LA GUERRA IN UCRAINA (IN EUROPA): un contributo di riflessione sull’odierna e complessa situazione politica, sociale ed economica a livello planetario (di GIORGIO SARTORI)

(Giorgio Sartori, 3/2/2023)

   Ho ritenuto di proporvi gli articoli che qui seguono come semplice contributo alla discussione con la convinzione che, oltre alle molte analisi televisive/giornalistiche, sia necessario ed urgente proporre delle azioni concrete per arrivare almeno a delle forme di “sospensione delle ostilità” e aprire dei tavoli di vera trattativa.

   Trovo assai interessante la proposta operativa avanzata dall’ultimo numero (n° 6, novembre-dicembre del 2022) de ”L’unità europea” del Movimento Federalista europeo” (UE_2022_6.pdf (mfe.it). Riporto alcuni passaggi del testo di pag.24 “Noi crediamo che sia venuto il tempo per dire basta, adesso, al massacro. Basta a questo assassinio di massa, a questa disumana distruzione di un popolo …” Come per Berlino nel 1948-’49, bisogna “organizzare un ponte di salvezza tale da far capire alla Russia che l’Ucraina non soccomberà in questo inverno né mai. Dobbiamo portare tutto quello che occorre: migliaia di generatori elettrici, tonnellate di scorte alimentari, di vestiti e di medicine in quella terra martoriata d’Europa”.  “Per questo il Movimento Federalista europeo, nato più di settant’anni fa tra le macerie della guerra e dalla speranza di un mondo libero ed unito (…) chiede all’Unione Europea, alle sue più alte istituzioni, e agli stati Uniti d’America di dar vita ad un imponente ponte di salvezza per l’Ucraina e per il mondo libero…”

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Breve introduzione agli articoli

1-  L’articolo di Zamagni affronta i problemi in una prospettiva politica di respiro mondiale coinvolgendo tutti gli Stati del Mondo, in particolare le due Forze maggiori tra loro in competizione: USA e CINA.  C’è un’indicazione “forte” di messa in discussione e aggiornamento dei trattati di Yalta e del dopoguerra. “Ci vuole una nuova Yalta perché l’ordine mondiale è cambiato ed è chiaro che il patto del ’45 tra Churchill, Roosevelt e Stalin che allora garantì la pace è crollato”. Gli scenari oggi sono mutati e Zamagni afferma che bisogna incoraggiare gli sforzi per una soluzione dei problemi per vie diplomatiche e non con la forza delle armi. Purtroppo ancor oggi l’ONU per i veti interni tra le principali Potenze non riesce a proporre ed imporre soluzioni di pace (o almeno di tregua) nei vari Paesi in guerra.

2-  L’articolo della Prof.ssa Di Cesare punta a farci riflettere sull’assuefazione alla guerra/guerre che sta coinvolgendo i nostri comportamenti, la nostra mentalità. “Adesso l’eccezione della guerra, quella che i bellicisti giuravano sarebbe durata qualche settimana, è diventata la norma, mentre noi abbiamo finito per assuefarci. Come se fosse un’ovvietà familiarizzarsi con la guerra, accettare che rientri nel nostro orizzonte”. E’ ormai una consuetudine per noi osservare negli schermi ogni giorno (a volte anche spettacolarizzate) scene di morti, distruzione di infrastrutture fondamentali per uno Stato (energia elettrica, condotte d’acqua, ospedali, abitazioni, strade ponti linee ferroviarie, emigrazione forzata di milioni di persone, etc).

3- L’articolo di Montanari – relativo al messaggio di Pace di un grande personaggio come La Pira – ci dà una “sferzata positiva” su come i movimenti per la pace debbano conciliare un’analisi seria e puntuale del momento storico con adeguate azioni politiche orientate alla pace, ma necessariamente supportate  dall’indispensabile  coinvolgimento delle persone. Scriveva La Pira: “L’età   atomica, nella quale la storia è entrata il 6 agosto 1945 con lo scoppio della prima atomica di Hiroshima (appena 0.015 megatoni!) e nella quale è incredibilmente avanzata in questi tre decenni (siamo già ad un milione di megatoni disponibili; nella sola Europa vi sono oltre 10 mila testate nucleari, una vera polveriera capace di far esplodere in pochi minuti  l’intero continente) fa sempre più emergere, mettendola in grandissimo  rilievo, la profezia di Isaia: al negoziato, al disarmo ed alla pace non c’è alternativa!”

