AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NÉ SOGNO NÉ INCUBO (di Paolo Balduzzi e Chiara Mingolla, da “LA VOCE.INFO” del 20/6/2024)

– L’autonomia differenziata è legge: la maggioranza esulta e l’opposizione chiederà un referendum abrogativo. Ma si tratta solo dell’attuazione di un comma dell’articolo 116 della Costituzione, senza conseguenze dirette. Ora molto dipende dai Lep –

DOVE ERAVAMO RIMASTI

Nonostante il clamore e la rabbia espressi dall’opposizione, alla maggioranza sono bastati 172 voti favorevoli, vale a dire nemmeno il 50 per cento dei componenti della Camera dei deputati, per approvare in via definitiva il disegno di legge sulle “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

   Si conclude così un percorso ufficialmente iniziato nel novembre del 2022 ma che, di fatto, può essere fatto risalire addirittura all’ottobre del 2001, quando un referendum popolare confermò la riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, scritta, voluta e approvata dall’allora centrosinistra. Il provvedimento attua il terzo comma dell’articolo 116 che regola la possibilità, per le regioni a statuto ordinario, di chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (art. 1 comma 1) al governo nazionale. Limitandoci agli ultimi diciotto mesi, si è trattato di un percorso iniziato con qualche intoppo e che ha suscitato numerose polemiche. Ma, a seguito di alcune modifiche da parte dello stesso governo, è stato poi approvato piuttosto velocemente, ricevendo il primo “sì” da parte del Senato il 23 gennaio 2024.

   Ora la palla ripassa nelle mani del governo, che avrà due anni di tempo per approvare i “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) relativi a “materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale” (art. 1 comma 2), per esempio istruzione, sanità, trasporti e ambiente. Sempre il governo dovrà poi valutare le risorse finanziarie necessarie a garantirne l’applicazione nei vari territori regionali. Più spedito invece il percorso per le materie che non richiedono Lep. I rischi, secondo i più critici, sarebbero dunque principalmente quelli di portare a una frammentazione normativa e burocratica eccessiva, che comprometterebbe l’efficienza nella gestione di tali materie.

   Prima di valutare criticità e potenzialità dell’autonomia differenziata, tuttavia, vale la pena di analizzare sinteticamente il testo approvato.

I CONTENUTI PRINCIPALI

In sé, la legge approvata il 19 giugno non è nient’altro che una normativa procedurale. In undici articoli, è definito l’iter legislativo per il trasferimento di materie di competenza concorrente (tutte) o, addirittura, statale (solo tre) alle regioni a statuto ordinario che ne fanno richiesta. Nel testo (art. 2 comma 1), è specificato come l’atto di iniziativa spetti alla regione interessata, una volta “sentiti gli enti locali secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria”. Significa che sarà lo statuto della regione stessa a stabilire se basterà un procedimento elettorale (per esempio, un referendum) oppure una semplice iniziativa delle istituzioni regionali. Gran parte dell’iter sarà nelle mani del governo, mentre il Parlamento si limiterà a esprimersi con “atti di indirizzo” (art. 2 comma 4) non vincolanti sui singoli “schemi di intesa preliminare” prima e poi ad approvare o meno il disegno di legge contenente l’intesa definitiva per ogni regione (art. 2 comma 8). Ciò significa che le Camere potranno eventualmente respingere in toto le intese, ma non potranno modificarne punti specifici.

   Le materie su cui può essere richiesta maggiore autonomia sono 23, ma solo 14 richiedono la definizione dei livelli essenziali di prestazione (Lep) (ndr: 1.Tutela e sicurezza del lavoro; 2. Istruzione; 3.Ricerca scientifica e tecnologica; 4.Tutela della salute; 5. Alimentazione; 6. Ordinamento sportivo; 7.Governo del territorio; 8. Porti e aeroporti civili; 9.Grandi reti di trasporto e navigazione; 10.Ordinamento della comunicazione; 11.Energia; 12.Tutela dell’ambiente; 13.Valorizzazione dei beni culturali; 14.Promozione attività culturali), ossia di criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito uniformemente su tutto il territorio nazionale. La concessione di maggiore autonomia su tali materie è quindi subordinata alla determinazione dei Lep, che dovranno essere monitorati e poi eventualmente aggiornati (art. 3 commi 4 e 7). Contestualmente, dovranno essere stabilite anche le risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento, sulla base dei costi e dei fabbisogni standard, determinati e aggiornati con cadenza triennale (art. 3 comma 8). Il trasferimento delle funzioni che richiedono Lep avverrà solo dopo la loro determinazione e nei limiti delle risorse previste dalla legge di bilancio (art. 4 comma 1). In mancanza di tali condizioni, non vi sarà alcun trasferimento.

