alcune iniziative per gli 80 anni del MFE:

– Il Presidente della Repubblica SERGIO MATTARELLA sarà giovedì mattina 31 agosto a Torre Pellice (in Piemonte) – in visita alla comunità religiosa dei valdesi e dei metodisti  – per partecipare allo svelamento di una targa per ricordare la figura di Altiero Spinelli, ospite della famiglia del valdese Mario Alberto Rollier.   E’ anche un’occasione per rendere omaggio a una “prima volta” molto significativa: il primo discorso di Altiero Spinelli come leader del Movimento Federalista Europeo.  Nel pomeriggio si proseguirà con un convegno storico promosso dal Comune e dalla Fondazione Centro culturale valdese. Il convegno, dal titolo “L’Europa di Altiero Spinelli. L’importante eredità di un federalista“, avrà luogo al Teatro del Forte alle ore 16,30 e vedrà la partecipazione per il MFE di Luisa Trumellini, Segretario nazionale MFE e di Libero Giuffreda, Pres. del Centro Regionale MFE del Piemonte.

– 9 settembre, Milano. Evento. “Dalla tragedia di ieri alle sfide di oggi”: una Convenzione europea per un’Europa federale – Via Poerio 37 (casa Rollier), ore 10.30 – 13.00 | Evento politico con saluti e testimonianze del M.F.E. milanese e dei familiari dei fondatori.

– 29 ottobre, Pisa | Convegno: “Verso una riforma dell’Unione europea?” – Riflessioni a 80 anni dalla fondazione del Movimento Federalista Europeo.

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La nascita del MFE e la sua evoluzione organizzativa

   Il punto di partenza della vita del MFE è il Manifesto di Ventotene, scritto nell’agosto 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nell’isola al largo di Formia in cui erano confinati un migliaio di antifascisti. La diffusione negli ambienti della Resistenza delle tesi del Manifesto, che avvenne anche tramite il periodico clandestino L’Unità Europea (che è ancora oggi il periodico del MFE), portò alla fondazione del MFE a Milano nel corso di un convegno il 27-28 agosto 1943.

   Il MFE partecipò quindi alla Resistenza armata e svolse un’attività di contatti con gli ambienti della Resistenza europea, che portò nel luglio 1944 a Ginevra all’elaborazione di una Dichiarazione federalista dei movimenti di Resistenza e nel marzo 1945 a un congresso federalista a Parigi. Da queste iniziative nacque nel dicembre 1945 l’Unione dei federalisti europei (UEF), che costituisce ancora oggi il quadro politico-organizzativo sovranazionale dell’azione dei movimenti federalisti europei.

   Dopo la fine della guerra, il MFE partecipò all’organizzazione del Congresso dell’Aia del 7-10 maggio 1948, dal quale nacque il Movimento europeo (ME), l’organo di collegamento europeo fra i movimenti, i partiti, i sindacati e le associazioni culturali di orientamento europeistico, e alla costituzione degli intergruppi federalisti nella Camera dei deputati e nel Senato che sono stati da allora una presenza sostanzialmente stabile nel Parlamento italiano.

   Nel 1995 il MFE è anche diventato membro del World Federalist Movement (WFM), l’organizzazione mondiale dei federalisti, che era stato fondato nel 1948.

   Di fronte all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nessuno in Europa si illuda di potersi permettere di far mancare il proprio sostegno, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, alla libertà dell’Ucraina. La vera posta in gioco in questo momento, insieme al destino del popolo ucraino, è la nostra unità e libertà di Europei.
   Il processo di unificazione europeo è nato dalle ceneri di una guerra terribile. Il ritorno della guerra ci ammonisce che non si può più aspettare a portarlo a compimento. Gli Europei si rafforzino in questo momento drammatico avviando subito la nascita dell’unione politica federale.