4- Nel quarto articolo Montanari riporta un’importante analisi di Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, a proposito del dibattito sull’escalation della guerra in Ucraina e sull’utilità o meno dell’invio continuo di armi (carri armati, etc).

   La domanda cruciale è: ammettiamo di mandarli, e dopo che faremo? Risponde Lucio Caracciolo: “Ciò dovrebbe aprirci gli occhi sulla deriva del conflitto. Continuando lungo questo piano inclinato, prima o poi l’invio periodico e limitato di armi ai combattenti ucraini non basterà più. Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”. E la via suggerita da Caracciolo è l’unica possibile: quella della diplomazia, del dialogo, del tentativo di accordo.

(GIORGIO SARTORI)

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1- STEFANO ZAMAGNI: “PER I NEGOZIATI RIFONDARE L’ONU. ZELENSKY A SANREMO? SCIVOLONE”

DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA all’Università di Bologna  

“Bisogna creare istituzioni nuove o riscrivere gli statuti: quelli post-1944 sono obsoleti, l’ordine mondiale è cambiato”

di ALESSIA GROSSI, 28/1/2023,  da Il Fatto quotidiano

Per arrivare a una pace duratura bisognerebbe creare delle istituzioni di pace. Quelle uscite nel ’44 dagli accordi di Bretton Woods post-Seconda guerra mondiale sono obsolete. Andrebbero riscritti gli statuti, perché non facilitano negoziati”. Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, non dice Onu ma ricorda l’ultimo voto pro-Russia nella sede delle Nazioni Unite. “È l’istituzione in sé che non funziona”. Per il professore, che ha firmato l’appello per la pace e indicato in sette punti le condizioni per il negoziato, “ci vuole una nuova Yalta perché l’ordine mondiale è cambiato ed è chiaro che il patto del ’45 tra Churchill, Roosevelt e Stalin che allora garantì la pace è crollato”.

Professore, a un anno dall’invasione siamo ancora qui. Come vede la situazione?

La situazione è peggiorata: se si guarda indietro, esattamente a un anno fa, si pensava che con l’arrivo dell’estate le cose si sarebbero aggiustate. Si comprende ora ciò che per me era chiaro allora: questa guerra è atipica, ibrida e soprattutto combattuta per conto di altri per la prima volta nella modernità. I due contendenti sono Usa e Cina e l’oggetto del contendere è il nuovo assetto geopolitico. Se Xi Jinping e Joe Biden dicessero a Putin e Zelensky rispettivamente di fermarsi si arriverebbe alla pace.

Anche il presidente russo ha detto: “Biden ha in mano la chiave per la pace ma non la usa”.

E la ragione è tutta economica. Ci si spartisce l’accesso ai mercati. Poi si è trovata una ragione: sono anni che ci sono screzi tra Russia e Ucraina, ma non sarebbero stati sufficienti a innescare un conflitto di queste proporzioni. Usa e Cina hanno fomentato non la terza guerra mondiale, ma la prima guerra globale. Perché le guerre mondiali coinvolgono solo Paesi belligeranti, qui sono coinvolti anche altri Paesi: pensi solo allo stop dell’export del grano, se non si fosse sbloccato gli africani sarebbero morti di fame. E poi questa è una guerra di logoramento perché è interesse della Cina e degli Usa la ricostruzione.

È questa la ragione per la quale si continua ad alimentare il conflitto inviando armi a Kiev?

È chiaro. Le guerre di logoramento funzionano così. In passato vinceva o l’uno o l’altro. Qui un giorno sembra che vinca uno, il giorno dopo prevale l’altro. È in questo contesto che occorre insistere su un negoziato tra le due superpotenze senza ulteriori spargimenti di sangue.

E la minaccia nucleare? Siamo a 90 secondi dalla catastrofe.

La minaccia nucleare non è reale. La Cina ha imposto alla Russia di non usare armi atomiche e Mosca non lo fa per due ragioni: se usa la bomba tattica ci rimettono anche i russi. Se invece utilizzasse quella strategica a lungo raggio, la reazione della Nato e della Cina sarebbe immediata. La minaccia serve a Putin per spaventarci.

Cosa pensa della mobilitazione internazionale per la pace in programma per l’anniversario, il 24 febbraio?