   Per le altre materie, nove, invece (ndr: 1-rapporti internazionali e con l’Unione europea; 2-commercio con l’estero; 3-professioni; 4-protezione civile; 5-previdenza complementare e integrativa; 6-coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; 7-casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; 8-enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; 9-organizzazione della giustizia di pace), il trasferimento potrà essere più immediato (art. 4 comma 2).

   Le funzioni trasferite saranno finanziate “attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale” (art. 5 comma 2), sul modello delle regioni a statuto speciale. Le aliquote delle compartecipazioni potranno essere aggiornate in caso di “scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi” (art. 8 comma 2). Le intese potranno durare fino a 10 anni e poi essere rinnovate per lo stesso periodo di tempo (art. 7 comma 1), oppure potranno cessare, con un preavviso di almeno 12 mesi (art. 7 comma 2). Viene comunque garantita la possibilità che lo stato, “qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza, direttamente imputabile alla regione (…) dell’obbligo di garantire i Lep”, può disporre la “cessazione integrale o parziale dell’intesa” con una legge approvata “a maggioranza assoluta delle Camere” (art. 7 comma 1).

   L’art. 9 contiene principi per garantire gli equilibri di bilancio e si occupa anche delle risorse a disposizione delle regioni che non abbiano fatto richiesta di autonomia differenziata. Per queste ultime, viene “garantita l’invarianza finanziaria”; inoltre, si stabilisce che le intese non possano “pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre regioni, anche in relazione ad eventuali maggiori risorse destinate all’attuazione dei Lep”. È inoltre “comunque garantita la perequazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.

   L’art. 10 prevede misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della “coesione e della solidarietà sociale”. È infine prevista un’ulteriore clausola di salvaguardia che permette al governo di sostituirsi agli organi regionali in caso di inadempienza o situazioni che minacciano la sicurezza pubblica o l’unità giuridica ed economica (art. 11 comma 3). Curiosamente, la legge viene estesa anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome (art. 11 comma 2).

UNA LEGGE CHE SPACCA IL PAESE?

Politicamente, il giudizio sulla legge approvata il 19 giugno dal Parlamento soffre di abbondante propaganda, a partire dalla principale critica mossa dall’opposizione, che definisce la manovra come una “spaccatura definitiva” per il paese. L’affermazione non riflette la realtà del provvedimento dal punto di vista economico.  Difatti, l’articolo 9 garantisce l’invarianza finanziaria per le regioni che non richiedono l’autonomia differenziata e assicura che le intese non pregiudichino le risorse destinate alle altre regioni, anche con riferimento alle risorse aggiuntive per l’attuazione dei Lep.

   A livello tecnico, non si tratta certo di una rivoluzione né di una misura eversiva. Da un lato, infatti, non c’è alcun obbligo automatico di dare seguito a tutte le richieste ricevute da parte delle regioni: di qui a cinquant’anni, per esempio, potrebbe non essere cambiato ancora nulla; dall’altro lato, si tratta semplicemente di applicare un comma della Costituzione vigente. Le potenzialità del provvedimento sono note, ma ancora molto teoriche. L’autonomia dovrebbe migliorare la responsabilità dei politici locali e portare a servizi migliori. Tuttavia, oltre settant’anni di regioni a statuto speciale hanno mostrato che maggiori poteri possono portare a risultati molto diversi.

   Più interessante analizzare gli elementi critici, non perché siano per forza prevalenti, ma perché sono quelli che rischiano di compromettere il buon funzionamento dell’autonomia differenziata. Innanzitutto, manca un test o un criterio tecnico per verificare che una regione sia effettivamente pronta ad avere maggiore autonomia. Il comma 1 dell’art. 2 prevede che si tenga “conto del quadro finanziario della regione,”, ma la formula è eccessivamente vaga e per nulla vincolante. Il test servirebbe soprattutto a evitare inutili iniziative destinate a fallire prima ancora di cominciare.