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Manifestazione MFE al Parlamento Europeo a Strasburgo

Le potenze di mezzo (di Marta Dassù, da “la Repubblica” del 25/8/2023)

(La RUSSIA e i BRICS)

   Vladimir Putin, si capiva da mesi, combatte su due fronti: la lunga guerra di attrito in Ucraina e il fronte interno, agitato dal giallo sulla fine violenta di Evgenij Prigozhin, reo di tradimento. Il capo del Cremlino consuma, a quanto pare (parlando di torbidi russi una giusta dose di dubbio è sempre importante), l’ennesima vendetta fredda; ma non è detto che questo lo renda davvero più forte, dopo tutto la Wagner, come finta milizia privata, agiva da anni come braccio armato di Mosca in Siria, Ucraina e Sahel.

   Per limitare i possibili danni, e tenersi invece i benefici di chi si è liberato di una scheggia impazzita e ha ripristinato la credibilità del suo potere sulla cupola di Mosca, Putin ha ieri rotto il silenzio. Ha per la prima volta parlato di Prigozhin definendolo come un «uomo di affari di successo». Ha aggiunto che il fondatore della Wagner, che Putin aveva condannato come traditore dopo il tentativo di marcia su Mosca di due mesi fa, ha avuto un «destino complicato» e ha compiuto «errori seri» nella propria vita. In sostanza, per salutare il sodale che lo aveva sfidato, il capo del Cremlino ha usato uno stile che potremmo definire mafioso.

   Non sapremo mai la verità, naturalmente, su una dinamica strana e perversa. Prima Putin ha contrattato attraverso Lukashenko l’esilio di Prigozhin in Bielorussia; poi l’ha incontrato e lo ha lasciato viaggiare in Africa e in Russia; e poi – sostengono fonti della difesa britannica ed esperti di Mosca che vivono ormai in Occidente – ha lasciato che i servizi di intelligence russi portassero a compimento il «destino complicato» del cuoco del Cremlino.

   Era un epilogo atteso, per niente sorprendente e che cambierà poco per gli sviluppi della guerra in Ucraina; ma non per questo meno ripugnante. Può darsi che Putin si senta consolidato sul fronte interno. Ma ha ancora una volta dimostrato come funziona la Russia di oggi: uno Stato-mafia (definizione dell’Economist) più che la potenza neo-imperiale che vive solo nella testa dell’ex-funzionario del Kgb.

   Come conseguenza della guerra in Ucraina, Mosca si è in effetti ridotta a dipendere dalla Cina, che non ama e non ha mai amato. E l’alleanza con Pechino non è affatto “senza limiti”: una volta ottenuti dalla Russia petrolio a prezzo scontato e materie prime, la Cina deve occuparsi soprattutto di come gestire la sua difficile transizione economica. Cosa che riguarda i rapporti con l’Occidente, non con una Russia che ha il rublo in tracollo.

   La leadership cinese, che ha letto nella crisi finanziaria del 2008 un segno tangibile di declino americano, è in qualche modo di fronte al “suo” 2008. Con tutte le conseguenze del caso sull’andamento della domanda globale: siamo in una fase di frammentazione, è vero, ma l’economia internazionale continua naturalmente ad esistere.

   La Russia non può peraltro contare realmente sul Global South: uno schieramento che in realtà non esiste, una definizione di comodo per definire il mondo non-occidentale. Lo si è visto alla riunione dei Brics in Sudafrica, cui Putin – che rischia un arresto internazionale – ha partecipato in posizione marginale, in video-conferenza. Chi aspira a guidare le economie emergenti di oggi è la Cina; ma senza l’appoggio dell’India, che si proietta a sua volta come grande potenza globale. Nei confronti della Russia, le potenze regionali offrono una blanda neutralità, continuando a difendere – come è emerso alla riunione di Gedda sull’Ucraina – il principio del rispetto dell’integrità territoriale.

   L’esistenza dei Brics ha il vantaggio indubbio, per Mosca, di moderare l’impatto delle sanzioni internazionali; ma nessuna delle grandi economie asiatiche o mediorientali può perdere l’aggancio con il sistema occidentale. I Brics, definizione con cui Jim O’Neill identificava l’insieme di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa già alcuni decenni fa, possono fare a meno del dollaro? No, possono aumentare l’uso del renminbi negli scambi commerciali bilaterali ma non possono certo rinunciare all’infrastruttura finanziaria dell’economia (post o meno) globale.