Se vuoi la pace, prepara la civilizzazione e le istituzioni di pace. Tutti i più grandi economisti mondiali lo dicono: questa è una guerra data dalla iperglobalizzazione. Le soluzioni sono due: o la de-globalizzazione, ma non sono d’accordo perché porterebbe alla morte per fame di almeno 1 miliardo e mezzo di persone, o si riscrivono le regole economiche degli ultimi 35 anni, quelle che hanno portato all’aumento spaventoso delle diseguaglianze, che poi è il fattore scatenante delle guerre. I poveri non fanno la guerra perché per imbracciare un fucile ci vogliono 3 mila calorie.

Cosa pensa di Zelensky al Festival di Sanremo?

Cosa? Si esibisce?

No, partecipa con un videomessaggio.

Sì, ormai pare sia ufficiale. Secondo me non è opportuno: ma non credo alle tesi complottiste. Penso sia solo una caduta di stile della Rai che non ha pensato alle conseguenze indirette di questo gesto che non favorisce certo né i negoziati, né la pace.

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2- ABBIAMO NORMALIZZATO PURE LA GUERRA E LE ARMI

di DONATELLA DI CESARE

Docente di  Filosofia Teoretica Università La Sapienza di Roma

21/1/2023, da Il Fatto quotidiano

   Ha vinto la guerra? Si direbbe così a sentire il ministro Crosetto, che dalla base Nato di Ramstein ha promesso a Stoltenberg che l’Italia invierà più armi. Si parla di carri armati e di scudi missilistici, armi spacciate per difensive per renderle accettabili. Ma nessuno può distinguere tra difesa e attacco quando si tratta di armi. Siamo sempre più coinvolti in una guerra, che finanziamo anche a costo di rendere impossibile la vita dei più poveri, una guerra mai avallata, che procede nostro malgrado e che ormai preferiamo quasi dimenticare. Come se fosse letteralmente uscita dalle nostre menti, prese nel vortice di mille problemi e mille sciagure. Crescono perciò l’ansia, il disorientamento e un malinconico senso di impotenza. Eppure, tra le tante ombre minacciose, si stagliano le nubi di questo terribile conflitto che, dopo quasi un anno, appare irreversibile. Le immagini dei bombardamenti a Dnipro, dei combattimenti a Kherson, passano sui nostri schermi quotidianamente. Sembrano parti dello scenario in cui ci è toccato vivere. Siamo ormai arrivati a questo: la guerra si è normalizzata.

   Non avremmo mai voluto dirlo, né tantomeno scriverlo. E ancora fino a qualche mese fa, resistevano lo stupore per un conflitto sul suolo europeo, l’indignazione per l’invio di armi, la protesta per l’assenza di negoziati di pace. Adesso l’eccezione della guerra, quella che i bellicisti giuravano sarebbe durata qualche settimana, è diventata la norma, mentre noi abbiamo finito per assuefarci. Come se fosse un’ovvietà familiarizzarsi con la guerra, accettare che rientri nel nostro orizzonte. Dimentichiamo volentieri i rischi a cui ci esponiamo (come quelli nucleari alla centrale di Zaporizhzhia), tralasciamo ipocritamente i danni che spedendo armi infliggiamo ad altri, sbandierati invece per benefici.

   Certo, la propaganda è stata martellante, aggressiva, sfrontata. E continua a esserlo. Gli stessi cliché, le stesse assurde forzature, le stesse mielose menzogne. Ancora adesso c’è chi ripete il ritornello di Vlad il mattacchione che ha combinato questo disastro. Noi che siamo dalla parte del Bene prima o poi ne verremo fuori. Mandiamo più armi per “preparare la pace”. In realtà il fondamentalismo atlantista è diventato una vera e propria religione, con i suoi credo, i suoi dogmi e l’inevitabile crociata.