   In secondo luogo, il ruolo del Parlamento appare troppo marginale. Ed è perlomeno curioso, visto che si tratta di stabilire quali delle sue specifiche competenze possano essere cedute ad altri.

   Infine, ancora non si capisce se il complesso delle risorse necessario a far funzionare l’autonomia differenziata sarà sufficiente oppure no. Sarà importante, nel prossimo futuro, vigilare sulla stima dei trasferimenti di risorse conseguenti alla determinazione dei Lep e sulla devoluzione delle funzioni non Lep, da cui potrebbero derivare differenziazioni regolamentatorie poco proficue, sia per le regioni che per il paese.

   Per quanto riguarda invece il pericolo di creare un paese “arlecchino”, vale la pena di notare che la legge fa riferimento continuo a competenze o ambiti di competenze. Chiunque abbia letto le intese preliminari del 2018 sa benissimo che la tendenza del governo, anche per resistenza degli stessi ministeri e della burocrazia centrale, è quella di cedere competenze (legislative o solo amministrative) su aspetti specifici e molto limitati. È questo probabilmente lo spirito corretto del provvedimento, che dovrebbe mirare a valorizzare le potenzialità locali e non invece a determinare, per esempio, venti sistemi sanitari o scolastici differenti: sarebbe una sciocchezza, ovviamente.

(Paolo Balduzzi e Chiara Mingolla, da https://lavoce.info/, 20/6/2024)

Riflettendo sul nostro contesto presente, vien da chiedersi se sappiamo davvero dove stiamo andando (di MARIO FADDA)

      Riflettendo su quanto propongono le informazioni e i commenti di David Carretta, recentemente pubblicati su “Il Foglio” circa l’attuale fase di evoluzione (crescita?) dell’Unione di cui facciamo parte fin dalla sua costituzione (v. https://nuovoconfronto.wordpress.com/2024/05/11/2004, ndr), vien da chiedersi se sappiamo davvero dove stiamo andando.

   Perché subito il dubbio diventa certezza: no, abbiamo perso la rotta e anche la bussola.

   Quando a me, ventenne, venne proposta l’idea di pensare che vivere in Europa significasse riconoscersi parte di una “comunità”, mi sentii obbligato a uscire dal sopore postbellico, in cui ancora eravamo immersi vivendo di “miracoli” economici e profonde evoluzioni sociali.

   Era la fine degli anni ’50 e il nostro Paese non aveva ancora superato la dilaniante separazione tra chi era vissuto di speranze imperiali e chi aveva cercato di liberarsi dell’illusione che basti un’idea, che diventa ideale, per essere più liberi, confondendo libertà nell’agire d’impeto, con l’autonomia di chi pensa, quindi “di conseguenza” sceglie e opera, cercando la massima integrazione possibile con altri, che riescono a realizzare i propri obiettivi.

   Anzi: nell’Italia dilaniata dall’adesione a una “idea superiore” di libertà, in cui apparentemente trovava soddisfazione solo la metà che aveva “resistito” al potere fondato sugli ideali, evoluti in dittatura, si pose subito il cuneo che separò ulteriormente chi credette in una libertà guidata da una fiaccola (così veniva accolto il migrante in fuga da un’Europa distrutta, entrando nel Paese delle meraviglie) a un’altra metà, guidata da una Stella Rossa.

   Insomma, torno al ventenne che, sentendosi proporre una Comunità di eguali, confida in essa, pur vedendosela proporre solo come “mercato comune”.

   La storia che ne è conseguita è solo un ricordo per i più, e le scelte che ne derivano nel nostro tempo vanno proposte a chi rimane legato a visioni arcaiche della politica, in cui prevale ancora, in molti, il primato dell’ideale, come riferimento fondante ogni scelta e giustificante ogni decisione.

   E’ certamente preoccupante il permanere di posizioni individuali, sostenute con la venerazione del “condottiero”, celebrate con manifestazioni ordinate, con braccio alzato in segno di saluto, dichiarazione di presenza e adesione.

   E’ una cosa che, personalmente, mi rattrista, ma che pongo sul piano di chi, nei boschi nordamericani, si esercita all’uso delle armi, come pratica di difesa di libertà personale e comune, o chi sulle montagne bavaresi o nei boschi del Danubio, si esercita in identiche abilità.