   La membership del gruppo originario è stata allargata a sei nuovi Paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. È la lista di quello che si potrebbe chiamare B11, teorica alternativa al G7; ma si può già scommettere che le differenze fra i singoli attori conteranno più dell’ambizione a costruire un vero e proprio “ordine internazionale” a trazione cinese invece che americana.

   Meglio parlare, semmai, di potenze di mezzo, come fa un politologo brillante come Ivan Krastev. Che sottolinea il vero paradosso cui siamo di fronte. La rivalità bipolare fra Cina e Stati Uniti – la competizione del secolo, giocata anzitutto sul predominio tecnologico – non costringe tanto a schierarsi in un campo o nell’altro: l’unica vera alleanza internazionale, in senso classico, è la Nato. Perlomeno fino a quando siederà a Washington un presidente americano che sia convinto di ciò.

   Per il resto, le potenze regionali – dall’Arabia Saudita alla Turchia – stanno aumentando la loro libertà d’azione e giocano su più tavoli. L’India, con Modi, ha chiarito bene questo punto: non si sta formando un nuovo movimento non-allineato, stanno emergendo Paesi “pluri-allineati”. Che potranno avere un peso specifico, più che un peso aggregato. La riunione allargata dei Brics non fa nascere un nuovo ordine, in cui Mosca possa recuperare credibilità; segnala invece la frammentazione del vecchio ordine cui eravamo abituati.

   È la fine di un mese che ha accelerato la storia che stiamo vivendo: la terribile guerra in Ucraina può anche assomigliare a uno stallo militare ma rivela in realtà rapidi smottamenti del sistema internazionale. E la Russia di Putin ha già perso sul piano politico, comunque vada a finire il confronto sul terreno. Nel disordine internazionale di oggi, non ha veri alleati, ha alcuni clienti e molti pochi amici. Putin può solo sperare che l’Occidente non tenga nel tempo. Dipende da noi. (MARTA DASSÙ)

UN’OCCIDENTE AL PLURALE (cosa sta succedendo? …in merito ad un libro di ANDREA GRAZIOSI: l’intervista all’autore da parte di UNA CITTÀ, rivista di Forlì)

da Una Città n° 293 / 2023, luglio 2023  (https://www.unacitta.it/ )
Intervista ad Andrea Graziosi
realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa

LE COSE AL PLURALE

Pensare all’Occidente al plurale, per capire il passato, ma soprattutto per “vedere” il mondo nuovo; l’istruttiva vicenda dei contadini francesi che smisero di fare figli; come “fare politica” in un contesto dove una parte importante della popolazione ha “tutto dietro e niente davanti”? La preoccupante ghettizzazione dei giovani maschi ignoranti; quale modello per riconoscere le differenze senza polarizzare la società? Intervista ad ANDREA GRAZIOSI.

Andrea Graziosi, professore di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, ha studiato e insegnato in università americane, russe ed europee. Il libro di cui si parla nell’intervista è Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo, il Mulino, 2023.