   Non sono ancora chiari gli effetti di quest’inedita dottrina, che sembra far saltare l’opposizione destra-sinistra (in diversi Paesi europei). Quello che conta è lo scontro democrazie-oligarchie. Grazie a questo schema l’estrema destra di Meloni ha potuto insediarsi al governo senza troppi ostacoli. La meraviglia, che persiste all’estero, sottovaluta questo tema. È bastata la nuova professione di fede atlantista per sdoganare i vecchi fascisti. Non parliamo poi di quello che è avvenuto nel centrosinistra, lì dove c’era da aspettarsi dall’inizio una fermezza contro questa guerra. Nel Pd, che ha pagato caro il cieco militarismo della prima ora, destano sconcerto parole come quelle di Elly Schlein, piene di ambiguità, eppure almeno in questo chiare: sì all’invio di armi. In una fase costituente, o ricostituente, come quella attraversata dal Pd, la guerra avrebbe dovuto essere la prima questione all’ordine del giorno, vagliata, analizzata, discussa nei suoi diversi aspetti. Invece tutto viene liquidato in uno slogan imbarazzante. Da Meloni a Schlein il fondamentalismo atlantista si è affermato facendo proseliti e insinuandosi un po’ ovunque, come se fosse ovvio accettare un conflitto europeo, come se fosse normale una terza guerra mondiale.

   Che dire poi di quel che si preannuncia a breve: Zelensky a Sanremo? Un capo di Stato in guerra che interviene a un festival di canzoni per chiedere che si mandino carri armati, scudi missilistici, ecc. Usare la musica popolare a sostegno della propaganda bellicista è un’abiezione. C’è da augurarsi che quell’opposizione che ancora esiste – dal M5S a SI – chieda conto di una tale scelta. Quest’iniziativa dà tuttavia la misura di quel che succede. In realtà, qui il popolo è e resta contro questa guerra. Il problema, lo sappiamo, è la rappresentanza, la possibilità di esprimere e coagulare quel dissenso che esiste.

   Non fa dimenticare la guerra Papa Francesco, che la menziona ogni volta, la domenica, il mercoledì, quando può. Le sue parole sono un baluardo contro l’oblio e la normalizzazione. Ma anche il mondo cattolico, che pure sin dall’inizio ha reagito, non riesce davvero a far sentire la propria voce e il proprio peso, quasi a sua volta travolto e frammentato da eventi così tragici e dirompenti. Più passa il tempo e più la pace perde. Si restringono le possibilità di negoziati, si approfondisce il solco, aumentano l’odio e la sete di vendetta, propende a tacere chi pensa che non è con le armi che si risolvono i conflitti tra i popoli. Ma non diciamo ancora che ha vinto la guerra.

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3- RITROVARE NEL SANTO LA PIRA L’OPPOSIZIONE ALLA GUERRA

di TOMASO MONTANARI, Storico dell’Arte e Rettore Università per gli Stranieri  Siena

23/1/2023, da il Fatto quotidiano

SCRITTI INTERNAZIONALI DIMENTICATI – “Diciamolo francamente, con fermezza e senza esitazione, questo diluvio di bombe, di fuoco, di morte e di distruzione non deve protrarsi oltre”

   Vista la mirabile vocazione all’inattualità (e dunque alla più stringente, drammatica attualità) del suo autore, il quinto volume dell’edizione nazionale delle opere di Giorgio La Pira, dedicato a La costruzione della pace (a cura di Bruna Bagnato, Firenze University Press), non poteva che uscire in questo terribile tempo di costruzione della guerra, e della morte. Vi sono riunite le opere pubblicate dal costituente, sindaco di Firenze, deputato, e santo, tra il 1955 e il 1975: vent’anni di “scritti di politica internazionale” (come recita il sottotitolo) che sono anche, contemporaneamente, ispiratissimi testi profetici. Una coabitazione, questa tra lucidità politica e profezia, che ricorda Caterina da Siena, o Girolamo Savonarola (non a caso due membri dell’ordine domenicano, del quale La Pira era terziario).

   A rileggere oggi le parole incandescenti di La Pira si prova contemporaneamente una stretta al cuore (per quanto siamo regrediti), e un senso di liberazione (per la capacità di restituire, malgrado tutto, fiducia nel futuro). Egli vedeva distintamente che l’umanità si trovava ormai su quello che chiamava un “crinale apocalittico”, ma proprio per questo pensava che fosse ineludibile il cammino su quel “sentiero di Isaia” alla fine del quale i popoli “faranno delle loro spade aratri e delle loro lance falci; un popolo non brandirà più la spada contro un altro popolo; e non impareranno più l’arte della guerra”.