   E’ insomma la coda di una fase evolutiva che pure ha indotto l’homo sapiens a confidare un po’ di più nel confronto reciproco, ma che purtroppo non ha ancora scalzato l’idea che il riferimento principale vada posto in un ideale, riconosciuto da tanti come riferimento importante, giustificante ogni scelta individuale anche quella più personalistica, che però evolve inevitabilmente nell’egoismo!

   Tale da diventare un proporsi all’altro con uno “stai con me o sei contro di me”: ecco la vita dei partiti politici!

   Insomma, occorre indurre nelle vicende sociali un passo avanti radicale, una visione culturale e politica fondata sulla capacità personale di dotarsi di strumenti adeguati per procedere nel continuo processo evolutivo di cui siamo, contemporaneamente, soggetto e oggetto.

   La prima fase di auto-indagine che, personalmente, ho dovuto affrontare è quella di cercare di esplicitare se avessi individuato il fine cui dedicare la mia esistenza e debbo dire, con grande gioia, che a questa domanda ho visto corrispondere molte persone, che stavano vivendo varie forme di riconsiderazione dei percorsi di provenienza, di fede, di partito, di scelte personali individualistiche, di cui stavano costatando l’insufficienza, se non addirittura l’inutilità.

   Una volta espresso il mio fine, al più alto livello adottabile di libertà personale, ho dovuto affrontare il confronto con chi mi sembrava percorrere gli stessi itinerari, constatando l’esistenza di alcuni elementi di immediata necessità di riduzione dei miei fini, così come vedevo nelle persone più sincere con cui mi capitava di incontrarmi, capendo che alcune condizioni storiche non erano facilmente o immediatamente affrontabili.

   Di qui il passaggio da “fini” a “obiettivi”, dando a questa seconda parola il peso di tutto quanto diventava “prevedibilmente” realizzabile in tempi programmabili e partecipati da molti.

   A questo punto io pongo la necessità di pensare la propria presenza nel tempo attraverso un “progetto” personale.

   Dotarsi di un progetto stabilito in base agli obiettivi considerati perseguibili nel tempo di cui dispongo (non certo il ciclo elettorale!) diventa il passaggio mediante il quale avviare un confronto continuo e il più ampio possibile, per stabilire relazioni di corrispondenza con altri, fino alla configurazione di scelte comuni.

   Da qui in poi, il percorso può articolarsi riprendendo in mano strumenti del passato, quali la partecipazione a forme di governo della politica, come i partiti, sapendo però che nessuno dei partiti esistenti è libero della deviazione originaria: nascita da un’idea superiore che richiede solo accettazione, adesione e sostegno elettorale.

   Insomma, qui si pongono in evidenza tutti i limiti del sapiens, che fonda le proprie idee su analisi e valutazioni che sanno vedere la differenza tra bene e male, ma nella scelta, opera poi con strumenti di affermazione, anche violenta, su chi la pensa diversamente.

   Sono tre secoli che l’umanità ha scoperto l’importanza di saper ragionare, ma poi è ricaduta, con tragedie di cui viviamo ancora l’attualità, nell’equivoco di volere avere ragione.

   Lotta tra portatori di idee, diventate ideologie e quindi degli strumenti da ciò derivati, i partiti politici.

   Ovviamente il gioco ha riaperto la strada anche a chi dell’ideologia non aveva mai saputo fare a meno e che ritroviamo oggi, più nervoso che mai per la lunga attesa, nell’orto dei “meloni”.

   Mentre gli scontenti accettano questa apparenza di protezione, occorre dare vita a un progetto capace di esporre quanto noi abbiamo scelto come fine del nostro vivere, con gli strumenti utili per conseguirli e, quindi, essere in grado di confrontarli con chi ha intrapreso un percorso analogo.

   Solo da qui e con questa capacità di presenza e chiarezza di proposta si potrà pensare di ricollocarsi in un agone dove confrontarsi con chi continua a praticare, privilegiandolo, il percorso troppo rapido di “essere partito”, confuso poi con chi solo “vota per un partito”.

   E’ un cambiamento d’epoca, in cui il sapiens deve lasciare spazio al suo successore, capace di amare (che è l’opposto di subire) e proporre e realizzare con altri un progetto di cambiamento radicale delle relazioni che possono trasformare la società in comunità.

   Questo è il futuro che comincia oggi.

(MARIO FADDA)