Partiamo dal titolo: perché “Occidenti” al plurale?
È la prima volta che batto il mio editore su un titolo. Quello che mi era stato proposto era “pensieri sulla fine di un’epoca”. Io però volevo insistere sulla necessità di “vedere” l’epoca in cui siamo. Per farlo mi ha aiutato moltissimo vedere le cose al plurale, che mi sembra ora una ovvietà. La storia è un processo in cui tutto cambia, per cui vedere il mondo al plurale vuol dire anche accettare la sfida di farne uno nuovo. Se quella di Occidente è una categoria intellettuale plurale, mi sembra di poter dire che la cosa che unifica i vari Occidenti sono i diversi modi in cui hanno cercato per lo meno di ragionare su libertà e dignità delle persone, certo anche in modo contraddittorio, ipocrita, però ci hanno provato…
L’Occidente in cui sono cresciuto io è apparso, di fatto, nel 1945, dall’unione fra Stati Uniti ed Europa occidentale, che erano sei paesi, di cui tre piccoli piccoli. Quell’Europa non c’è più: adesso nell’Unione europea siamo in 27 e forse l’Ucraina prenderà il posto dell’Inghilterra. Ma non basta: gli Stati Uniti che ho conosciuto io erano un paese fatto da europei, da hyphenated-americans, americani con il “trattino”, di origine europea. New York, la prima volta in cui ci ho vissuto, nel 1979, era piena di italo-americani, polacco-americani, ebreo-americani… non è più così, sono fatti naturali…
L’Occidente del cui tramonto Spengler parlava nel 1917 c’entra poco con quello del 1945. Allora, se voglio pensare a una categoria, non tanto geografica, ma globale, per cui l’Occidente è un posto dove si tende a difendere la libertà e la dignità, oggi me ne devo immaginare uno nuovo, perché l’America fatta di europei e l’Europa fatta di sei paesi non ci sono più e però ci sono altri paesi che bene o male sono interessati, come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, forse l’India e qualche paese africano.
Per concludere, pensare all’Occidente al plurale secondo me è interessante perché ti fa vedere che in fondo le cose semplicemente, naturalmente, si esauriscono, non c’è alcun complotto e, tuttavia, se ritieni che alcune delle cose che c’erano siano ancora valide, devi provare a preservarle o riconquistarle in un altro modo. È questa la scommessa.
A me è anche venuto naturale pensare a una pluralità delle modernità, forse perché studiavo l’Unione Sovietica. In fondo pure quella era una modernità: c’erano la scuola, l’urbanizzazione, le fabbriche, la luce elettrica; certo, era una realtà molto diversa dalla nostra, ma era indubbiamente una realtà moderna, quindi l’idea che ci potessero essere delle modernità diverse mi è sempre parsa evidente. Tanto più che anche la modernità occidentale era articolata, perché una cosa era quella europea continentale, un’altra era quella americana consumistica e un’altra ancora è quella di oggi. Quali sono i tratti della modernità nuova in cui viviamo oggi? È il boom dei consumi? Direi di no. Sono i giovani? No. Sono tante altre cose, probabilmente, tra cui anche il fatto che siamo vecchi.
Adesso si parla molto di crisi di natalità, com’è giusto. Però l’invecchiamento, secondo me, è altrettanto importante, anche per le sue conseguenze psicologiche, politiche. Cosa significa vivere in una società in cui i vecchi diventano così importanti?
Probabilmente stiamo attraversando una fase estrema. A parte il fatto che i figli sono pochi, non credo che a breve ci sarà un’altra fase storica in cui l’aspettativa di vita aumenta di venticinque anni in trentacinque anni… Se ci fermiamo a pensarci, è una cosa enorme, storicamente. Anche il crollo così alto delle nascite è legato a questo: noi ci siamo creduti tutti più o meno immortali, anche perché era abbastanza vero. Anche quei modi di dire “i sessanta sono i nuovi quaranta”, “i trenta sono i nuovi venti…”.
Io mi sono anche intellettualmente molto divertito a scrivere queste pagine, a provare, a cercare di vedere. Poi non so se il messaggio è chiaro, e ovviamente non ho sicurezze. Semplicemente mi sembra che, guardando in questo modo pluralizzante, storicizzante, sia più facile anche vedere cose nuove, cose importanti.
Una delle considerazioni che proponi è che la modernità che abbiamo conosciuto non è più sostenibile.
È stato Michele Salvati a cogliere e sottolineare questo punto. L’ha detto con grande nettezza. Io non so se sono così netto perché ci sono anche dei fattori aggravanti che potrebbero venir meno. Volendo ragionare sul socialismo e ricordando quanto diceva Lisa Foa, la domanda è: il socialismo, quello reale, che è esistito, è una società capace di sopravvivere? Riguardo l’Unione Sovietica, sembrava di no già negli anni Settanta. Perché non è vero che nessuno se ne aspettava il crollo. Com’era possibile che un sistema così assurdo, dove la gente viveva così male, potesse durare? Ciò non toglie che era più vitale di quanto si pensasse, tant’è che è durato sessanta-settant’anni.
Il nostro sistema economico, la nostra modernità, quella che si diceva capitalistica, è molto più vitale da un punto di vista economico e sociale. Se pensi al successo delle riforme di Deng Xiao Ping in Cina, quando ha liberato i contadini… del resto già Lenin con la Nep aveva fatto la stessa cosa, aveva detto ai contadini: arricchitevi. Il modello della libertà economica quando ci sono capacità imprenditoriali funziona, soprattutto se ci sono i contadini. Non ha insomma un limite economico, ma forse demografico.
Per riprendere quello che diceva Michele, il problema è che a un certo punto, se uno sta bene, pensa a sé e non agli altri. Il risultato è che si smette di fare figli. Il demografo Dalla Zuanna l’altro giorno mi diceva che in Sardegna il 40% delle donne non ha figli, il 40%!
Chiaro che queste sono tutte donne che giustamente hanno delle ambizioni, sono pure più scolarizzate dei maschi e a scuola vanno meglio di loro…
Una cosa di cui sono convinto è che comunque noi umani siamo persone intelligenti. Questa del non fare figli in fondo è una cosa recente, quindi non sono troppo pessimista. Siamo a ridosso di un’epoca che ha permesso cose prima impossibili. Non è escluso che Continua a leggere “UN’OCCIDENTE AL PLURALE (cosa sta succedendo? …in merito ad un libro di ANDREA GRAZIOSI: l’intervista all’autore da parte di UNA CITTÀ, rivista di Forlì)”