   L’impossibilità di vincere la guerra, argomentava La Pira, doveva cancellare la guerra stessa: “L’età atomica, nella quale la storia è entrata il 6 agosto 1945 con lo scoppio della prima atomica di Hiroshima (appena 0.015 megatoni!) e nella quale è incredibilmente avanzata in questi tre decenni (siamo già ad un milione di megatoni disponibili; nella sola Europa vi sono oltre 10 mila testate nucleari, una vera polveriera capace di far esplodere in pochi minuti l’intero continente) fa sempre più emergere, mettendola in grandissimo rilievo, la profezia di Isaia: al negoziato, al disarmo ed alla pace non c’è alternativa!” (1972).

   Negli anni precedenti, La Pira si era speso senza risparmio contro la guerra del Vietnam, non esitando a condannare l’Occidente: “Diciamolo francamente, con fermezza e senza esitazione – aveva scritto nel 1966 –, questo diluvio di bombe, di fuoco, di distruzione e di morte che da circa due anni si rovescia paurosamente ogni giorno ed ogni notte, senza interruzioni, su un piccolo, mite, anche se fiero, popolo di contadini, non deve protrarsi più oltre! Ora basta! Esso degrada l’intero Occidente che lo compie, o pigramente lo sopporta: provoca l’orrore dei popoli di ogni continente. ‘Un grido in Rama si udì̀, pianto e grave lamento: è Rachele che piange i suoi figli (si potrebbe tradurre: le madri di Hanoi e le madri americane che piangono i loro figli), né vuole essere consolata, perché non sono più’”.

   Era la spaccatura del mondo in due blocchi ciò che La Pira non accettava: “Il destino storico degli Stati Uniti non è quello militare della guerra e della distruzione: è quello scientifico e tecnico della pace e della edificazione! È il destino – congeniale alla storia del popolo americano ed a questa nuova età della storia del mondo – delle ‘frontiere nuove’ indicato da Kennedy; quello della ‘grande società’ non solo americana, ma mondiale, indicato in felice prospettiva da Johnson stesso nel discorso di investitura del 20 gennaio 1965: è il destino della edificazione dei ponti con l’Est e con tutti i popoli ed in tutti i continenti”. Non si fatica, dunque, a immaginare che oggi La Pira si troverebbe perfettamente d’accordo con papa Francesco nella ferma condanna dell’aggressione di Putin, e al tempo stesso nella condanna della volontà di potenza occidentale: le due forze che impediscono di giungere a una pace in Ucraina, e rendono attuale lo spettro di una catastrofe nucleare.

   Non avrebbe avuto paura, La Pira, di farsi dare del putiniano, o del nemico dell’Occidente: come non ebbe paura, nel 1961, di finire indagato (per il doppio reato di violazione della censura e apologia del reato di obiezione di coscienza) per aver organizzato una proiezione pubblica di Non uccidere di Claude Autant-Lara.  Del resto, il discorso di La Pira era evangelicamente fondato sul “sì, sì, no, no”: tra i testi raccolti nel volume c’è anche la lettera che nel 1950 indirizzò al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi per dirgli: “So bene che la critica è più facile dell’azione: ma così non può andare: davanti al quadro mondiale che ci sta davanti, al cospetto delle “velocità atomiche” delle situazioni che il mondo presenta in tutti i settori (economico, finanziario, politico, culturale), non è possibile tirare avanti coi metodi che noi attualmente usiamo”.

È a un’Italia che continua ad alimentare una guerra mostruosa con un ininterrotto flusso di armi, che oggi la voce di questo profeta torna a ripetere: basta, con questo diluvio di fuoco e di morte!

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4- QUESTA GUERRA È FOLLIA: DOBBIAMO MANIFESTARE

di TOMASO MONTANARI, Storico dell’Arte e Rettore Università per gli Stranieri  Siena

28/1/2023, da il Fatto quotidiano

   La partecipazione del presidente Zelensky al Festival di Sanremo è un piccolo dettaglio grottesco in una tragedia che ci sta palesemente sfuggendo di mano. Ed è assai significativo che la stampa di sistema dedichi molto più spazio alla discussione di quel dettaglio di quanto non ne dedichi a un vero esame di tutto il quadro a cui esso appartiene: oscurando così l’aspetto che sembra più importante, e cioè la mostruosa miopia delle leadership occidentali (che si tratti di decisori, o di osservatori). Ogni segmento della guerra viene letto come se non avesse un prima e non dovesse necessariamente avere un dopo: cioè prescindendo totalmente dalle cause, e dagli effetti. In una inversione del pregiudizio corrente, a predicare lucidità sono pacifisti e militari, mentre a parlare per slogan, brandendo la bandiera della libertà, sono le cancellerie e i giornalisti mainstream.

