LA CULTURA DELLO SCARTO (di Nello Scavo) – (lo scandalo “Libyagate”, nel più che mai irrisolto tema della IMMIGRAZIONE, cui siamo abituati alla tragedia quotidiana)

(INTRODUZIONE al libro di NELLO SCAVO, inviato del quotidiano “Avvenire”: “LIBYAGATE – Inchieste, dossier, ombre e silenzi”, ed. “Avvenire – Vita e Pensiero”, euro 13,00):

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LA CULTURA DELLO SCARTO

   Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.

   A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani ‘carico residuale’? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un ‘carico residuale’ fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano.

   «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». E il ‘carico residuale’, in fondo, non è che un altro nome dato agli ‘scartati’. La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà vengono a galla da chissà quale abisso editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.

   «Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga», ripetono i governanti. Ma è esattamente ciò che viene denunciato da anni, con nomi, cognomi, rivelazioni di connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel Libyagate che continua a essere alimentato dalla ‘trattativa’ tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per tre volte dai nostri governi.

   Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle stesse autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu António Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di ‘carico residuale’, che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?

   Ci sono profughi e profughi. Dipende dalla geografia? O da certe variabili cromatiche? Più l’epidermide è scura e più le loro sorti ci sembrano lontane, al punto da pagare di tasca nostra chi si incarica di tenerceli fuori dai piedi? Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All’Ucraina l’Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l’esercito che combatte l’aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste.

   Mohamed era uno di loro. Veniva da una provincia del Darfur, regione di mattanze per le quali a marzo, nel pieno della crisi ucraina, si è aperto un processo davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Mohamed sognava l’Europa, ma si sarebbe accontentato anche di un trasferimento in un altro Paese africano individuato come sicuro dall’Onu. Invece è rimasto incastrato in Libia. Era nel campo di prigionia di Ain Zara, uno di quelli tenuti in piedi dalle autorità generosamente sostenute da Roma e Bruxelles. Torturato e abusato, come molti altri, Mohamed non se l’è più sentita di prestarsi ai giochi degli aguzzini di Stato stipendiati in euro. Ha preso una corda, ha fatto un giro intorno al collo. E si è lasciato andare. Aveva 19 anni.

   Anche la giustizia internazionale è gradita a giorni alterni. Quando, nell’aprile 2022, Karim Khan, il nuovo procuratore capo dell’Aja, ha mandato gli investigatori in Ucraina, gli uffici stampa di leader politici e capi di governo europei hanno dovuto fare gli straordinari per inviare dichiarazioni alle agenzie di stampa, inondare i social di commenti, rilasciare interviste a sostegno della giusta causa contro i crimini di guerra commessi in Ucraina.

   Ma quando Khan, negli stessi giorni, ha consegnato al Consiglio di sicurezza Onu il suo rapporto sulla Libia, la reazione è stata il silenzio. Non per indifferenza, bensì per lasciar cadere le accuse. «Gli abusi contro i migranti», si leggeva nel report dell’Aja, «possono essere qualificati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità». E perché non ci fossero dubbi sulla corretta interpretazione, Khan parlava di «crimini commessi nei centri di detenzione». Strutture ufficiali sotto il controllo del governo. Quello di Ain Zara è tra i principali. A migliaia vi sono rinchiusi, rastrellati dalla sbirraglia e consegnati al Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione. Uomini, donne e bambini. Non fa differenza.

   E non c’è tempo per scandalizzarsi davanti ai soprusi subiti dagli ultimi della fila. Le guerre che subiscono ci sembrano lontane. Poco importa se le armi usate anche lì hanno marchi che ci sono familiari. (NELLO SCAVO)

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