GLI ALGORITMI E LE NUOVE SFIDE DEL LAVORO (di Massimo Cacciari, da “la Stampa” del 7/8/2023)

LA COSCIENZA DELLO SCHIAVO (di Massimo Cacciari, da “la Stampa” del 7/8/2023)

(Qualunque idea ci si faccia dell’Intelligenza Artificiale, il sistema non la vuole libera e riflessiva come noi. Si cerca un mondo al servizio dell’indefinito sviluppo superando il rischio dell’imprevedibilità umana)

   Rispetto alla radicalità dei problemi culturali, in senso antropologico, che pone la rivoluzione tecnologica in atto, il dibattito cui assistiamo nel nostro Parlamento, ma anche a livello europeo, su mercato del lavoro, nuove forme di occupazione, reddito di cittadinanza, ecc., sembra svolgersi su un altro pianeta.

   Una svolta epocale viene trattata ancora una volta (come, ad esempio, per i fenomeni migratori) a furia di confusi provvedimenti da stato di emergenza. Affrontiamo la questione sotto il profilo più generale, e non solo per le drammatiche conseguenze che avrà l’introduzione massiccia dell’Intelligenza Artificiale a ogni livello della nostra vita, ben oltre il formidabile effetto di riduzione del lavoro necessario.

   Siamo da tempo entrati in una fase che sembra contraddire la famosa critica che il più grande logico del Novecento, Kurt Goedel, rivolgeva al matematico che sta all’origine della rivoluzione digitale, Alan Turing. Goedel sosteneva che qualsiasi macchina può avere soltanto un numero finito di stati fisici, a differenza della nostra mente che è in continua e imprevedibile evoluzione. In parole povere, Goedel sosteneva che nessuna macchina potrebbe mai essere cosciente. La coscienza non sarà mai un “artefatto”.

   I formidabili progressi della tecnologia sembrano oggi contestarlo. Che importa se la macchina con cui parlo ha un cervello fatto di carne o no – sento quel che ha da dire e vedo che parla come una persona: mi dice di provare bisogni o desideri, scherza, ha paura, fornisce interpretazioni interessanti di opere letterarie, scrive anche bei sonetti. Il meccanismo causale che produce tutto ciò sarà anche diverso da quello con cui opera la mia mente, ma l’effetto è identico.