   E così, nel dibattito sull’invio dei carri armati non è riuscita ad a entrare la domanda cruciale: ammettiamo di mandarli, e dopo che faremo? La risposta del fronte bellicista non è arrivata. Arriva, invece, una contro-domanda: “e se non li mandiamo, non vincerebbe forse Putin?”. È così fin dal 24 febbraio scorso, per ogni tornante di questo incubo che divora tutto il paese aggredito e una generazione intera di quello aggressore. E il risultato è che, via via che Putin comunque vince, dobbiamo innalzare il livello del coinvolgimento occidentale, evitando accuratamente di chiedersi quale sarà il passo successivo, e coprendo questa mancanza di analisi con l’enfasi machista della retorica della vittoria: un’enfasi che dimentica che contro una potenza nucleare non c’è vittoria, ma semmai mutua distruzione.

   Uno dei pochi che, con la consueta lucidità, invece questa domanda la pone, è Lucio Caracciolo, che ha così commentato la querelle sui carri armati: “Ciò dovrebbe aprirci gli occhi sulla deriva del conflitto. Continuando lungo questo piano inclinato, prima o poi l’invio periodico e limitato di armi ai combattenti ucraini non basterà più. Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”. Cioè fare la guerra alla Russia: oppure lasciarle prendere tutta l’Ucraina. Caracciolo conclude così: “Questo bivio ‘impossibile’ si sta avvicinando, a vantaggio di Mosca. La consapevolezza dei costi umani, morali e geopolitici di un eventuale collasso di Kiev potrebbe indurre noi occidentali – americani con contorno di satelliti europei – a tentare di congelare lo scontro per il tempo necessario a inventare una convivenza pacifica fra russi e ucraini.   Altrimenti ci resterà la scelta fra una catastrofe e una vergogna. Peggio: una miscela delle due”. Difficile dirlo meglio. E la via suggerita da Caracciolo è l’unica possibile: quella della diplomazia, del dialogo, del tentativo di accordo. Ricordo distintamente come nelle prime settimane della guerra noi “pacifisti” venissimo irrisi, quando si parlava di trattative, dicendo che non era quello il tempo: perché, prima di farla sedere a un tavolo, la Russia avrebbe dovuto subire delle serie perdite, ci si diceva. Ebbene, quel tempo non è venuto mai: e ora siamo costretti a innalzare costantemente il livello dello scontro, altrimenti la Russia continua a vincere.  Ecco il risultato del cosiddetto realismo dei nostri governanti, dei nostri esperti: un clamoroso disastro. Ed è questo l’aspetto che mette i brividi: l’inettitudine di chi ci governa. Continuando così, se nulla cambia, arriveremo alla guerra nucleare un passo “necessario” dietro l’altro. Miopi: anzi, ciechi. E se un cieco segue un altro cieco, entrambi cadranno nell’abisso.

   E allora gli stessi che oggi lo escludono categoricamente, si stringeranno nelle spalle: un minuto prima di volare via anche loro (magrissima consolazione) nel vento nucleare.

   La combinazione tra mercato delle armi, interessi economici, sete di potere e pura e semplice stupidità rischia di essere quella fatale, definitiva. Del resto, non è questa la cifra vera di un tempo che corre verso la catastrofe climatica: la totale assenza di una qualsiasi lungimiranza? Inchiodati a un segmento di presente sempre più breve e immediato, non sappiamo nemmeno capire che mandare ora i carri armati significa mandare domani gli aerei, e poi le testate nucleari: e che su questa linea bisogna fermarsi, non correre a rotta di collo.

   Siamo tutti stanchi e disillusi, ma è tempo di tornare a manifestare, a parlare, ad argomentare. Sappiamo su chi può contare il fronte della pace, in Italia: su Papa Francesco e un pezzo di mondo cattolico, sulla Cgil, su questo e qualche altro giornale, su pochi intellettuali liberi.

   George Orwell diceva che ci vuole uno sforzo costante per vedere cosa abbiamo sotto il naso: cerchiamo di fare questo sforzo, e mostriamolo a tutti. Il bivio tra trattativa e olocausto nucleare è sempre più vicino.

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