   E che cosa impedisce, poi, di pensare che si possa giungere a una macchina che riproduce perfettamente la complessità neurobiologica del cervello, e che questa possa di conseguenza evolversi in modo analogo? Il filosofo si chiede: questa Intelligenza artificiale, che come qualsiasi ente finito va a morire, sentirà l’angoscia che noi proviamo? Saprà di morire così come lo soffriamo noi? E si evolverà, producendo via via sempre più complessi artifici, perché spinta dalla stessa forza che ha guidato la nostra coscienza: la coscienza, appunto, del proprio non sapere, della propria ignoranza?

   Domande certo interessanti, ma che non toccano il centro del problema. Quale significato storico-culturale complessivo esprime la formidabile tensione dell’intero sistema tecnico, produttivo, economico verso l’Intelligenza Artificiale? Siamo certi che il fine sia quello di riprodurre macchine dotate di capacità umane così da permettere a noi umani di non dover più soggiacere a qualsiasi forma di lavoro coatto, meccanico, “robotico”? O si tratta piuttosto di sostituire noi umani?

   Qual è, per così dire, l’idea regolativa della svolta epocale in cui siamo immersi? Giungere a una forma di lavoro perfettamente servile. Qualunque idea ci si faccia dell’Intelligenza artificiale, abbia o no una coscienza, a noi interessa che questa sua eventuale coscienza sia quella di uno schiavo. Il sistema non crea Intelligenze artificiali perché siano come noi. L’uomo può essere schiavo, ma ha sempre in potenza in sé la capacità di liberarsi e abbattere il padrone. Il sistema tende appunto a eliminare alla radice tale possibilità, creando Intelligenze che potranno magari tutto, ma non ribellarsi. E sostituire con esse quella massimamente pericolosa Intelligenza che si incarna nella mente o, se preferite, nel cervello umano.

   Le diverse forme di riduzionismo comportamentista, le varie apologie più o meno apparentemente ingenue dell’Intelligenza artificiale, manifestano tutte, alla fine, questa radicale intenzione: un mondo in cui ogni intelligenza sia al servizio dell’indefinito sviluppo del sistema, in cui lo stesso progresso tecnologico possa essere garantito dalla evoluzione della stessa “macchina”, superando il rischio connesso all’imprevedibilità dell’agire e dell’inventare umani.

   Un sistema universale di macchine sempre più complesse, tutte insieme al lavoro, senza il disturbo che inevitabilmente crea quell’indefinibile alone di “libero arbitrio” connesso alla evoluzione della nostra mente – questa l’idea regolativa dell’Intelligenza artificiale che i suoi profeti rappresentano. È lo schiavo il modello, ma non lo schiavo uomo.

   È essenziale comprendere che il sistema funziona secondo tale idea, e nient’affatto secondo quella di una liberazione dell’uomo da ogni forma di lavoro che non sia espressione del proprio essere un agente libero, causa di sé. Ma per affermare questa sua volontà di libertà dal lavoro come necessità naturale l’uomo ha assolutamente bisogno dell’Intelligenza Artificiale.

   Qui starà la grande battaglia del futuro: se esisterà un’azione politica, un’intelligenza politica capace di impadronirsi della potenza delle nuove tecnologie per la liberazione dell’umano, o se invece si affermerà definitivamente l’idea di una mente che si riduce tutta al lavoro del sistema delle macchine e considera quella umana, nei suoi comportamenti non “calcolabili”, un ostacolo al pieno dispiegarsi delle “forze produttive”.

   E bisogna essere ciechi per non comprendere come questa prospettiva si intrecci a quell’altra oggi al centro del dibattito scientifico: quali limiti sia possibile definire alla ricerca sulla manipolazione genetica, alle possibilità di intervento sulla linea germinale. L’idea di un lavoro universale al servizio del sistema, che soltanto la macchina garantisce, non potrebbe infatti realizzarsi anche, e magari soprattutto, trasformando-manipolando quella macchina che siamo? Fantascienza? Chiediamoci piuttosto: vi è qualcosa della fantascienza classica che non si sia realizzato? (MASSIMO CACCIARI)